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Fare i conti con quello che abbiamo. Familie di Milo Rau

Recensione. Familie di Milo Rau ha debuttato al Teatro Argentina, nel cartellone di Romaeuropa.

Foto NTGent / Michiel Devijver

«C’è qualcosa che si trova nella famiglia che non si può trovare da nessuna altra parte: una specie di patria e forse anche di significato». Nell’intervista condotta da Carmel Hornbostel che viene distribuita all’ingresso del Teatro Argentina, Milo Rau traccia, con parole semplici, il diagramma del mistero che inscena. Familie, la sua ultima creazione che ha debuttato in Italia nel cartellone di Romaeuropa Festival, chiude la trilogia dedicata ai crimini moderni e, di nuovo dopo Five easy pieces e The repetition, prende le mosse da un caso di cronaca: il suicidio corale della famiglia Demeester a Calais nel 2007. Padre, madre e due figlie si impiccano nella loro veranda, lasciando solo un biglietto («Ci siamo spinti troppo in avanti, scusateci») a didascalia (non spiegazione) di un gesto che è stato impossibile ricondurre a ragioni finanziarie e di salute fisica o psichica, invalidando dunque la griglia che siamo soliti adottare per leggere il suicidio.

Foto NTGent / Michiel Devijver

La platea è una scacchiera di sedute impegnate, libere e contingentate, gli spettatori prendono posto con una cautela nuova, eredità del 2020, mentre un cinguettio quasi impercettibile si muove nell’aria. Sul palco una struttura prefabbricata di vetro e sottili montanti di mattoni svela un interno domestico (bagno, zona giorno e cameretta) disseminato di punti luce e ancora disabitato, a sovrastare la scena un grande schermo spento.
Lo spettacolo si apre con una lunga rassegna di cose amate («Mi piace il suono del mare, ma mi piace anche il silenzio […] mi piace il suono che fanno i cani sul parquet»), affidata alle voci di Filip Peeters, An Miller e delle loro due figlie adolescenti, Leonce e Louisa: una famiglia di attori che si incarica di indagare e rappresentare l’ultima sera dei Demeester. La metafiction è immediatamente esposta: l’input proviene da una suggestione di Louisa, accolta con favore dai genitori che da sempre desideravano condividere la scena con le ragazze. Gli interpreti iniziano ad aggirarsi negli ambienti, Louisa in proscenio racconta la genesi dell’idea, sullo schermo appaiono le immagini dei Peeters nella brumosa Calais, impegnati a raccogliere materiale per il lavoro. La modalità documentaristica, contrassegno della poetica di Rau, si presenta qui, negli spezzoni che ritraggono la breve investigazione infruttuosa, come un preludio mancato: l’assenza di appigli dischiude uno spazio intimo e simbolico.

NTGent / Michiel Devijver

La tecnologia della presa diretta, che Rau eredita dalla scuola berlinese, si muove stavolta all’interno di un ambiente domestico ed è la stessa qualità degli spazi – piccoli, chiusi, arredati in modo ordinario, ricchi di connotazioni affettive – a generare un effetto di prossimità: il primo quadro, che vede An impegnata ad allestire, sulla parete del bagno, un collage di foto di famiglia, ingigantite sullo schermo, evoca subito la possibilità dello sguardo di porsi, empaticamente e senza voyeurismo, al cospetto di un’entità emotiva altrui e di riconoscerle uno statuto che ne sopravanzi l’estrema singolarità di memoria privata.

È un confine delicato e conflittuale, questo tra la dimensione personale e quella collettiva, che Rau esplora in modo progressivo, grazie a una drammaturgia piana, leggibile, che espone – senza enfasi ma senza pudori – le piccole testimonianze di conflitto e di gioia di una famiglia. Soprattutto Familie si fa carico della responsabilità di narrare quella misteriosa capacità di coesistenza tra la vita, affettiva e sociale, e alcune sensazioni e inquietudini intraducibili, le stesse che il discorso pubblico invece marginalizza, derubricandole a naturale produzione emotiva (tanto comune da poter essere taciuta) oppure razionalizzandole attraverso le categorie della disforia psichica.

NTGent / Michiel Devijver

Nell’introduzione (pubblicata in traduzione italiana su gli Stati Generali) al suo nuovo libro Why Theatre?, una raccolta di saggi firmati da artisti e studiosi internazionali, Milo Rau identifica proprio nella franchezza – nella pura esistenza – la qualità insostituibile del teatro: «Forse il teatro è un esercizio per il nostro tempo: bisogna fare i conti con quello che abbiamo. Siamo esseri umani, non ci manca nulla. Abbiamo i nostri corpi, qualche lingua, delle norme sociali, e una storia qualche volta violenta, qualche volta promettente. […] Il teatro ci dice: vi deve bastare quello che avete. E: voglio vederlo, in tutta la sua estensione possibile […] il teatro è soggetto alle regole della realtà come nient’altro».

La scena è sempre in parziale movimento, come agitata da un brulichio leggero: i corpi degli interpreti sono impegnati in operazioni quotidiane – Filip cucina, le ragazze studiano inglese, An sfoglia le foto della giovinezza («Ora tutta quella libertà sembra orribile») – mentre le luci fredde della strada fendono a ripetizione la veranda e si intromettono nella sala da pranzo, suggerendo le sensazioni di uno spazio in cui esterno e interno possono sovrapporsi e condensarsi, l’inquietante profondità di campo di una fotografia di  Gregory Crewdson.

Foto NTGent / Michiel Devijver

Il proposito di morte, enunciato in forma di plot, si compone per gradi, apparendo e scomparendo nelle battute dei personaggi e acquistando alcune proprietà: l’autodeterminazione («una maniera calma, bella, prima che cominci il delirio»), la solidarietà («non dimentichiamo di tenerci per mano»), la necessità («Il mondo è spezzato, malato. Noi l’abbiamo peggiorato. Quindi perché dovremmo starci? […]  nulla è peggiore che realizzare che qualcosa non va e non fare nulla»).
Nell’intervista di Hornbosterl, Rau parla di «metafisica tendenza al suicidio della civiltà occidentale» come conseguenza di quella percezione di fallimento che è la «sensazione centrale del nostro tempo». Eppure, guardandoci intorno, il collasso del mondo sembra invitarci di continuo a un differente modello di pensiero e di azione: a restringere la prospettiva dei nostri ragionamenti, a misurare le nostre vite su parametri di soddisfazione e benessere del tutto slegati dalla salute del pianeta e dell’umanità, a rintracciare patria e significato in una dimensione sentimentale privata (la famiglia appunto) che dovrebbe proteggerci – in una specie di compromesso autistico, una necessaria dimenticanza – dal contatto con la realtà.

Rau converte l’enigma del suicidio dei Demeester a indagine, svolta con grande delicatezza, su ciò che potrebbe accadere nell’improbabile ipotesi che un gruppo di esseri umani, con traiettorie di vita diverse, sviluppasse una medesima permeabilità alle sensazioni prodotte da questo grande rimosso della classe media occidentale e deponesse ogni istanza di autoconservazione, ogni istinto a distogliere lo sguardo. Mi riferisco alle sensazioni perché è la qualità immateriale, percettiva del dolore (e non l’istanza politica dalla quale si sprigiona) che si infiltra nella bolla domestica e la pervade: questa invasione è narrata in modo semplice, senza ingenuità e senza consolazione, con l’evidenza debole di un fenomeno tra i fenomeni, dolce e privo di speranza, affatto in contraddizione con l’amore.

Foto NTGent / Michiel Devijver

Le note di Too many birds di Bill Callahan accompagnano la lunga sequenza in cui i Peeters/Demeester sgombrano, pezzo per pezzo, il salotto e, dopo una lenta vestizione simile a un rituale antico, si dirigono in proscenio e si mettono in posa, come per un’ultima foto di famiglia. Louisa, che da grande vorrà fare la costumista, spiega di aver progettato gli abiti di ciascuno e svela la simbologia segreta delle fatture, le bordature, i materiali e i dettagli che indicano un carattere personale di chi li indossa. L’indizio sull’ambizione futura incrina, esibendo lo scarto finzionale,  l’atmosfera di morte e disallinea per un attimo i destini delle due famiglie. Tornano alla mente i versi di Wisława Szymborska in conclusione a The repetition: l’atto più importante della tragedia è il sesto, quello in cui l’attore rientra tra le fila dei vivi. È solo un istante, quello che precede l’impiccagione.

«Se noi avessimo una visione e una percezione acuta di ogni vita umana comune, sarebbe come udire l’erba mentre cresce e il cuore che batte dentro lo scoiattolo, e moriremmo di quel frastuono che si trova dall’altro lato del silenzio» scriveva George Eliot. Ed è in un simile stato di grazia naturale (restituita con economia e linearità sorprendenti di parole e di gesti) che il mistero si compie come un rito di redenzione – i quattro corpi frontali al pubblico, appesi a una trave del salotto vuoto – consegnandoci una verità sensibile e il dovere di dimenticarla.

Ilaria Rossini

Settembre 2020, Teatro Argentina, Roma, Romaeuropa Festival

FAMILIE (FAMILY)

di Milo Rau & ensemble
con Leonce Peeters, Louisa Peeters, An Miller, Filip Peeters
regia Milo Rau
testo
Milo Rau & ensemble
drammaturgia e ricerca 
Carmen Hornbostel 
coach 
Peter Seynaeve
set design 
Anton Lukas
costumi:
Louisa Peeters & Anton Lukas
video & live camera:
Moritz von Dungern
disegno luci
Dennis Diels
arrangiamenti musicali 
Saskia Venegas Aernouts
assistente alla regia 
Liesbeth Standaert
assistente alla drammaturgia 
Eline Banken
operatore video e suono 
Raf Willems 

direttore di produzione Els Jacxsens
direttore produzione tecnica Chris Vanneste
tour management Elli De Meyer

assistente alla tournèe / sottotitoli Elli De Meyer / Liesbeth Standaert / Eline Banken
direttore di palco Chris Vanneste / Oliver Houttekiet / Raf Willems / Marc Swaenen
operatore luci Sander Michiels / Frank Haesevoets / Bram Geldhof / Anton Leysen
operatore video & Suono Frederik Vanslembrouck / Dimitri Devos / Korneel Moreaux / Saul Mombaerts
live camera Raf Willems / Victor Goddyn Stijn Pauwels / Wim Piqueur

produzione NTGent
coproduzione
Romaeuropa Festival, Künstlerhaus Mousonturm, Schauspiel Stuttgart, Théâtre de Liège, Scène Nationale d’Albi
con il supporto di The Belgian Tax Shelter

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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