Recensione. Io non sono nessuno, diretto e interpretato da Emilia Verginelli: una ricerca tra relazioni, volontariato e testimonianza. Visto a Short Theatre 2020.
Si può iniziare a camminare non coi piedi ma con le mani? Esporre non dall’argomento centrale ma da un aspetto più sotterraneo? Affermare di essere dicendo che Io non sono nessuno? Presupponiamo che la risposta sia sì. Parto anche io, di lato, da quell’aspetto sottotraccia – ma fondativo, strutturale – emerso alla visione dell’opera prima di Emilia Verginelli (finalista al Premio Scenario 2019) all’interno di Short Theatre 2020. Questo concetto che sfugge dalle mani, irrappresentabile nella concretezza di un segno scenico che lo definisca una volta per tutte, eppure palpabile nella misura in cui la rincorsa sfugge sempre appena alla sua risoluzione, è per me la ricostruzione della memoria. Per spiegarla e renderla rappresentabile si tenta con dei suoi surrogati, ed essi diventano testimonianza del vuoto che, nell’atto di ricordare, dobbiamo sempre tenere presente: la dimenticanza.
Contro questo vuoto agiscono in scena, allora, interviste create appositamente (in video e dal vivo), video recuperati dal passato, copie di foto ritagliate e appiccicate su oggetti di uso comune, proiezioni live create all’impronta, Instagram stories (che della temporaneità della durata fanno il loro punto di forza e la loro debolezza). Contro la dimenticanza del corpo interviene il passo di danza, la breakdance che agisce Muradif e che è bella perché gli permette di esprimersi meglio delle parole, che gli concede un ponte tra il suo stare al mondo e quello delle persone che lo circondano, che diventa un modo di vivere, di ottenere la speranza di un futuro, un ruolo, per quanto mai del tutto codificato.
E sul problema del ruolo si apre effettivamente lo spettacolo, che, con una prospettiva da reality trend porta in scena non personaggi ma tre persone. Che fanno lì e che ruolo hanno? E, di conseguenza, che ruolo assumono l’uno per l’altro nella vita? Basta l’etichetta di educatore, di volontario a definire la loro relazione, oppure quel legame che si rinnova e si reitera in decenni di visite presso una Casa Famiglia – “tutti i giovedì”, con un moto di stupore a considerare quella ciclicità indistruttibile – può dare luogo a una relazione, quali che siano i piani (istituzionali, familiari, sociali, anche teatrali) da cui si agisce, a una condivisione di esperienze e di affetti? Sintetizzando in un’immagine: può quello che sembra un estraneo, indossare i panni di Babbo Natale?
A partire dunque da queste interrogazioni nate in seguito alla sua esperienza di volontaria teatrale, Verginelli porta in scena se stessa, Micheal Schermi e Muradif Hrustic; parte da qua – e a sintesi di tutto alcuni versi di Emily Dickinson – e poi se ne allontana, per giungere in scena a un’onestà del racconto che non impone una direzione netta ma laterale delle esperienze da condividere. Se ne dimentica, per recuperare memoria sua e loro, per ricostruire le storie e recuperando quelle, ritrovare una propria autentica e non omologata idea di legame. Come si crea una coreografia di Break, ripetendo gli step finché non sono fluidi, ripetendo e sbagliando, spezzettando e compiendo deviazioni, così agiscono loro, allungando, ripetendo e deviando – una maggiore cesellatura dei quadri gioverebbe a una concentrazione più appuntita della drammaturgia scenica – riposandosi anche, recuperando energie fisiche ma senza mai mollare la tensione.
Nella lente di ingrandimento teatrale, quei tre che non sarebbero nessuno l’un per l’altro si ritrovano e si riconoscono come qualcuno. Non sono un fake, così come non è finta la scatoletta di fiammiferi su cui attaccare le foto dei ragazzi a mo’ di souvenir, sebbene le marche da bollo siano falsificate, simulacro di qualcosa che non è, ma di cui ne assume il ruolo. Allora, ecco un’altra questione a margine – ma non troppo: la possibilità di ritrovare un senso più mobile, meno rigido, a ciò che definiamo autentico e ciò che invece no, per cui forse non è nemmeno necessario scomodare l’Enrico IV pirandelliano citato durante lo spettacolo. Come la contraffazione della scatolina, così la contraffazione della provenienza delle parole: quelle pronunciate da Emilia, che poi scopriamo provenienti da uno degli altri educatori, assumono lo stesso identico valore, al di là di chi le abbia dette; cambia il segno ma non il risultato. Allo stesso modo, davanti a uno sguardo vagamente incuriosito ma diffidente di chi si chiede «che fate? – teatro. – E a che serve il teatro?» si trova poi dopo, dall’altra parte, e si sente chiedere «che fai? – danzo. – E a che serve danzare?». Forse ha trovato risposta, anche se non è passato da un percorso omologato, attribuendo nuovo senso alle domande e alle azioni, nuove relazioni, nonostante i ruoli.
Viviana Raciti
Visto a Short Theatre 2020 – Settembre 2020
IO NON SONO NESSUNO
di Emilia Verginelli
con Muradif Hrustic, Michael Schermi, Emilia Verginelli
contributi video e audio Pasquale Verginelli, Daniele Grassi, Marilù Rebecchini, Siham El Hadef
luci Camila Chiozza
collaborazione alla drammaturgia Luisa Merloni
aiuto regia Brianda Carreras
assistenti al lavoro scenico Gioia Salvatori e Aglaia Mora
post-produzione Matteo Delai
comunicazione Federica Zacchia
foto di scena Claudia Pajewski
produzione 369gradi
coproduzione Santarcangelo Festival
e con il sostegno di fivizzano27, Angelo Mai/Bluemotion, carrozzerie| n.o.t, mixò ass.culturale
e con la collaborazione di Teatro Di Roma – Teatro Nazionale