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L’arte ferma la violenza nelle città

Una sera come tante, un attimo prima di entrare al cinema per vedere Le sorelle Macaluso di Emma Dante, diventa un richiamo sensibile alla rivendicazione dell’arte scenica come fondamento della vita umana. Una riflessione impressionista sul tempo che ci aspetta di resistenza alla barbarie.

È già sera, quando arriva la notizia. La volta in cui sarebbe cambiata l’ora, quella solare, ma di notte; avremmo messo le lancette un’ora indietro, ma la sensazione diventa presto universale, come fossimo finiti indietro non di un’ora ma di mesi. Appena pochi metri prima di entrare al cinema, è come un paradosso, una frattura del tempo, accorgersi che sarebbe stata, per un po’, l’ultima volta. E non è chiaro se prevalga più la rabbia, per dover di nuovo sottostare a regole severe e incompatibili ai sacrifici fatti, oppure maggiormente è il desiderio di non perdersi un secondo delle immagini che passeranno, quel dialogo segreto e serrato ch’è tra il buio, gli occhi e lo schermo. E pure il cinema è quello povero dei centri parrocchiali, dietro una chiesa o poco lontano, riconvertito alla prima visione da qualche appassionato di una zona silenziosa vicino al fiume, per amore, solo per amore, senza avere l’appeal dei multisala; il posto te lo scegli a mano, indicando su un foglio con la pianta stampata il punto esatto in cui vorrai vedere il film; la ragazza alla biglietteria ti segna a pennarello verde, in rosso invece segna mestamente i posti attorno che non dovranno essere occupati. Sono 4 euro, solo 4 euro. Per vedere Le sorelle Macaluso di Emma Dante. Per andare in profondità in una storia tragica e umana. Per mettersi a sedere sulle poltroncine di legno e quel tessuto sfatto, intriso di una dignità popolare, in un cinema parrocchiale.

Il cinema si fa, prima di essere visto. È tutto già pensato per quando si mostrerà. E però, se dentro un film resta nascosto un poco di teatro, la natura del qui e ora cambia segno, si dilata a interrogare un tempo fatto di rimandi intimi, memoria, occasioni. La storia è tratta da una pièce, della stessa Dante, che vide il palco ormai sei anni fa, girando ovunque per l’Italia intera: una famiglia di sole donne, cinque sorelle – dalla più grande, Maria, fino alla piccola Antonella si crescono a vicenda, allevano colombi e vivono la casa che certo è stata di famiglia, mentre chi ne faceva parte chissà s’è ancora vivo. Ma non importa, il tempo è sempre, sempre presente: bisogna vivere ora, bisogna vivere, ora. Le più grandi accudiscono le più piccole, sorrisi e dispetti, litigi e tante mancanze sopperite in qualche modo, nella Sicilia appena cittadina di un secondo Novecento sfumato nella miseria. Fin quando l’evento tragico si affaccia a fratturare un equilibrio e nulla più sarà come prima. La piccola delle sorelle, per giocare con le altre, dolosamente annega nell’acqua del mare, proprio nel posto dove tutte le sofferenze e le distanze tra l’una e l’altra, ogni volta, scomparivano. Nel posto dove ognuna, a modo suo, era felice. E il tempo poi, ferito, lascia una cicatrice nella vita di ognuna, incapace di accettare l’errore – a loro modo – la colpa.

Ma non è questo, non solo, perché in un momento simile della nostra storia, in cui le arti sceniche sono deprivate del loro valore culturale e umano, trovarsi di fronte a un cinema con il teatro dentro ha qualcosa di commovente e insieme catartico: l’afflato poetico che permette al teatro di interpretare emotivamente una vicenda fino a far saltare i nodi della trama, agendo per pura evocazione, per rimando intimo, per apparizione, quando è trasferito al cinema esplicita l’immagine, la amplifica sensibilmente in virtù del movimento e delle dimensioni, sviluppando il potenziale immaginifico grazie ai piani dell’inquadratura, alla fotografia, alla dilatazione o contrazione del montaggio. Moltissime delle scene che compongono il film hanno un connotato profondamente teatrale: il rossetto allo specchio del bagno che la piccola chiede di avere sulle labbra, quando la sorella maggiore si sta truccando per la giornata al mare e lei la guarda ammirata; i mobili della casa che invecchia assieme a loro, che perde come loro il confronto con il progresso umano, fino a scomparire e con essa tutti gli oggetti che vi erano conservati; la dichiarazione di Maria di essere malata, quando una sera, già grandi, le sorelle stanno litigando amaramente all’ora delle paste dopo la cena: lei non sa come dirlo, torna dalla propria stanza fasciata nel tutù bianco che aveva da ragazza, quando sognava di ballare per fuggire via librandosi nell’aria come proprio i colombi, bianchi, della loro infanzia; non può fare altro che dirlo e basta “Ho il cancro”, e poi sedersi al tavolo dove nessuno più le siede accanto, offrire alle sorelle l’immagine in primissimo piano di lei che divora i pasticcini uno dietro l’altro, con una voracità estenuata, lenta, irreparabile, tanto basta a non dire più nulla e che la scena basti a sé stessa, senza dover seguire un iter realistico di deperimento del corpo, di ospedali, di tentativi, come se quei pasticcini fossero essi stessi il corpo che smette, da quel momento, di essere al mondo.

Prima che incendiare le città diventi l’unica forma riconoscibile, cieca e violenta, di relazione con il reale, ognuna di queste macchine espressive è un manifesto che dichiara una volta ancora, ce ne fosse bisogno, il primato dell’arte come forma suprema di interpretazione e trasformazione delle emozioni e dei pensieri umani, la concretezza della possibilità che l’uomo porti fuori di sé quel che risiede dentro, la dimensione complementare che l’esperienza artistica offre alla realtà visibile dell’esistenza. Basta un’immagine, perché appaia cinema. Basta un gesto, perché accada teatro. Oggi più di ogni altro tempo la realtà offre la sua sfida più difficile, oggi più di ogni altro tempo l’inaccessibilità all’arte di rappresentazione, proprio di quella realtà, può diventare un limite invalicabile alla comprensione degli eventi, alla percezione della bellezza, una barriera di scoglio incapace di accogliere il velo dell’onda, il manto che raffina la pietra, carezza o violenza che sia.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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