Recensione. Uomo senza meta. Giacomo Bisordi tra le pieghe del capitalismo nel testo di Arne Lygre, al Teatro Argentina di Roma. Con Francesco Colella e Monica Piseddu.
Non è un segreto che il Teatro di Roma sia da tempo finito al centro di fastidiose polemiche per la questione della vacante direzione generale e per varie incongruenze di carattere amministrativo e, in parte, ideologico, ma è parso altrettanto chiaro come Giorgio Barberio Corsetti, nel disegnare la stagione artistica (una prima parte invernale, in attesa di sviluppi pandemici) che ha nominato “Cantiere dell’immaginazione”, abbia deciso di rispondere con due parole fondanti proprio dell’arte, per come desidera che essa risalti tra le sale di questo teatro: qualità e coraggio. Ed è proprio in nome di questo coraggio che si segnala l’apertura di stagione (si fa eccezione degli spettacoli in collaborazione con il Romaeuropa Festival 2020) affidata a un regista giovane, al debutto sul palco di un teatro nazionale, alle prese con il testo di un autore norvegese poco noto in Italia. Si tratta di Giacomo Bisordi, al debutto sul palco del Teatro Argentina con Uomo senza meta, scritto da Arne Lygre.
In una dimensione esplosa il palcoscenico è fin da subito esteso nella sua maggiore profondità e altezza: due uomini camminano in una astratta lontananza, guardano verso il pubblico dalla cima del fondale, cercano di mettere a fuoco un luogo che pian piano si avvicina, si mostra, ai loro occhi; li accoglie uno spazio vuoto, un fiordo incontaminato e a quanto pare bellissimo, ideale per la fondazione di una nuova gloriosa città. Pietro, ne sarà il fondatore. L’altro, che gli è Fratello, ne sarà come sempre servitore. Pietro è un miliardario, un visionario che sposta denaro assieme ai propri progetti, assieme ai sogni magnificenti che inquadrano qui e ora ciò che ancora non esiste. Nulla, pensa Pietro, resiste alla potenza del denaro, tutto è in vendita, cambia solo il prezzo. Così come questa terra che il legittimo proprietario dichiara avere il costo della propria vita. E, infatti, al costo della vita, della propria identità, la vende al miliardario.
L’edificio della città inizia e si sviluppa in fretta, una struttura va a comporsi sul palcoscenico vuoto e diventerà così simbolo di un nuovo luogo in cui abitare, in cui svolgere la scena. L’uomo del fiordo (Giuseppe Sartori), privato ormai di ciò che lo rendeva uomo libero, si unisce ai fondatori della città come Assistente, sarà ancora con loro dopo trent’anni, quando, durante le feste per la celebrazione dell’anniversario cittadino, si avverte la malattia di Pietro (molto intenso Francesco Colella, a un tempo trionfante e, infine, misero), esplicitata dalla presenza di elementi da camera di ospedale, calati dall’alto attraverso una discesa perpendicolare. Appaiono sulla struttura in legno e subito creano un diverso ambiente, definiscono l’azione e la natura delle relazioni: assieme al Fratello (Aldo Ottobrino, servile e via via furente, replicante del suo dominus), Pietro chiama accanto a sé l’Ex Moglie (Monica Piseddu, energica e perduta) e una Figlia (Anna Chiara Colombo), che solo di recente ha saputo di aver avuto e che ritrova chissà dove nel mondo. Una famiglia. Ma quale rapporto li lega a Pietro, miliardario che tutto acquista? Se tutto ha un prezzo, ce l’hanno pure i sentimenti, anche l’umanità si può comprare, in un meccanismo di ricatto reciproco che aggiorna il concetto di schiavitù.
La compravendita è rendere evanescente sia la merce che i due termini della transazione: colui che compra e colui che vende; ecco allora come, con la morte di Pietro, viene meno il collante in grado di tenere insieme le relazioni dis-umane, fatte non di persone ma di ruoli; lo stesso Pietro è il solo ad avere un nome, ognuno degli altri personaggi è riconosciuto tramite la funzione che svolge nell’avventura del protagonista, la sua storia, sviluppata attraverso il movimento di capitali di denaro. La stessa città perde forma, perde estensione, si limita alla casa del protagonista perduto o, meglio, a tutti i suoi oggetti da eliminare, togliere di scena, togliere dalla vita che ci si illude possa realmente continuare. È in quel momento che una Sorella (Silvia D’Amico, esitante, timorosa e precisa nell’abitazione spaziale), vera parente di Fratello, appare nella vita della comunità impazzita: lei è l’ultimo elemento umano, la sola vera famigliare, l’unica non pagata per essere tale e che rifiuta ogni offerta di denaro, l’unica che sarà eliminata dallo scorrere inevitabile degli eventi a cui non potrà opporsi. La comunità alimentata dal capitale continua a fagocitare sé stessa, affoga ogni tentativo di reale trasformazione in società umana.
Il testo di Lygre (nella traduzione di Graziella Perin) si compone di frasi brevi, dialoghi serratissimi e assenza totale di monologhi; conosciamo pertanto i personaggi solo nella loro interazione meccanizzata – simbolico effetto del capitalismo – e mai nella loro potenziale intimità; ciò impedisce ai personaggi di svilupparsi, al punto da confermarli anonimi e meramente funzionali. È qui che la missione di Bisordi, pur lodevole nelle intenzioni e negli sforzi profusi, si fa per certi versi impossibile: la sua ideazione estetica e linguistica non può fare a meno di ciò che strutturalmente manca dalla drammaturgia, ecco dunque come le sue scelte, le interpretazioni date agli sviluppi della vicenda, gli snodi messi a fuoco attraverso una cura spaziale dal sapore ronconiano – complici le luci di Vincenzo Lazzaro – non riescono ancora a condensare un messaggio equilibrato per gli spettatori e ad esplicitare uno stile registico di cui si intravedono tuttavia eccellenti prospettive di pensiero e sensibilità.
Simone Nebbia
Ottobre 2020, Teatro Argentina, Roma
UOMO SENZA META
di Arne Lygre
traduzione Graziella Perin
regia Giacomo Bisordi
con Francesco Colella (Pietro), Aldo Ottobrino (Fratello), Monica Piseddu (Moglie), Anna Chiara Colombo (Figlia), Silvia D’Amico (Sorella), Giuseppe Sartori (Proprietario/Assistente)
costumi Anna Missaglia – luci Vincenzo Lazzaro
aiuto regia Fausto Cabra – assistente alla regia Angelo Galdi
i diritti dell’opera Uomo senza meta di Arne Lygre sono concessi da Colombine Teaterförlag, Stoccolma
in collaborazione con Zachar International, Milano
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale