Recensione. Un chant d’amour di Teatro Rebis, con la regia di Andrea Fazzini. Visto a Kilowatt Festival 2020
Il nuovo spettacolo di Teatro Rebis, Un chant d’amour. Come mettere in scena l’odio?, visto al Chiostro San Francesco di Sansepolcro (nella 18° edizione di Kilowatt Festival) trae ispirazione da I negri di Jean Genet del 1958 e i cosiddetti “fatti di Macerata” di gennaio-febbraio 2018. L’uno è un dramma che rappresenta una compagnia di attori africani che, di fronte a un pubblico di soli bianchi, rievoca la morte di una giovane francese a opera di un nero, il quale viene nel frattempo processato e punito dietro le quinte. I “fatti di Macerata” consistono invece nell’uccisione dell’italiana Pamela Mastropietro causata dal nigeriano Innocent Oshegale, a cui seguì l’attentato di matrice razzista del maceratese Luca Traini.
Questi due racconti non sono accostati semplicisticamente perché narrano una cronaca “nera”, nel duplice senso di avvenimento “violento” e determinato da un “negro”. Né sono usati per costruire uno spettacolo politico, che mirerebbe a intervenire sul conflitto dei neri contro i bianchi. È bene specificare, infatti, che Un chant d’amour sembra avere principalmente finalità poetiche. Il lavoro potrebbe piuttosto essere descritto come una “sonata di spettri”: la manifestazione dei fantasmi vecchi che già Genet aveva cercato di evocare con I negri e di quelli nuovi dei fatti di Macerata.
La chiave per interpretare il lavoro di Teatro Rebis è dichiarata all’inizio dello spettacolo. Mentre l’attrice Meri Brancalente entra in scena vestita da clown, o meglio da Pierrot nero, la sua voce registrata fuoricampo legge un estratto dal saggio di Genet Quella strana parola (in Il funambolo, Milano, Adelphi, 1997, pp. 13-24), che sintetizza l’idea di teatro genetiano. Quest’ultimo sarebbe un «cimitero vivo», dove si allestisce «una passeggiata notturna» per confrontarsi con «un mistero» e il cui protagonista consiste in un «mimo funebre».
Tale figura della religione romana (controversa, perché le sole “prove” della sua esistenza sono dei passi spesso fraintesi di Diodoro Siculo, Svetonio e Gregorio di Nazianzo) «aveva l’incarico di mimare i fatti più importanti di cui si componeva la vita del morto quando questi […][ era vivo». Lo spettacolo che ne discende prevede così «che il mimo funebre […] si sdoppi, si moltiplichi; diventi compagnia teatrale e, davanti al morto e al pubblico, faccia di nuovo vivere e di nuovo morire il defunto». Genet segue questa ipotesi del mimo funebre per spiegare dove la «passeggiata notturna» dovrebbe portare. L’artista parla a tal riguardo dello «scoprire un’ombra fresca e torrida» sotto le lapidi del teatro/cimitero. “Fresca” perché sotto di essa si trova un po’ di piacevole ristoro o «un rifugio» dalle città dei vivi. “Torrida” in quanto le visioni notturne del teatro accendono «una fiamma» nello spettatore, che gli consente di vedere la realtà sotto una luce accecante e intensa.
Dunque è lo stesso processo di sdoppiamento genetiano ad essere alla base di Un chant d’amour. È del resto questo elemento che tiene insieme due piani della messinscena che sembrano distinti e, in realtà, si rivelano complementari: da un lato, il dramma di Genet messo in scena dai burattini di Patrizio Dall’Argine e del suo Teatro Medico Ipnotico, che agiscono nella baracca posta al centro del palcoscenico, e dall’altro la recitazione dei frammenti dei fatti di Macerata ad opera degli attori della compagnia di Teatro Rebis. Tutti costoro in realtà sono una proiezione del Pierrot nero che entra a lavoro iniziato e costituisce il «mimo funebre» à la Genet. Egli si sdoppia nei burattini e si moltiplica negli attori: diviene l’intera compagnia teatrale che fa rivivere e rimorire l’eterno spettacolo di una donna bianca uccisa dalla violenza di un nero.
Ma di che cosa baracca e scena sono lo sdoppiamento? In altri termini, che cosa sono veramente il “bianco” e il “nero” che si osservano durante la «passeggiata notturna» di Genet / Teatro Rebis? Come suggerisce il sottotitolo di Un chant d’amour, ovvero Come mettere in scena l’odio?, questo episodio di violenza consisterebbe nella narrazione della genesi dell’odio e del suo nesso nascosto con l’amore. Catullo parlava in modo appropriato di odi et amo, Wilde ne La ballata del carcere di Reading enunciava il principio che «ognuno uccide la cosa che ama». Genet e Teatro Rebis affrontano questo tema tradizionale usando il teatro come un paradossale canto di amore verso gli emarginati, il canto della solitudine che essi affrontano e che li porta a commettere atti feroci verso coloro che avrebbero in realtà voluto accarezzare con tenerezza: un atto di accusa dei morti verso i vivi e le loro manchevolezze. Guardare ai doppi del mimo funebre permette così di ripararsi sotto un’ombra «fresca e torrida», che dovrebbe insieme metterci al riparo dalla violenza dei vivi e aiutarci a gettare una luce intensa su questo paradosso del vivere.
Enrico Piergiacomi
Auditorium Santa Chiara di Sansepolcro (AR), Kilowatt Festival – Luglio 2020
Un chant d’amour. Come mettere in scena l’odio?
con Meri Bracalente, Massimiliano Ferrari, Fernando Micucci, Francesca Zenobi
burattinai Patrizio Dall’Argine, Veronica Ambrosini
scrittura scenica luci e regia Andrea Fazzini
baracca e burattini Teatro Medico Ipnotico
collaborazione sartoriale Giuditta Chiaraluce
collaborazione fonica Andrea Lambertucci
costumi e assistenza alla regia Meri Bracalente
in collaborazione con Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), Festival Teatri di Vetro, Drama Teatro, La Corte Ospitale, Festival Inteatro, A.M.A.T, Festival Nottenera, L’Appartamento, Europa Teatri
Le inquietanti vicende di Macerata del 2018 – l’omicidio di Pamela Mastropietro per mano di Innocent Oshegale e l’attentato di matrice razzista di Luca Traini – incontrano I Negri di Jean Genet e danno vita a un teatro d’arte intimista, onirico e politico, per attori e burattini.
Teatro Rebis è un progetto artistico nato a Macerata nel 2003, per volontà di Andrea Fazzini e Meri Bracalente. La poetica della compagnia guarda alla realtà da un punto di vista allegorico e visionario.
teatrorebis.wixsite.com/teatrorebis
durata 65’