Recensione. Francesco Alberici in Diario di un dolore. Visto nella rassegna Anni Luce al Romaeuropa Festival 2020 di Roma. Con Astrid Casali.
Anni Luce. È una distanza, tra quel che esiste adesso e quel che esisterà, c’è dentro una forza primigenia e insieme vivificante, l’intenzione, il desiderio, la promessa forse, che un pensiero progressivo ancora renderà certo l’essere al mondo. E, a far questo, ci pensa l’arte. Anni Luce. Chiamarci, in questo periodo storico, una rassegna di teatro che setaccia l’esistente perché ne sia alimentata la trasformazione nel tempo successivo, perché sia evidenziato lo sforzo di esserci nonostante tutte le difficoltà produttive e quindi creative incontrate dagli artisti delle ultime generazioni, è un atto coraggioso di cui bisogna dare merito a Romaeuropa Festival che ne dispone gli eventi e Maura Teofili – animatrice di Carrozzerie N.O.T. – che la cura fin dalla prima edizione. È in tale contesto che abbiamo potuto assistere, negli spazi del Mattatoio a La Pelanda di Roma, al debutto assoluto di Diario di un dolore, spettacolo ispirato dalla lettura dell’omonimo libro di C. S. Lewis e firmato da Francesco Alberici, in scena con Astrid Casali, anche collaboratrice del progetto insieme a Ettore Iurilli ed Enrico Baraldi.
È in piena luce che i due attori accolgono l’ingresso, sono sulla scena già da un po’ con un tavolo e alcune sedie, sotto lo sguardo di un vecchio manifesto con la copertina di Frigidaire, appeso in un angolo del fondale e, da qualche parte nel mondo, nella camera da letto di Alberici; i volti sono limpidi, i lineamenti definiti, i gesti depurati da orpelli decorativi. Alberici (ereditando caratteri stilistici da Deflorian/Tagliarini, frutto del lungo lavoro svolto all’interno della compagnia) se ne sta da un lato, ma è Astrid Casali, dall’altro, che inizia a raccontare: si tratta di una vicenda triste, un suicidio promesso e mantenuto di una sorella davanti ai propri occhi; la storia sembra vera, ma quando se ne rivela la messa in scena la sensazione è di sollievo, come quando, al contrario, si avverte quella sorta di responsabilità della visione e della testimonianza, all’apparire del classico riferimento “tratto da una storia vera”.
Durante una relazione continua di dialogo con il pubblico, in un contesto quindi in cui il teatro parla del suo farsi in corso d’opera, Alberici richiama attenzione su un momento delle prove per lo spettacolo, il più emozionante, in cui Astrid Casali raccontava di suo padre, della fulminea malattia, il dolore della perdita imminente; era perfetto da mettere nello spettacolo, ma è stato impossibile, non è mai più venuto come in quel momento. Perché raccontarne allora il tentativo? Perché forse il teatro, intende Alberici, ha più bisogno di ciò che non finisce in scena che di quanto verrà mostrato, dei lunghi silenzi, dei litigi per un taglio oppure una luce, dell’apparizione che l’artista per primo accoglie e tiene, segreta, per sé. Così come dalla lettura del libro di Lewis non si dà una messa in scena, ma ne nasce un’opera ulteriore (e molti sono i libri in trasparenza, riportati nel programma di sala: da Auster a Roth, da Sontag a Carrère). È proprio in tal punto che prende forma una domanda urgente sul perché ricordare, sul senso della memoria come ambiente umano privo di tempo, in cui coesistono passato e presente e in essi la tensione del vissuto.
Astrid Casali, maggiormente su di lei si concentra l’indagine; è sua la memoria, suo il percorso ritroso che rintraccia le epoche della sua storia personale, così che per una volta sarà, sul palco, quel che non è riuscita a essere nella vita. Sullo sfondo l’ipotesi di interpretare in scena le Tre sorelle di Čechov, il cui inizio somiglia irrimediabilmente alla sua vicenda; cosa più del teatro sa far detonare la realtà in suggestione di verità? Qui prende corpo, in uno spettacolo fatto di frammenti e ritrosie, di bugie e fingimenti, questa riuscita indagine concettuale sulla recitazione, sulla relazione altalenante tra vero e falso nel contesto della realtà; perché se da un lato il verosimile dona alla storia un carattere di maggiore penetrazione sensibile, dall’altro la presunzione illusoria fornisce tutti gli elementi per comporre una verità ad arte, pertanto emendata di possibili e non credibili spigolosità. Quando Alberici reclama “La mia storia non è all’altezza del mio dolore”, sta ponendo all’attenzione questa differenza tra un dolore indagato, profondo e il dolore accennato, che resta in superficie, senza un motivo ufficiale per soffrire. In entrambi, tuttavia, il teatro si specchia e compone come un ponte tra l’uno e l’altro, si fa strumento di trasmissione, si inarca a mettere in scena ombra e luce di una storia da raccontare.
Simone Nebbia
Ottobre 2020, Romaeuropa Festival, Roma
DIARIO DI UN DOLORE
un progetto di Francesco Alberici
collaborazione alla drammaturgia Ettore Iurilli, Astrid Casali
Collaborazione alla regia Enrico Baraldi
in scena Astrid Casali, Francesco Alberici
produzione Gli Scarti / Fuori Luogo La Spezia
coproduzione e residenze Murmuris, Olinda, Lab 121