Ultimo weekend di festival a Centrale Fies: gli hula hoop di Alessandro Sciarroni e Collettivo Cinetico, il nuovo lavoro di Marco D’Agostin (Dear N), gli interventi di Sotterraneo, Oht e Chiara Bersani.
Inizio a buttare giù qualche appunto sparso mentre sul treno regionale il capotreno richiama un’utente ai suoi doveri di cittadina in tempo di pandemia: «La mascherina su, signora, altrimenti così non serve a nulla. Non crede?». L’accento è quello di confine tra Veneto e Trentino, aspro quando serve, come in questa occasione. La mascherina, appunto, cosiddetta “di comunità”, l’ho utilizzata anche nel tempo di una mostra, un paio di ore a Rovereto per visitare il Mart e andarmene con gli occhi riempiti di colori, di angosce, vibrazioni di quasi un secolo di arte, dal futurismo ai video, da Balla a Bruce Nauman. Mentre guardo il video di Lipsync (Nauman, 1969), mi torna in mente la chiacchierata con Barbara Boninsegna la sera prima, in cui mi raccontava di un progetto per far conoscere la performance art storica ai bambini, una delle ultime esperienze pensate a Centrale Fies. Un luogo, questo, di produzione e programmazione artistica, castello che fu una centrale elettrica, dato in comodato d’uso gratuito per trent’anni alla cooperativa Il Gaviale e lo sarà almeno per un altro decennio: spazio di confine, nel quale viene misurato continuamente il limite delle apparenze, dei linguaggi artistici, del ruolo dell’uomo come creatore d’arte in relazione alla natura che lo circonda. Drodesera, fondato con Dino Sommadossi, ha raggiunto le 40 edizioni nell’anno del Covid-19, ora lascerà spazio alle trasformazioni di Centrale Fies che sarà sempre di più un hub dell’innovazione artistica e culturale del Trentino, avanguardia nazionale per alcune pratiche performative in grado di rispondere a segnali europei e oltre.
Diluire il festival (curato oltre che da Boninsegna anche da Filippo Andreatta) in un formato più leggero, chiamato XL, per venire incontro alle esigenze della pandemia (dei corpi ancora incerti del pubblico e degli artisti) è stato dunque anche un esercizio con cui guardare al futuro e progettare una sessione live dai ritmi morbidi, lenti. Durante l’ultima serata ho avuto modo di intercettare le installazioni di Oht e Chiara Bersani; la prima è una riflessione rispetto alla relazione uomo-natura, macchiata indelebilmente dalla tragedia del 19 luglio 1985 in Val di Stava (con regia e scena di Filippo Andreatta, dallo spettacolo omonimo). Il paesaggio ritrova collocazione in grandi stampe di fotografie ai lati della scena che diventa luogo calpestabile dagli spettatori, cadaveri di enormi pini strappano orizzontalmente lo spazio; poi ce n’è uno appeso, come fosse in sospensione, ruota dietro un velatino mentre, come in un coro, il suono trova densità spaziale poco alla volta. Chiara Bersani con Cordata, invece, invoca un’azione da compiersi in un tempo altro e in uno spazio dislocato: a Marco D’Agostin (nei giorni precedenti in presenza e nell’ultimo weekend attraverso un video) il compito di portare il messaggio dell’amica artista: prendere una cartolina, inquadrare il QR Code e ascoltare il brano collegato, tutto questo al tramonto; poi rispedire la cartolina alla stessa Bersani per chiudere la cordata o allargarla a qualcun altro. I partecipanti sono costretti a rimodulare l’habitat delle proprie azioni (fisico, online, audio) attivando stati emotivi, e percettivi diversi; l’espressione “cordata longa” indica un gruppo di persone che avanza in montagna unito da una corda; l’opera di Bersani unisce afflato politico (la riflessione sulla solitudine, la solidarietà, l’unione e la responsabilità) a una prassi concettuale rinnovata nei linguaggi.
La questione che lega il tempo e lo spazio di accadimento dell’opera d’arte è decisiva anche in Europeana di Sotterraneo: il collettivo fiorentino dà lettura, attraverso la voce di Fabio Mascagni, del libro omonimo di Patrik Ouředník del 2001 (Europeana. Breve storia del XX Secolo), per più di tre ore consecutive, mentre una selezione casuale di musiche agisce in background. Un software processa la voce e ne traduce il contenuto in linguaggio binario, il linguaggio delle macchine – potenzialmente universale secondo Sotterraneo – archiviandolo su una chiavetta usb che verrà poi seppellita sotto a una targa nel terreno di Fies. Ai posteri (di qualunque natura e provenienza) il compito di decifrare il racconto ironico e tragico di un Novecento europeo che si muove concentricamente, come una spirale il cui centro è sempre il male assoluto, l’Olocausto.
Nelle edizioni pre-covid gli spazi esterni della centrale erano utilizzati con frequenza minore e gli spettacoli si svolgevano tutti nelle sale, creando così quella tipica atmosfera da live arts in uno spazio di archeologia industriale. Quando prendo posto nella platea, che circonda su quasi tre lati lo spazio scenico abitato dai danzatori di Collettivo Cinetico, intuisco la lateralità del mio sguardo e la possibilità di essere spettatore di qualcosa di unico: di fronte ho i danzatori e la coreografia, nel segno di quel minimalismo tipico di Alessandro Sciarroni in grado poi di esplodere attraverso piccoli e grandi epifanie emozionali; di lato, poco a sinistra, le montagne, attorno, il verde. Il luogo tecnico di cui questo Dialogo Terzo: In a landscape si nutre è quello dell’hula hop.
Come accadeva in Untitled i performer eseguono il gesto a ripetizione toccando dei piccoli acme in cui l’apparente semplicità del loop comincia a sciogliersi in altri piccoli movimenti: un cambio di direzione del corpo, l’accentramento degli sguardi, l’incontro degli occhi degli altri, il cerchio che passa dalla vita alla rotazione attorno a un polso che guarda al cielo o al pavimento. La geometria dei corpi si snoda in una lentezza glaciale. Il pathos fiorisce negli occhi, nell’incontro cadenzato con la musica di John Cage suonata dal vivo.
Cosa cerchiamo nell’atto artistico? La nostra vita o quella degli altri? Le vite degli altri – per citare un film magnifico di qualche anno fa – ci prendono alla gola, infiammano quella curiosità mai sedata dalla più reale delle finzioni. Vogliamo nutrirci di realtà, sempre: allora tutto deve avere a che fare con la verità autobiografica. Marco D’Agostin, intercettando questa necessità comune a tanto teatro europeo contemporaneo, aveva già creato First Love, opera commovente in cui la vita dell’autore abilmente si fondeva con un avvenimento sportivo storico e popolare. La fusione era anche linguistica perché il parlato veniva “agito” di pari passo con la performance fisica. In Dear N, D’Agostin tenta un passo in avanti aggiungendo il cantato. L’autore veneto ha ormai esondato, nella danza trova i ritmi e i tempi del corpo, ma quello che vediamo sul palco è davvero il tentativo di lavorare su un’opera d’arte totale, dove non ci siano più confini tra i segni che possono prodursi.
Il corpo del performer deve poter contenere tutto, essere capace di tutto. Ecco però che il punto di partenza contenutistico è nuovamente autobiografico: D’Agostin nel 2010 a Londra incontrò Nigel Charnock, fondatore negli anni Ottanta dei DV8 – Physical Theatre. Nelle sue performance la libertà compositiva e l’assenza di confine tra i generi erano caratteristiche centrali; per D’Agostin Charnock rappresentava «la possibilità che in scena tutto potesse accadere ed esplodere».
L’artista di Manchester amava definirsi un intrattenitore, un creatore di show, sempre in collisione col mondo della danza ufficiale e con la critica; la ricerca di D’Agostin è dunque un tentativo di misurare le possibilità di quell’esplosione superando il semplice omaggio, riflettendo anche sulle implicazioni legate alla scrittura epistolare, a cominciare proprio dalla lettera che Wendy Houston scrisse all’amico e collega scomparso nel 2012. C’è un tempo della scrittura, un tempo della lettura, un altro intermedio e alcune volte un altro tempo che è quello raccontato dalla lettera. In questo caso: è stata Chiara Bersani a scrivere e inviare un testo che riflettesse proprio su cosa significhi ora ricominciare, ritrovarsi in quanto pubblico attorno a una scena.
Questo però accade alla fine della performance, dopo un tempo lunghissimo in cui D’Agostin prende parola con il pubblico, canta e danza come in un rito sciamanico per salutare il suo maestro, lasciando esplodere il corpo in una performance fuori misura. Chi ha ideato e realizzato questa edizione, ultima, di Drodesera, come nel caso degli altri festival estivi, ha lavorato quasi al buio, con un dispendio di energie fisiche ed emotive unico, la commozione è palpabile: “you died so I could live and dance” continua D’Agostin, mentre in platea, piccole voci si uniscono e un canto sommesso prende corpo. Le montagne dall’alto ci osservano (ci proteggono?), qualcuno di noi, qui sotto, forse ora ha meno paura.
Andrea Pocosgnich