Recensione. Samp, film di Flavia Mastrella e Antonio Rezza presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 77, Giornate degli Autori.
Nervoso, ricciuto, nerovestito in giacca fucsia, corpo stralunato, fuori luogo su un campo al sole meridiano di Puglia, chissà come resta in campo nell’inquadratura sghemba: è Samp, cioè Antonio Rezza, nel film da Rezza e Flavia Mastrella realizzato e appena presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 77.
A quel corpo che sembra un incidente di percorso, che è lì dove non ci si aspetterebbe di trovarlo, così dissonante, somiglia e aderisce il film (a sua volta dissonante, inaspettato), per più ragioni. In primo luogo perché Samp è un assassino, assoldato da un non meglio definito “Presidente” per eliminare le tradizioni nelle persone di antiquari, di anziani “custodi” di memoria, di costumi, d’individui che incarno un qualche valore “popolare” e che nello spazio del Sud hanno il brodo di coltura. Se film e protagonista si somigliano così tanto, se si chiamano con lo stesso nome, è perché in fondo sono entrambi assassini. Perché?
Ogni tradizione può sempre tradirsi: cioè, con lo stesso gesto, tramandarsi (dal suo etimo latino) e insieme snaturarsi, sperdersi, non assomigliarsi più e magari anche eliminarsi. Ma eliminare una tradizione è in fondo elidere qualcosa cui si appartiene, qualcosa che – per quanto a volte scomoda, soffocante, coercitiva – contribuisce a definire un’identità sociale, culturale, storica, qualcosa che ad essa è consustanziale.
Ogni film in fondo contrasta, assassina, qualcosa che tradizionalmente è consustanziale al cinema: tempo, denaro, scrittura. Perché un film, intanto, conserva il tempo a dispetto del suo scorrere, lo rende sempre riproiettabile per quanto “passato”, ne fa a pezzi la continuità e la “rifà”, la rimette in un’altra forma, rimontandola. Un film si fa non “grazie a” un budget, ma nonostante la sua penuria (o abbondanza: che costringerebbe a farlo come investitore-produttore vuole), ogni film si fa non “grazie a” una sceneggiatura, ma nonostante questa. Perché fatto di immagini in movimento e suoni, e non certo di parole scritte. La sceneggiatura, come il miglior cinema italiano ha sempre saputo (e, spesso, dimenticato), serve solo a rassicurare produttori e finanziatori, confortati (e illusi) di vedere “nero su bianco” il film in anticipo, come “già fatto” su carta prima ancora che girato. I film, quando sono “buoni”, coraggiosi, quando sorprendono, quando sono inattesi, quando – come Samp – sono assolutamente fuori luogo, assolutamente dissonanti rispetto a ciò che abitualmente dal cinema ci si aspetterebbe, contrastano (assassinano) tutto ciò.
A dispetto di tanti recenti film italiani, troppo scritti, troppo “televisivi” (mentre il nostro cinema più interessante – specialmente quello vicino al documentario, “meno scritto” – è stato puntualmente trascurato dalla distribuzione nazionale), Samp assassina tempo, denaro, sceneggiatura. Lo fa già nel suo processo produttivo, perché le riprese sono iniziate diciannove anni fa, e nel corso del tempo (smentendone, quindi, l’equivalenza, reificante, col denaro) è stato girato, montato.
Samp è dunque un film in perenne sfasatura temporale, che non coincide con nessun anno in particolare eppure addentro a tutti quelli in cui è stato realizzato, i primi venti del terzo millennio. E, di questi anni, a suo modo, cioè da una sfasatura, fa allucinato racconto. Perché sono gli anni che hanno visto – tra l’altro – proprio una retorica della riscoperta delle tradizioni, della loro valorizzazione a fini strettamente commerciali (il turismo sostenibile, nei borghi, lo slow food, i “festival” legati in vari modi al folklore, ecc.). E, insieme, la necessità di assassinarle, disfarsene, di abbandonare ogni localismo per abbracciare il globale, il mercato libero di individui e merci esportabili altrove, commercialmente sfruttabili. Così Samp è a propria volta “doppio”. Se per conto di un Presidente assassina tradizioni, è anche l’avversario di una una figura che da ogni tradizione, legame locale e identitario, ha voluto sradicarsi: un improbabile ragazzotto scozzese trapiantato in Puglia – quasi caricatura del modello di gioventù europea senza frontiera viaggiante di questi anni, per studio, lavoro, diletto – che si fa vanto di aver abbandonato i propri costumi (pur continuando a indossare il kilt per i vicoli dei borghi meridionali).
Samp è errante, tra improbabili assassini (e innamoramenti verso donne in vari modi irraggiungibili), tanto quanto lo è il film, perché si è fatto il conforto di una pianificazione a monte quale poteva essere una sceneggiatura (o, meglio, l’ha assassinata). Gli spazi, i set, erano “occasionali”, cercati o trovati per campagne e paesi di Puglia; così come le persone, i non attori, quelli che, ancora occasionalmente, si trovavano magari anche poco prima delle riprese. Eppure, a quegli stessi spazi, per quanto “dati”, l’inquadratura guarda diversamente, li pensa altrimenti, li riprende fuori asse, quasi mai ferma anche se fissa, coi bordi sempre un po’ smossi, tremuli, enfatizzati da una sorta di mascherino. Quel dinamismo interno al quadro stesso è già del corpo del performer, nervoso, erratico a sua volta. E come l’inquadratura vede porzioni di mondo altrimenti da come comunemente le si vede, così il corpo di un performer contrasta il corpo come il senso comune si aspetta che un corpo funzioni. Il corpo di un performer dispone di sé in altri modi, inattesi, ne esercita possibilità e impossibilità, come ha sempre fatto Rezza in scena agendo gli habitat inabitabili di Mastrella. Un performer, insomma, non fa che – artaudianamente – “rifare il corpo”, mostrare come sia fuori luogo, inatteso, per nulla confermativo di ciò che da esso ci si aspetta.
Ecco, Samp, che a quel corpo aderisce e somiglia, che quel corpo in qualche modo “replica”, fa lo stesso col mondo e col cinema. Si tratta di farli un po’ a pezzi entrambi, di decomporli e rimetterli in forme diverse, rifarli da capo, in modo tale che corrispondano il meno possibile alle nostre attese.
Si tratta di scoprire che, anche se due personaggi condividono un campo, non è detto che riescano a vedersi. Che un raccordo idraulico può sparare come una pistola (l’arma di Samp). O un guanto di gomma può essere suonato come una cornamusa. Si tratta, in questo nostro tempo indeciso se assassinare o preservare tradizioni, e se sfoderare la vanga o il defibrillatore per il cinema che da troppi anni (almeno venti) si ripete stancamente “morto”, di rifare in ogni caso ciò che è già dato.
Si tratta di reinventare e assassinare usi e aspettative consuete, del mondo come del cinema, dei corpi, degli oggetti. Di mostrarli come ancora nuovi, spiazzanti, mai familiari, sottratti ai luoghi comuni. Ancora inventivi, ancora sorprendenti.
Antonio Capocasale
Tutti gli articoli su RezzaMastrella
Samp
di Flavia Mastrella, Antonio Rezza
Italia, 2020, 78′, colore, DCP
Sceneggiatura: Flavia Mastrella, Antonio Rezza
fotografia
Flavia Mastrella
montaggio
Barbara Faonio
Eugenio Smith
suono
Flavia Mastrella
Antonio Rezza
produttori
Flavia Mastrella
Antonio Rezza
produzione
REZZAMASTRELLA
Ufficio stampa internazionale
Gloria Zerbinati
gloria.zerbinati@gmail.com
ufficio stampa italiano
Chiara Crupi
chiara.crupi@gmail.com