Vinicio Marchioni, attore e regista, ha presentato in estate al Napoli Teatro Festival 2020 la sua prima versione di un lavoro in divenire su Caligola, insieme a Milena Mancini. Intervista
Al tavolo di un bar della Galleria Umberto I a Napoli, è il mattino dopo la prima uscita pubblica di uno studio che Vinicio Marchioni dedica, con Milena Mancini, al Caligola di Camus, in seno al Napoli Teatro Festival 2020. Una versione molto potente, fatta di musica ad alto ritmo, battente di percussioni e suoni duri, una messa in scena che acquista la dimensione aerea della danza, in cui le parole di Caligola si innervano fino a penetrare concetti alti e profondi: il legame tra morte e potere, la liberazione della creazione, la salvezza impossibile ed eterna dell’arte. E però, nel frattempo, abbiamo pure fatto colazione.
Quali sono i motivi che ti hanno spinto verso questo testo complesso come Caligola?
È un testo che mi ha sempre dato la sensazione di avere un universo dentro, come fosse infinito. Prima di tutto ciò che mi ha sconvolto è la sua musicalità, la forma linguistica che nella costruzione degli atti sembra avere un andamento sinfonico. E poi c’è il personaggio, Caligola, che per un attore è una pietra filosofale – come Amleto – perché ha dentro tutto e il suo contrario; nel testo si mangia tutti e mentre va avanti produce contemporaneamente fascino e orrore, stimola verso ciò che ti riguarda ma che allo stesso tempo non vuoi vedere né sentire.
Come avete lavorato sui materiali di Camus?
Siamo partiti da un’idea sinfonica, una partitura musicale all’interno della quale inserire emotivamente il testo. Contemporaneamente con Milena Mancini ragionavamo sui materiali da usare per la sua partitura corporea, una coreografia, perché Caligola è impregnato di carne, di sensualità. Abbiamo scelto dei tessuti che dalla trasparenza completa arrivassero quasi al marmo… [è Milena Mancini a continuare] …siamo partiti dal bozzolo trasparente di questo Caligola bagnato, con una plastica capace di dare un’idea liquida ma anche di gabbia, poi il tulle che ricorda la leggerezza, ma che ha dei volumi enormi per dare l’idea di appesantire quel corpo come se la terra lo avvolgesse per portarlo giù, il terzo movimento è una danza liberatoria, aerea, quasi zingaresca, l’ultimo movimento è una costrizione, come un sepolcro, per la morte di Cesonia. [Ancora Marchioni] Ma questo percorso segue interamente il vero mostro che si aggira dentro di lui e lo costringerà a non esistere più: la perdita di Drusilla che si allarga progressivamente nella sua anima e lo distrugge. È lui stesso a dirlo: “io sono niente”.
Sei tu stesso a citare Amleto e, a ben guardare, nella tua idea di Caligola emerge il personaggio ideato da Shakespeare in tutte le sue caratteristiche più vibranti e sinistre, in quell’equilibrismo consapevole tra la morte e la vita. Quale tipo di suggestione li avvicina?
Durante l’analisi del testo, cercando di aprirlo, Amleto usciva fuori continuamente. Forse la caratteristica in comune che emerge con più forza è una solitudine mortale che riguarda anche da vicino questo mestiere dell’attore, specialmente nei periodi di maggiore crisi come quello che stiamo attraversando. Sono due personaggi che hanno attorno quella solitudine fin dall’inizio e lì finiranno; è un vuoto cosmico che li circonda, lo stesso Caligola entra in scena più tardi, dopo aver passato tre giorni in mezzo al fango a piangere la sorella amata e ormai morta, così come Amleto entra in scena dopo il funerale di suo padre: c’è sempre un punto di mancanza, sono entrambi totalmente perduti in una solitudine universale che li colloca proprio da un’altra parte.
Proprio Amleto e Caligola forse condividono anche quella definizione che, per inclinazione estrosa fuori da percorsi ordinari sia pur al sangue, si dà del protagonista di Camus: un “imperatore artista”. Noi viviamo un’epoca in cui tra potere e fantasia c’è una distanza difficile da colmare. Ma cosa potrebbe nel mondo attuale, al netto di emendare la deriva sanguinaria del personaggio, un imperatore artista?
Credo che Camus sia molto chiaro su questo: da una parte lui pone l’imperatore artista che realizza i propri sogni, anche se si tratta di sogni di morte; dall’altra parte c’è il personaggio di Cherea, cui l’autore fa dire come non sia possibile inserire l’arte e l’immaginazione, la poesia, nell’esercizio del potere, perché sono due cose diverse. Quindi, anche se le ragioni dello Stato difficilmente saranno quelle dell’arte e della creatività, un imperatore deve affidarsi agli artisti perché a lui spetta di occuparsi del potere. Nella nostra cultura italiana il ruolo dell’artista all’interno dei luoghi di potere è sempre stato chiaro e sostenuto, perché capace di dare lustro con la sua arte proprio allo Stato che ne sosteneva la creazione, ma nel tempo questo ruolo è stato privato di importanza, relegando l’artista a colui che non fa niente, che non è in contatto con la società e ha perduto così il carattere etico e pedagogico della sua funzione. Io ritengo, più ancora oggi in questo grave periodo di crisi e di coscienza del mestiere artistico, sia un grande impoverimento questa mancanza di uno Stato illuminato nella vita degli artisti, perché questo impedisce la crescita morale della società, la cui ricchezza non è certo solo di natura economica.
Non a caso Caligola entra in scena proprio parlando del “tesoro”, irridendo proprio l’impianto economico della società del tempo…
Esatto!
L’arte sembra nel testo proprio una guida di profondità: gli unici momenti in cui Caligola si ferma sono quelli legati alla poesia, non solo durante il certame quando tra i vari poeti trova ciò che cerca, ma anche nei momenti di dialogo con Elicone; sono quelli i momenti in cui rivela insicurezza non delle azioni in se stesse forse, ma certo delle conseguenze. Ma, dunque: può un potente esplicitare la propria fragilità?
C’è una dicotomia tra il potere e la fragilità, intesa come foriera di creatività. Un potente quella fragilità non la potrà mai ammettere, ma la può veicolare – anche la propria – permettendo l’esercizio dell’arte in ogni sua forma, anche e soprattutto per mettere in scena la perdita, le crepe dell’uomo. Del resto i potenti del passato hanno spesso fatto costruire ai grandi artisti la propria tomba, quindi proprio ciò che riguarda la perdita nel senso più grande, per conquistarsi l’eternità senza però che fosse minore il proprio potere. Questa unione tra la potenza di una nazione e la potenza dell’arte che produce oggi è stata totalmente rimossa, per colpa di quel vero e proprio suicidio, messo in atto dal potente di turno, che è cancellare tutto ciò che è stato fatto in precedenza.
Caligola pronuncia ben due volte questa necessità, questa vocazione che ha come potente di restare, farsi storia…
Infatti quel che secondo me manca è una visione lunga, ragionare sull’eternità.
Noi abbiamo una contemporaneità investita, forse inebriata, dall’idea di morte e dal fatto che il potere allo stesso tempo la determina e la gestisce, in un esercizio quasi di ragioneria numerica. Affrontando Caligola, che rapporto ti sembra ci sia tra potere e morte a mettere in relazione quel testo, quella società alla nostra?
Negli ultimi decenni si è messo in moto un meccanismo che allontana l’idea di morte; oggi ogni morto è un numero, non la persona fisica, non qualcosa che riguarda il corpo. Questa smaterializzazione è mutuata anche dall’uso che facciamo dei social, in cui ogni notizia viene superata da un’altra nel giro di pochi secondi. E così non c’è un reale contatto con la perdita, sembra che questa società – e di conseguenza anche l’arte – abbia necessità di impedire che le persone si fermino a riflettere sul concetto di morte, perché bisogna essere eterni, giovani sempre, belli e produttivi, fino a morire. Ma così quel concetto non influisce sulla vita quotidiana delle persone, impedendo l’elaborazione del lutto che invece avrebbe enorme beneficio dalla sensibilità artistica.
Simone Nebbia
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