Intervista a Nullo Facchini, che a Pergine Festival presenterà, il 30 e il 31 ottobre, Il Semplice Profondo. Una creazione del percorso ‘Creating Transformative Encounters’, a partire da un laboratorio “human specific” con cinque artiste durante i giorni di festival. Materiali creati in Media Partnership.
La tua compagnia, Cantabile 2, si concentra su un metodo di lavoro fortemente partecipativo; come è avvenuta questa scelta e quale il percorso che ti ha portato a farla?
Si è trattato di un viaggio lungo e tempestoso. Io ho iniziato con il teatro fisico e col teatro danza, certo, si trattava sempre di modalità lontane dal palco, spesso site specific, però sicuramente distanti da quanto facciamo adesso. Ricordo che ero all’EXPO del 2000 in Germania e stavamo preparando uno spettacolo basato sui miti delle sirene, un evento molto grande e complesso, pensato anche per contenere più di duemila persone, le danzatrici potevano sparire e apparire dall’acqua in uno spazio di azione vastissimo… ricordo chiaramente che per fare le prove dovevo osservarle col binocolo. Ecco, in quel momento ho capito che volevo cambiare direzione: ritornare al semplice, al basilare, a una dimensione intima, magari sempre considerando degli spazi complessi ma in luoghi in cui si potesse sentire l’odore delle persone.
Parlando di distanze e vicinanza, ha influito all’interno della tua pratica artistica questa situazione emergenziale?
Sul piano pratico ha influito poco, devo dire; quel cambio di cui ti raccontavo e che mi ha portato alla creazione di Cantabile 2 (compagnia che dirige in Danimarca, ndr) risale oramai a 15 anni fa: già allora scrivevamo e pensavamo spettacoli per ridotti gruppi di persone, a volte anche per un solo spettatore a volta. Sebbene non abbia ancora definito tutto, probabilmente anche a Pergine Festival sceglierò questo tipo di relazione, pur mantenendo la distanza necessaria; ci sono tanti altri tipi di intimità, non esiste solo quella fisica.
Un mese fa ho tenuto un workshop online, volevo testare quanto e come si potesse ricreare la dimensione del contatto pur rimanendo ciascuno in luoghi diversi, e per fare ciò abbiamo sperimentato lavorando sulla temperatura corporea. È stato molto interessante e sorprendente ritrovare quelle sensazioni anche in una relazione così filtrata.
Raccontami del gruppo con cui lavorerai all’interno del laboratorio “human specific” per dar vita all’istallazione performativa Il semplice profondo.
Si tratta di una sfida, anche perché dovremo creare qualcosa in pochissimo tempo, pertanto ho scelto delle performer (il 97% delle richieste proveniva da donne) che hanno familiarità sia con l’autorialità della creazione, che, soprattutto, con questa modalità pensata per piccoli gruppi di spettatori, con un lavoro pregresso di riduzione della distanza a favore di intimità e partecipazione. Dati i tempi, non potevo partire da zero, ma serviva già un vocabolario comune; io devo solo introdurre il mio modo di lavorare, saranno loro a portare le loro sensibilità e i loro materiali umani, fatti di storie, di consapevolezze e di sensazioni…
A partire da alcune costanti del tuo approccio creativo che prevede immersività, stimolazione sensoriale, intimità della relazione con gli spettatori, cosa chiedi ai tuoi performer?
Io chiedo soprattutto sincerità, una condizione che dimostri la più grande apertura possibile, in quanto consegno loro tantissima libertà e responsabilità nella creazione del materiale. Sono io a lanciare un tema, ma sono i performer che portano le loro reazioni a quel mio stimolo, io poi lavoro come un partner, a sostegno. Chiedo di non lavorare sulla finzione, né sui personaggi. Difatti quello che facciamo è, per certi aspetti, molto lontano dal teatro. Li definirei degli incontri, che concentrano la loro forza in un tempo molto più ristretto di quanto accada tutti i giorni. Nel quotidiano ci vorrebbero delle ore, mentre nel mondo creativo può accadere qualcosa senza i necessari meccanismi della realtà. La cosa più bella che ti può succedere venendo a vedere i miei spettacoli è di innamorarti, di scoprire un’amicizia o una fratellanza, tramite l’intimità di quell’incontro.
Dunque nel caso di un lavoro così sensibile alla relazione qual è la relazione tra efficacia e necessità di replicarlo?
Per il tipo di performance in cui si susseguono piccoli gruppi di spettatori, abbiamo bisogno di una struttura abbastanza rigida. Il problema è come crearne i paletti e al contempo lasciare degli spazi aperti in cui possa entrare lo spettatore attraverso l’interazione con il performer che di fatto lo guida. Si tratta di un ping-pong di azioni e reazioni in cui l’emotività dello spettatore influenza di volta in volta diversamente il corso degli eventi. Si tratta di una drammaturgia fatta di bivi nascosti, più volte, in più modi. Inoltre il performer non è lì per raccontarti la sua storia, ma ha la stessa curiosità di chi entra, avendo solo avuto cura di “preparare il campo da gioco”. Difatti in questo caso non possiamo fare delle prove senza una persona esterna; ho sempre bisogno di spettatori diversi. Questo mi permette di individuare diversi pattern di risposta pur rimanendo nella certezza di trovarsi ogni volta di fronte a qualcosa di nuovo. Giocare profondamente con l’empatia nel processo di conoscenza con le persone. Possiamo prevedere i meccanismi di massima, ma è fondamentale che tra performer e spettatore ci sia sincerità nell’incontro; si tratta di un binario con grandi scambi, hai i tuoi “sì”, i tuoi “no”, diverse possibilità di scelta, ma quello che è più importante è che questo binario sia chiaro, che non presenti delle scorciatoie, che non imponga “un ruolo”.
Redazione
Il semplice profondo, 30 e 31 ottobre 2020, Pergine Festival. Clicca qui per info e prenotazioni