Recensione. Glory Wall di Leonardo Manzan, ospitato alla Biennale di Venezia 2020 (vincitore del premio della giuria internazionale). Visto al Teatro Vascello di Roma. Torna al Teatro Vascello a maggio 2022
Al Teatro Vascello c’è tanto pubblico, nonostante la pandemia, certo è una domenica che precede di qualche giorno il peggioramento della situazione, l’arrivo del coprifuoco a mezzanotte e la chiusura di alcune strade e piazze. Fa piacere riconoscere una platea numerosa e varia, nonostante mascherine e distanziamento. Una platea anche popolare, composta in gran parte da non addetti ai lavori. Segno che al pubblico di Monteverde e della città tutta mancava il Vascello. D’altronde Manuela Kustermann e il suo gruppo hanno organizzato una stagione da seguire, rischiando anche in quelle occasioni in cui vengono proposti autori meno noti.
Le qualità che sottolineavamo nella platea – variegata e popolare – ci torneranno utili per riflettere sullo spettacolo in questione, scritto e diretto dall’enfant prodige, Leonardo Manzan, giovane leva della regia, di soli 28 anni.
Di cosa parla il suo Glory Wall? Del teatro? Dell’impossibilità di mettere in scena un tema? Dell’incapacità di riflettere su un tema? Della mancata volontà da parte dell’artista di relazionarsi con una commissione? Di un giovane artista molto intelligente che vuole prendersi gioco di tutto e tutti gridando così la propria libertà e mettendo in mostra la capacità di scrollarsi di dosso il marcio del sistema? Dell’assenza di un potere da combattere? Della solita autoreferenzialità del teatro?
Prima di dar voce a una sorta di denuncia attraverso la quale Leonardo Manzan attacca il teatro contemporaneo accusandolo di essere incapace, nonostante la libertà di cui può usufruire, di esprimere un pensiero e cantandone sostanzialmente la morte, Glory Wall parte da una idea intelligente: è possibile fare uno spettacolo sulla censura in un momento storico e in un paese in cui la censura non esiste?
Il giovane regista è cresciuto nelle file degli artisti della scena delineate in questi anni da Antonio Latella alla Biennale, dove vinse già il bando per registi under 30 nel 2019 con Cirano deve morire. Proprio il direttore artistico aveva chiesto ai registi ospitati nell’edizione 2020 di ragionare attorno al tema della censura: “sentiti libero” gli aveva detto Latella. E da qui il paradosso dell’autocensura, la cui messa in scena è valsa il premio di miglior spettacolo per la giuria critica internazionale. Secondo i giornalisti (Maggie Rosevdi “Plays International”, Susanne Burkhardtvdi “Deutschlandfunk Kultur”, Evelyn Coussens “De Morgen”, Justo Barranco “La Vanguardia”) il lavoro di Manzan “affronta nel modo più innovativo e radicale il tema del Festival: la censura. Comprendendo che la censura è sempre una questione di potere. In questo caso il potere, o la sua mancanza, nel nostro teatro.”
Autore insieme a Rocco Placidi, il regista lavora così attraverso due principi di base: la presenza di un muro, grande quasi quanto il boccascena, con il quale rendere plastica questa negazione dello spettacolo (a sottolineare che l’autocensura è l’unica censura possibile) e la manifestazione dell’io creatore grazie alla proiezione del pensiero e dunque di parte della drammaturgia proprio sul muro. L’effetto sonoro della pressione dei tasti accompagna il classico espediente per il quale le frasi appaiono come se venissero scritte in quel preciso momento. L’artista insomma è invisibile, una sorta di divinità che ci guarda plasmando il proprio universo durante la creazione. Questo artista/deus ex machina ha anche una incarnazione più vicina alla sfera del reale, una voce di donna che accompagnerà lo svolgimento dando alcune istruzioni mirate al pubblico (bravissima Paola Giannini, la cui tecnica impressionante emergeva già in It’s App to You, diretto qualche anno fa sempre da Manzan).
Nella parete appariranno di volta in volta dei buchi larghi abbastanza per mostrare mani e avambracci dei performer, come per il “glory hole” appunto, il muro grazie al quale si possono avere rapporti sessuali senza essere visti.
Manzan vuole dissacrare, far pensare, vuole far arrabbiare lo spettatore colto, colpire. Ma oltre lo sfogo e l’idea iniziale poi cosa rimane? La parte centrale dello spettacolo spesso è un susseguirsi di trovate giocose, qualche volta argute e divertenti, qualche volta semplici riempitivi, come il karaoke su Felicità di Albano. D’altronde lo spirito incendiario già si capiva dall’inizio: “se volevate capirci qualcosa Gifuni era la settimana scorsa”. Al pubblico viene chiesto un accendino per una mano che spunta con una sigaretta, a un altro spettatore si chiede aiuto per raccogliere un dizionario nel quale verrà letta la definizione di censura. Ad alcuni malcapitati, dai loro posti, verrà chiesto di leggere brevi dialoghetti tra Sade, Pasolini, Giordano Bruno e Gesù. Cuore dei discorsi naturalmente è la censura e la libertà di pensiero, con l’obiettivo di dissacrare e smitizzare, anche attraverso la presenza di un quinto, Albano Carrisi, censurato in Ucraina.
Nel pubblico in sala (lo abbiamo visto nell’ultima replica domenicale) è presente Antonio Rezza, al quale toccherà anche dare la voce ad alcuni dialoghi. Nella verve di Manzan c’è qualcosa del graffio di Rezza/Mastrella, nella volontà di accostare l’alto con il basso, nella ricerca di una risata liberatoria e anarchica e dunque anche nella necessità criticare il sistema. Ma il duo di Pitecus, incarnata la lezione di Artaud, è in grado di produrre un proprio immaginario, di edificare un linguaggio teatrale, anche quando si tratta di “affermare” senza raccontare. A Glory Wall manca proprio la volontà di rischiare, il rischio vero della creazione, la possibilità di affermare oltre il gesto nichilista.
Tanto che l’ultima parte, una lunga intervista autoironicamente rappresentata con la voce del regista e un pene che spunta dal muro, ricade proprio nel circolo vizioso denunciato da Manzan, autoreferenzialità ed elitarismo, perché finisce per chiudersi proprio in un discorso per addetti ai lavori (senza però la possibilità o volontà di un approfondimento serio). L’invettiva a tutto campo, che non fa sconti e prigionieri, serve ad accendere una luce sulla questione? Forse sì, ma in effetti, è da più di vent’anni che il teatro occupa uno spazio minoritario nel dibattito e nella società, e quasi da altrettanti anni si interroga su tale questione. Dobbiamo ignorarla? Certo che no, ma forse dovremmo cominciare a capire cosa salvare e cosa creare, oltre al gioco dello sberleffo concettuale, per altro già superato, già acquisito. Lo diciamo spesso, il teatro, anche quello d’arte, in Italia, è una pluralità complessa di voci, modalità produttive, stili, attitudini, relazioni: fare di tutta l’erba un fascio serve a poco se non ad abbassare le aspettative e a farci trovare così, tutti, a cantare Felicità, credendo di essere ancora innovativi, radicali e iconoclasti.
Andrea Pocosgnich
Glory Wall
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini e Giulia Mancini
scenografie Giuseppe Stellato
light designer Paride Donatelli
sound designer Filippo Lilli
regia Leonardo Manzan
produzione La Fabbrica dell’Attore -Teatro Vascello, Elledieffe
Miglior spettacolo de La Biennale Teatro 2020
Vorrei sapere in base a quali criteri si può etichettate come “popolare” una platea… basta una sguardo, sentir parlare le persone, valutare la capacità di costruire un periodo complesso senza fare errori o serve dell’altro???
Salve Arianna, in realtà il termine popolare qui non è usato in modo dispregiativo, anzi. Proprio per evidenziare la pluralità delle spettatrici e degli spettatori, insomma una platea variegata non composta solo da addetti ai lavori.
Grazie
Andrea P.