Recensione. Al debutto il Teatro del Carretto con un sorprendente Caligola, diretto da Jonathan Bertolai e con Ian Gualdani. Festival Opera Prima 2020 di Rovigo. In scena a Roma al Teatro Quarticciolo.
Diana mi consiglia di mettermi nel mezzo ma non troppo avanti, in cima alla gradinata, il posto adatto per vedere meglio. Era iniziato tutto poco prima: per trovare la sala avevo camminato la città con una meta poco chiara nella testa, quando ho chiesto informazioni a un passante per dove fosse il teatro mi ha indicato quello che secondo lui era, da sempre, il Teatro del Learning; e poco importa che il Teatro Studio da 12 anni prenda nome dal Teatro del Lemming, perché il necessario per l’abitante di Rovigo era riconoscere che un teatro, quel teatro, ci fosse. E forse, learning, è pure la parola giusta. L’ora del buio avvolge la sala, dopo che si sia riempita, proprio quando inizia la libera riscrittura del Caligola di Albert Camus che Jonathan Bertolai, alla sua prima regia per il Teatro del Carretto di cui è componente ormai storico, ha disegnato sul corpo di Ian Gualdani per il debutto al Festival Opera Prima 2020.
Su un piedistallo poggiato a un basamento, l’idea marmorea che accompagna l’opera si manifesta lucida e imponente, a tal punto raffinata da esplicitare il contrasto con il materiale di plastica povera da imballaggio che involge, quasi lega, Caligola e la sua storia di violenza, del tradito e represso amore: è un velo che è insieme tomba e placenta, gabbia e liberazione. Il corpo d’attore penetra il tessuto sonoro imbastito da Hubert Westkemper, storico collaboratore di molte opere della compagnia, che imbraccia la solitudine di Caligola come un’arma, disponendone i segni fin dov’è il confine con la mostruosità; a tanto si spinge l’opera musicale che soggiace alla partitura di movimento e alla drammaturgia ordite da Bertolai: una matassa di suoni ora stridenti e voraci, ora più evocativi e ribollenti come di lava, di sangue, nella luce rossa di un martirio, si affollano attorno al corpo che si dimena, forse per costringerlo, forse, per liberarlo; come si potesse davvero.
Nell’oscurità dell’animo di Caligola sono mescolate, nella regia di Bertolai, azione ed intenzione, compresse nel corpo reattivo, saettante di Gualdani; la luce firmata da Orlando Bolognesi indaga le sue forme con violenza, fin quasi ad apparire un assedio. Gli schermi riproducono immagini disturbate o criptate dello stesso Caligola, sono video-specchi che ne amplificano il pensiero, esaltazioni della sua esaltazione, come a voler esprimere la disperata rifrazione della sua psiche; è in tale contesto scenico che prende forma, vita, la suggestione lunare tanto cara al personaggio di Camus, la cui parvenza apparente in risalto sulla plastica è un tenero emblema di felicità impossibile; lontana, l’evocazione lunare, vive in un vincolo con il pozzo suo contraltare, perché possa Caligola misurare la sua solitudine alla voragine dell’eternità, la luna all’immagine riflessa nell’acqua oscura.
La regia di Bertolai, coraggioso a debuttare con un testo così difficile, magnetico e incandescente, offre uno spettacolo di carattere, organico ed equilibrato sia nella padronanza atletica che nella cura con cui relaziona l’attore alle altre dimensioni semantiche, soltanto eccedendo nella vulnerabilità di alcune scelte estetiche lasciate in carico alla verve performativa di Gualdani; la sua ricerca non si concentra, come si potrebbe pensare, sul rapporto tra Caligola e il potere, ma affonda in una profondità più essenziale, non esteriore ma intima, penetrata nelle viscere del personaggio. L’intuizione di ragionare, attraverso il teatro, sulla fragilità della condizione giovanile, riverbera nel contrasto tra il disagio evidenziato nella concretezza fisica e le proiezioni future espresse nella deformazione del riflesso.
E infine cosa resta di Caligola nelle piccole statue di neonati a mezzo busto, emblemi della solenne brama giovanile di farsi da sé stesso storia? Sono esse in dialogo con la sua fanciullesca e limpida cattiveria e finiranno decapitate, evirate del pensiero in fasce, uccise prima ancora di diventare qualcosa. È lo stesso Caligola a dire: “Io non sto bene che con i miei morti”, così che gli altri personaggi non sono altro da apparizioni pendenti nella sua vicenda, senza avere un’identità definita. Caligola, giovane che si nega vecchio, si stringe nella sua vecchia pelle, una memoria mordente che reclama attenzione non più rimandabile, una realtà impossibile in cui vivere è un atto estremo di disequilibrio, senza più certezze se non il peso del dolore: “Non si può vivere in un mondo in cui la più folle fantasia può insinuarsi nella realtà”.
Simone Nebbia
Settembre 2020, Opera Prima Festival, Rovigo
CALIGOLA
regia e drammaturgia Jonathan Bertolai
suono Hubert Westkemper
luci Orlando Bolognesi
con Ian Gualdani
fonico Luca Contini – elementi scenici Rosanna Monti – scenotecnica Giacomo Pecchia
realizzazione video Diego Granzetti, Giovanni Adorni