La compagnia Teatro dei Borgia ha messo in scena a Bari la trilogia dedicata alla riscrittura del mito: Eracle, Filottete e Medea. Un approfondimento di Enrico Piergiacomi, studioso di storia della filosofia antica e autore della rubrica Teatrosofia.
Nel sonetto Correspondances della raccolta Les Fleurs du Mal del 1857, Charles Baudelaire diceva di camminare in mezzo al tempio della Natura e di inoltrarsi in una forêts de symboles symboles. Se scrivesse lo stesso componimento oggi, forse direbbe di aggirarsi nelle città e di penetrare a fatica dentro un “ginepraio di miti”. O almeno, lo avrebbe fatto disponendo della stessa sensibilità che ha portato la compagnia del Teatro dei Borgia a realizzare la trilogia de La città dei miti. Andata in scena dall’8 all’11 ottobre a Bari, la compagnia, avvalendosi della drammaturgia di Fabrizio Sinisi, lavora a partire da una poetica teatrale che ha tra i suoi fini la ricerca delle sopravvivenze del mito nelle situazioni più estreme e ai margini della contemporaneità
Due dei tre spettacoli (tutti con la regia di Gianpiero Borgia) sono stati rappresentati al Teatro Abeliano. C’è anzitutto Eracle, l’invisibile, una riscrittura dell’Eracle di Euripide (con Christian Di Domenico) il cui protagonista uccide la moglie e i figli a causa di un raptus di follia causato dalla dea Era, per poi intraprendere un percorso di purificazione dal sangue versato. La compagnia pensa di ritrovare il personaggio euripideo nella figura di un padre insegnante divorziato, accusato di molestie verso un’ex-studentessa e finito sul lastrico per pagare il mutuo di casa / il mantenimento della famiglia. Egli è indotto da una follia dalle cause stavolta tutte umane, troppo umane, a ripetere la strage familiare e a convivere con la consapevolezza del delitto per il resto della vita. Le vere fatiche dell’eroe mitico e del suo analogo contemporaneo sono così poste dopo la lotta con i mostri che infestano la natura, non prima, come invece accadeva nella variante più tradizionale del mito. A seguire vi è stato Filottete dimenticato (con Daniele Nuccetelli), in cui stavolta sono il Filottete di Sofocle e un padre abbandonato dalla famiglia perché sofferente di una demenza clinica a entrare in risonanza. Entrambe le figure hanno in comune di incarnare la categoria del rimosso volontario: l’uomo malato abbandonato perché genera disagio o disgusto e, tuttavia, viene di colpo ricercato quando si può ottenere qualcosa di utile (l’arco necessario per espugnare Troia nell’originale sofocleo, la casa familiare per il disgraziato contemporaneo nella riscrittura). La malattia risulta così interpretata in chiave economica: una materia ripugnante che non si vuole accettare e che si intende solo sublimare in profitto. Il terzo spettacolo – ma il primo in ordine genealogico e su cui posso permettermi di non soffermarmi, essendo già stato recensito su questa stessa rivista da Simone Nebbia nel 2017 – consiste infine nella Medea per strada (con Elena Cotugno) ed è stato allestito dentro un autobus notturno. Mentre una prostituta rumena che incarna la Medea racconta la sua relazione con un Giasone-pappone e l’uccisione dei propri figli per vendetta, lo spettatore si affaccia su una Bari dormiente, attraversata da qualche occasionale passante inquieto e dalle attività commerciali ferme, o in disuso. Un misto di sonno e abbandono.
La trilogia si muove tra l’indagine concreta sul campo e l’astrazione simbolica. La genesi di ogni spettacolo deriva, infatti, tanto dallo studio dei precedenti di Euripide e Sofocle, dunque da un materiale storico e poetico, quanto dalle attività di volontariato che i due attori e l’attrice del Teatro dei Borgia hanno condotto in mezzo a tre gruppi di umanità disagiata: le prostitute in Medea per Strada, i poveri della Caritas in Eracle l’invisibile, i malati neurologici in Filottete dimenticato. Lungi dall’essere opposti e separati, questi due poli sono in realtà complementari. La componente tragica del mito può esplodere solo calando il racconto in una situazione estrema. I personaggi mitici sono del resto soggetti perfetti per la tragedia in quanto sono lontani dalla quotidianità e attraversano dilemmi morali eccezionali. Ma nello stesso tempo, il mito non riesce a rispecchiare le nostre inquietudini se non interviene anche un meccanismo di riconoscimento, che fa sì che quelle astrazioni non risultino pure astrazioni. Di qui l’importanza della ricerca sul campo, necessaria per trasformare il corpo dell’attore in un ponte tra la trascendenza del mito e la contingenza umana. Non siamo distanti dal linguaggio della Poetica Aristotele, secondo cui l’effetto tragico nasce se gli eroi rappresentati sono insieme simili a noi e distanti da noi. Se la nostra biografia fosse stata un’altra, anche noi saremmo potuti esseri i disagiati che riflettono le astrazioni del mito.
Queste ultime osservazioni permettono di precisare che la trilogia si pone in un rapporto di continuità critica verso la tradizione, non di banale rottura. È vero che gli spettatori poco addentro allo studio del mito potrebbero ritenere debordante e dissacrante la trasformazione di una figura eroica in una prostituta, in un padre divorziato, in un demente. Ciò però dipende solo dal fatto che questo fruitore medio è affezionato a un modello ereditato dall’esterno e che è ritenuto naturale/necessario dall’immaginario condiviso: quello del teatro borghese, che separa l’eroe mitico dalla contingenza e lo colloca in uno spazio-tempo diverso da quello contemporaneo. Di contro, il Teatro dei Borgia è ben addentro l’inarrestabile movimento di riscoperta del mito che, dall’antichità a oggi, cerca di riattivare una figura mitica identificando il suo analogo attuale più pertinente. Euripide era “pre-borgiano”, quando nell’Elettra rappresenta Elettra come moglie di un contadino. O lo era Strindberg, che con Il pellicano riscopre il mito dell’Orestea entro le quattro mura di una famiglia dominata da una madre tirannica (Clitennestra), a cui le si oppongono un figlio (Oreste) e una figlia (Elettra) che serbano memoria del padre morto (Agamennone). Solo i metodi di riscoperta e gli analoghi contemporanei cambiano di volta in volta. Nella struttura, invece, il Teatro dei Borgia è nuovo perché paradossalmente antico, o fa qualcosa di divergente dagli artisti che si limitano a lavorare sui modelli ereditati. La compagnia fa emergere da questo “flusso” inarrestabile le figure che in questo preciso momento storico riescono a illuminare la tragicità del contemporaneo, invece di fermare il processo confinandolo in un’immagine astorica e definitiva.
Quel che distingue il teatro di Gianpiero Borgia e dei suoi attori è allora semmai l’uso delle figure mitiche. Se la compagnia non si distanzia (e.g.) da Euripide e Strindberg per la concezione del mito come specchio del reale, enormi differenze emergono per quel che riguarda l’effetto che la rievocazione mitica dovrebbe avere sul reale. È lo stesso regista a spiegare che lo specifico della compagnia consiste nel dare una direzione “socratica” allo studio dei miti. Socrate dialogava infatti con tutti per confutare i loro pregiudizi da cui nasceva un sapere apparente e che li inchiodava a una concezione falsa del mondo. In maniera simile, il Teatro dei Borgia è “socratico” perché ricorre al mito per sfidare i preconcetti che limitano lo sguardo di tutti gli spettatori, oltre che per attuare una dinamica trasformativa. Se le cose non sono come crediamo di sapere e di percepire, la realtà è ancora da scoprire e da sentire. In questo senso, più che di “mitologia”, o una riflessione soltanto letteraria e razionale sul mito, dovremmo forse ricorrere al neologismo di “mitoteatria”: un termine che suggerisce la dinamica trasformativa della drammatizzazione del mito sulla scena.
In cosa consiste però più di preciso questa trasformazione? Qui ci si spinge oltre il piano della giornalismo culturale, per precipitare nell’attività dell’interpretazione. È dunque necessaria forse una digressione che ipotizzi la dimensione su cui il mito “borgiano” interviene.
Vi sono due spettri pericolosi e tuttavia dotati di un fascino difficilmente resistibile da cui l’essere umano può essere impossessato. Il primo si chiama “incanto” e consiste nella contemplazione di ogni cosa come buona o giustificabile, da cui nasce l’estasi entusiasta. Il secondo ha invece il nome di “nichilismo”, che di contro rintraccia nel mondo una catena di eventi senza senso, dove vige la passione dominante dello sconforto. Malgrado le differenze evidenti, i due atteggiamenti aprono allo stesso atteggiamento deleterio dell’accettazione del reale così com’è, tanto da trapassare a volte l’uno nell’altro. Gli spiriti religiosi presi dall’incanto supremo della credenza della vita dopo la morte possono disprezzare la miseria dell’esistenza mortale (non è un caso che, nel canone vetero-testamentario, sia incluso l’Ecclesiaste che diffonde il credo nichilistico della «vanità della vanità»). Per contro Nietzsche – il nichilista per antonomasia – era uomo propenso a facili entusiasmi e agli incantamenti dell’oltreuomo. La sola differenza rilevante è che l’incanto nasce da un eccesso di immaginazione acritica, il nichilismo da una debordanza della ragione iper-critica.
Ora, la proposta conclusiva che vorrei fare è che il lavoro sul mito del Teatro dei Borgia si pone in una virtuosa via di mezzo tra questi due estremi. La loro idea teatrale rappresenta in altri termini un antidoto contro gli adescamenti di queste trasfigurazioni illusorie della realtà: in un certo senso, aprono un’originale poetica del realismo. Contro le suggestioni dell’incanto, il Teatro dei Borgia non tace la natura dura e tragica del reale. I miti anzi forse vivono ed esistono in virtù dell’inferno in cui sono immersi i viventi. Non c’è rappresentazione mitica in un mondo completamente felice, poiché persino il racconto dell’età dell’oro acquista un alone mitico perché si è consapevoli che tale tempo beato è andato perduto, o non è mai esistito. Contro l’iper-criticismo del nichilismo, invece, il Teatro dei Borgia sottolinea che dentro gli eventi più terribili si riconosce l’alone sacrale e il senso impersonale del mito. Se in fondo una prostituta, un padre divorziato, un demente sono figure adatte a incarnare degli eroi, allora nella povera materia cosiddetti “infimi” si nasconde una poesia bella ma amara, come quella di cui parla Rimbaud ne Una stagione all’inferno. La virtuosa via di mezzo è insomma che la realtà non è né brutta come vogliono i nichilisti, né completamente bella come immaginano gli incantatori dalla mente sognante, bensì pervasa da una bellezza perfettibile. Il mito rivela al contempo la tragicità e la poeticità dell’esistenza, con il relativo tacito invito a mitigare la prima e perfezionare quanto più possibile la seconda.
Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti gli eroi mitici. Prendere consapevolezza di questa dimensione può aiutare a riconoscere la poesia della vita, senza chiudere gli occhi ai suoi orrori che tentiamo con ipocrisia di nascondere.
Enrico Piergiacomi
Visto a Bari, ottobre 2020, spazi del Teatro Abeliano e spazi cittadini
Info produzione e cast: http://www.teatrodeiborgia.it/trasportodeimiti/