Intervista a Riccardo Favaro e Alessandro Bandini, autori dello spettacolo Una vera tragedia, vincitore del Premio Scenario 2019, in scena al Teatro Astra di Torino.
Andato in scena il 12 e 13 ottobre durante il FIT Festival di Lugano, Una vera tragedia è lo spettacolo vincitore del Premio Scenario 2019, che arriverà sul palcoscenico del Teatro Astra di Torino per il Festival delle Colline Torinesi. Abbiamo intervistato Riccardo Favaro e Alessandro Bandini, rispettivamente drammaturgo e interprete, entrambi alla direzione del lavoro prodotto da LAC Lugano Arte e Cultura, in una conversazione sui loro percorsi recitativi, sul loro incontro, sulle difficoltà e le opportunità che incontra un giovane artista.
Questa è l’era della formazione permanente come acquisizione di base e strumento di continua reinvenzione del mestiere. Che ne pensate e qual è la vostra formazione?
Alessandro Bandini: Io ho fatto la scuola del Piccolo ed è stata molto complessa, mi ha messo in crisi come persona rispetto ai miei punti di forza e debolezza, ha tirato fuori cose che mi sono portato dietro. Mi ha segnato in modo forte, molte decisioni coraggiose le ho prese dopo questo percorso illuminante. Per quanto riguarda la mia identità teatrale – se posso usare questo termine per me e per noi che probabilmente la stiamo ancora cercando e chissà se continueremo a cercarla insieme – è stato difficile dialogare e sapere di avere sempre una parte di Alessandro studente che si avvicina al lavoro. Sicuramente anche la scelta di lavorare come regista di un progetto in questo caso, mi pone nella posizione di dover imparare, di dovermi mettere in crisi, in una condizione di vero bilico, di bisogno, di curiosità. Mi metto a rischio, posso avere un istinto, un desiderio, una spinta, almeno per questo primo progetto realmente autorale e nostro. Mentre facevamo le prove, avevamo ogni tanto lo sguardo esterno di Carmelo Rifici, una sorta di tutoraggio che attualmente anche nel teatro internazionale funziona molto, una figura d’appoggio, di dramaturg. Mi rendo conto di quanto ancora abbia bisogno di continuare un percorso di conoscenza, di formazione continua. É la prima volta che mi trovo a dirigere degli attori, su un testo con certe aspettative e responsabilità. Abbandonarsi alla complessità e a una ricerca che non vuole soluzioni facili, ma che prova a interrogarsi e ad avere un terreno complesso, è un rischio, ma credo nel continuo bisogno di formarmi, come essere umano in primis.
Riccardo Favaro: La mia formazione si muove sul piano “ufficiale” fino al diploma di liceo classico nella città in cui sono nato e cresciuto, Treviso. Dopo sono scappato o piuttosto sentivo il bisogno di fare un’esperienza diversa, ho provato l’università e sono andato a Bologna un anno a studiare Lettere, ma è stato davvero fallimentare e non vedevo alcun orizzonte per me in quel tipo di ambiente. Così ho fatto l’esame di ammissione alla Paolo Grassi, con la promessa a mio padre che se l’avessi mancata sarei andato a lavorare con lui. Sono entrato alla prima occasione ed è stata un’esperienza bella, ho conosciuto persone che mi hanno insegnato molto, sia all’interno della scuola, sia fuori. È difficilissimo farsi strada, se si scrive soprattutto, invece io e il mio allora direttore Giampiero Solari ci siamo affezionati reciprocamente. Mi ha subito chiamato a lavorare con lui, facendo lo “sporco lavoro” dell’adattamento, della manovalanza con le parole, stando dietro alle esigenze dello spettacolo, magari anche di spettacoli più “pop”. Mi ha dato mestiere e mi ha insegnato a stare dentro e a contatto con le cose, a non assecondare la natura che so di avere e di cui per certi aspetti sono fiero, un po’ la tendenza all’isolamento e a intellettualizzare tutto. Poi c’è la formazione che mi sono fatto da solo, costituita di tanti incontri di lettura e al cinema; molto pochi in teatro, sono cresciuto in un contesto di provincia in cui accedere a un certo tipo di teatro di ricerca era impossibile, quasi. Mi sono costruito un mondo poetico di appartenenza da solo, andando per tentativi, guardando molto cinema e scegliendo o scartando.
La vostra collaborazione come nasce e come si è strutturata?
A.B.: Ci siamo conosciuti per un altro spettacolo: io ero attore e Riccardo aveva curato la drammaturgia a quattro mani con il regista Giovanni Ortoleva. Non avevo mai letto niente di suo e lui non mi aveva mai visto in scena probabilmente. Ci siamo trovati a dividere casa a Verona. Il primo seme è stato gettato una notte, Riccardo mi ha chiesto se avevo voglia di leggere con lui il testo che aveva finito da poco, allora si chiamava Buchi bianchi. Lo ricordo come un incontro vero e proprio, un riconoscimento, io leggendo le sue parole e lui ascoltandomi, quasi un’apparizione o un cortocircuito. Mi è sembrato di incontrare per iscritto qualcuno che condividesse, potesse comprendere e allo stesso tempo si interrogasse con lo stesso mio sguardo sulle relazioni umane e famigliari. Una volta che ti arriva e colpisce questa sorta di grande turbamento o riconoscimento immediato cerchi di non farlo più scappare, perciò nei mesi successivi a quella notte ci è rimasto impresso il desiderio di provare a dare vita a uno spettacolo capace di mettere in scena la stessa inquietudine riscontrata insieme. Poi abbiamo deciso di partecipare al Premio Scenario, lo spettacolo ha avuto una gestazione di due anni.
R.F.: Ci siamo autonomamente divisi i compiti, è venuto naturale. Posto che nessuno dei due possa arrogarsi la volontà di definirsi regista oggi, lui si è occupato in modo preponderante del lavoro sull’attore e sugli interpreti, missione abbastanza ostica e stratificata, mentre io, avendo già fatto un lavoro preliminare di scrittura, l’ho continuato, l’ho messo in discussione più e più volte. Infatti c’è una serie infinita di depositi SIAE, di modifiche. Alla fine mi sono concentrato sulla cura dell’allestimento in sè, in senso estetico, dialogando sempre. Le due strade erano queste.
A.B.: Si, c’è un deposito di passi, piccoli passi insieme. A Scenario bisogna portare prima cinque, poi venti minuti, poi gli altri venti, poi lo spettacolo in forma completa, e adesso siamo ancora in un’altra fase. Mi pare che lo spettacolo abbia avuto bisogno di questo tempo, di scontrarsi anche con degli errori, con dei tentativi. Una vera tragedia è figlio di questi errori, sono stati necessari, fondamentali, e bisogna ringraziare chi ci ha permesso di farli perché non è scontato e abbiamo avuto la gran fortuna di avere due anni in cui, passo per passo, qualcuno credesse nelle nostre intuizioni, non ci spingesse mai ad accontentarci. All’inizio Scenario, poi due residenze bellissime, Arboreto a Mondaino e l’altra a Vimodrone a Industria Scenica, e adesso il LAC. Il tempo che ci siamo presi è speciale. Riflettevo su come il terrore di sbagliare porti al timore di rischiare fino in fondo, o a cercare di fare un lavoro che rispecchi certi parametri. Noi abbiamo avuto, rispetto al tempo, un privilegio a cui abbiamo cercato di rendere merito nel migliore dei modi, queste realtà vanno ringraziate. Non so se la paura di sbagliare sia generazionale, ma genera una paralisi. Non è sempre negativa, lo diventa quando è un freno alla creatività e alla libertà di sperimentare, di mettersi in discussione, quando è legata a un concetto di produttività si trasforma in un ostacolo che castra, portando il lavoro ad essere più offuscato. Se la paura trapassa e invade lo spettacolo o la performance o l’arte in generale può ritenersi un pericolo. A volte per me è un motore e so che devo ascoltarla, ma quando diventa un limite è qualcosa da rifuggire.
R.F.: Non si sa mai a che punto lo spettacolo abbia bisogno di cambiare. Una mia insegnante diceva che tutto è definitivo finché non cambia. Ho talmente tante paure nella vita che poi in fondo nel lavoro non ne ho così tante, se non quella di non essere all’altezza dello sguardo di persone che stimo. Credo sia più una preoccupazione.
Che vuol dire farsi spazio e cercare un proprio posto o una propria identità sulla scena oggi?
R.F.: Io molto difficilmente lavoro come “scritturato”. Posso lavorare su commissione, ma se c’è la commissione c’è anche una conoscenza del lavoro che cerco di fare. L’unico parametro per cui io riesco ad entrare in empatia e in comunicazione, a stabilire dei principi di dialettica con un collega, anche della mia stessa età, e con me stesso, è il fatto di avere una poetica, o meglio di avere la necessità di averla e degli strumenti per capire che la poetica non è lo stile. Dice Gerhard Richter, uno dei mie pittori preferiti, che a lui piace tutto quello che non ha stile come i dizionari, le fotografie, la natura, se stesso e i suoi quadri, perché lo stile è una cosa violenta e lui non lo è. Quando si confonde lo stile con la poetica credo si corrano dei grossi rischi e io non faccio parte o non mi muovo su quel campo. Se poi questo mi possa portare in senso carrieristico molto avanti oppure no non lo so e non mi importa così tanto, perché sento l’esigenza di qualcosa di diverso in questo momento.
A.B.: Sicuramente è difficile, richiede molta pazienza e molto tempo, penso sia anche una questione di scelte. Rispetto a Una vera tragedia ciò che ci porta ad andare avanti, a ricercare, a non accontentarci, è quanto ci faccia stare bene: ho gioia quando provo e riesco a portare i miei colleghi a certe conquiste come direttore di attori. E anche se cado in crisi con loro, questa gioia è impagabile. Può sembrare melenso, ma fare un viaggio vero con loro, in questo caso con le parole di Riccardo, per me è talmente grande da riuscire a sostenere tutte le difficoltà pratiche e umane. Quando si esce dall’Accademia si cerca di fare più esperienze possibili, guardarsi intorno, accettare molte cose. Forse poi si inizia a scegliere cosa andare a vedere o cosa senti ti appartenga di più, quali siano le poetiche appunto, i linguaggi, i mondi con cui si ha un “riconoscimento”, parola per me molto importante. Ultimamente ho studiato Coefore di Eschilo e mi sono soffermato sulla scena in cui Elettra incontra Oreste, non è un riconoscimento solo fisico, è un riconoscimento dell’anima, del linguaggio, è nella parola. Scegliere è la cosa più difficile, ma permette di fare un salto di qualità e rende più nitido un lavoro.
Con quale urgenza nasce e come ha trovato una propria forma lo spettacolo?
R.F.: La forma che ha adesso è la risultante della sua cronistoria: compagnie un filo diverse, diverse fasi ed esigenze di lavoro. Lo spettacolo è cambiato, ci siamo resi conto che avevamo talmente tanto lavorato la prima parte, per la “procedura” del Premio Scenario, che tutto il resto, essendo la mia scrittura preventiva rispetto al lavoro, si è rivelato non all’altezza. Perciò io per primo sono stato costretto a riformulare un pensiero e una riflessione su quanto doveva accadere dopo la prima mezz’ora dello spettacolo. La legge della scena si è imposta su quanto io credevo essere l’inviolabile legge della scrittura. Tutto è stato riscritto, da un anno a questa parte lo spettacolo è cambiato quasi per la metà. Credo che la forma odierna sia davvero il risultato dello sforzo dialettico di una fase di lavoro che fisiologicamente è dovuta venire dopo e mettersi in discussione in modo totalizzante.
A.B.: Quello che mi piacerebbe accadesse è che lo spettacolo andasse a minare o comunque intervenisse in zone un po’ nascoste dell’anima delle persone. Come quando si guarda un film di David Lynch, quei luoghi misteriosi che non si sa cosa sono e non si sa perché si ha paura, quale pensiero o ricordo si stia risvegliando. Quelle zone d’ombra dimenticate o che cerchiamo di rimuovere, di mettere a bada perché violente o pericolose, dolorose o segrete. Ci sono film che toccano degli anfratti, delle ferite che l’anima mia ha tentato di ricucire o di nascondere, ed è quel tipo di inquietudine che vorrei che lo spettacolo suscitasse o che lo spettatore si portasse con sé, per poterci ragionare su. Lynch è venuto fuori inconsapevolmente, quando la giuria di Scenario ha scritto nella motivazione “atmosfere lynchiane”, noi non ci avevamo pensato. Per Riccardo credo si tratti di una questione strutturata, cita spesso Polanski o anche tutti i film di Haneke: labirinti temporali e spaziali che portano a un certo tipo di risveglio o a far vibrare corde che non si sa cosa siano e restano così. Nasce l’inquietudine, non si sa cosa colpisce, non si sa se inserirla nell’emotivo, nel razionale, non si sa dove ci si trovi e ci si perde insieme all’opera d’arte. Questo nero e questa cupezza sono tratti fondamentali di Una vera tragedia.
Rappresentazione e autorappresentazione, cortocircuito di sistemi figurati e materiali, tracollo comunicativo, genitorialità: cosa prevale nello spettacolo?
R.F.: La mia difficoltà è avvertire che quando si lavora con strumenti propri del teatro di parola c’è sempre un genitore che non vorremmo avere, lo chiamerei episodio: la metateatralità. La parola crea molti più ostacoli che occasioni di riflessione ormai. Un tipo di dinamica assolutamente non codificato nello spettacolo. Invece credo il punto sia mettere in discussione dei sistemi, uno scontro tra due nature opposte a cercare non una mediazione ma una coesistenza. Il provare un disagio, per tornare su Lynch, “lynchano”, termine che suppongo a Lynch non piacerebbe perché lo si attribuisce a questioni di carattere estetico, senza andare a pensare alla sua grande lezione: una profonda onestà nel non voler essere esegeta di sé e non porsi alcun problema nel far coesistere narrazioni diverse. Mettere sullo stesso piano, nello stesso campo di spazio-tempo realtà narrative e dialettiche apparentemente incompatibili per una logica da spettatore. Anche involontariamente, noi facciamo coesistere principi di teatro psicologico e altri di teatro epico, se volessimo usare delle definizioni scolastiche. Principi profondamente legati a una visione deterministica dell’accadere in scena ed elementi di abbandono, di libertà, di pericolo, di precipizio nella creatività singola dell’interprete. La messa in discussione dei sistemi non avviene nello spettacolo per un principio di demolizione o di destrutturazione, bensì di dialogo tra contraddizioni.
A.B.: Il titolo stesso porta dentro una dualità, anche in modo ironico. Negli ultimi due o tre anni ho viaggiato abbastanza, sono stato due anni a Vienna, a Berlino, ho visto diverse cose e molti lavori arrivati alle ultime Biennali dall’estero, ho seguito la programmazione a Lugano che riflette molto sul contemporaneo. Mi rendo sempre più conto di quanto ci sia un progressivo abbattimento tra personaggio e persona, ho sempre più in mente lavori in cui la barriera o la figura del personaggio viene abbastanza distrutta o abbandonata per riflessioni più personali in cui l’attore fa un altro tipo di lavoro. Dopo aver letto il primo testo dello spettacolo mi sono reso conto di come fosse perfetto, i cambi continui di identità, già insiti nel testo, sono stati portati dalla regia e da chi ha lavorato sul testo al massimo grado. Poteva essere esattamente una riflessione o un tentativo da parte nostra di rendere teatrale e allo stesso tempo complesso l’annullamento del personaggio. Da solo non ce l’avrei fatta, ho intravisto negli spazi vuoti delle parole di Riccardo la possibilità di riflettere e lavorare le impressioni. Con gli interpreti facciamo un lavoro sulla parola, o meglio su come l’attore si mette in relazione con una parola, qual è il suo punto di vista rispetto ad essa e se cambia come si relaziona a questo mutamento. La ricerca, anche abbastanza esplicita, è proprio lo spazio che c’è tra l’attore e la parola e come possa andare a colmarlo, a negarlo o arricchirlo. Forse questo è “teatrale”.
Con lo spettacolo avete vinto il Premio Scenario 2019 e vi siete poi trovati a fare i conti con lo stop imposto dalle chiusure. Come avete ripensato la vita dello spettacolo?
R.F.: Siamo tra le compagnie che si sono viste bloccare il processo di lavoro. Quando abbiamo potuto riprenderlo, il pericolo dietro l’angolo che avvertivo era di adottare un orizzonte moralistico rispetto a quanto successo. Se qualcosa deve cambiare deve farlo in senso più responsabile, avere un respiro che non stia nel presente, nel qui ed ora e non sia figlio di un episodio, ma si assuma la responsabilità di andare a indagare ancora più indietro, ricoprendo un tempo e uno spazio ancora più ampi, riconducendo a un bisogno che prima poteva accontentarsi dell’essere spendibile in poco per trasformarlo in un’antenna ancora più alta, dimostrando come la legittimità di fare quel lavoro pre-chiusura non è la stessa, ma ancora più forte. Altrimenti si entra nel campo del tema e diventa la “palude degli orrori”.
A.B.: Dovevamo debuttare a giugno. Sono stati mesi di riflessione, abbiamo cercato di farci delle domande ancora più personali e attente sul progetto ed è stato fondamentale.
Marianna Masselli