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Dobbiamo mettere gli artisti nelle condizioni di poter sbagliare

Intervista a Michele Mele, organizzatore e curatore. Tra  i suoi ultimi progetti anche la personale diffusa di mk tra Napoli e Salerno, di cui è stato presentato il primo evento, Bermudas, nell’ambito di Campania by night.

Michele Mele. Foto CLaudia Ferri

A cavallo tra due eventi campani che hanno visto la sua presenza (il primo è Na-Sa al Castello aragonese di Baia in qualità di direttore artistico e la rassegna Rural Dimensions nel Cilento con attività di mentoring) abbiamo intervistato Michele Mele, che si autodefinisce figura ibrida, organizzatore dalla sensibilità artistica, con il quale entriamo nei dettagli dei suoi ferri del mestiere: avere passione, studiare, sporcarsi le mani e conoscere l’intera macchina teatrale. Oltre a questo diamo uno sguardo anche alla sua biografia lavorativa, tra le collaborazioni con il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, la presenza poliedrica nella compagnia stabilemobile di Antonio Latella, il lavoro con Anagoor e, infine, anche una prospettiva rispetto alle condizioni di lavoro nella situazione attuale e del prossimo futuro.

L’organizzazione teatrale è un mestiere fondamentale ma non ha una tradizione di insegnamenti universitari di lungo corso, spesso molti organizzatori hanno formato sul campo la propria esperienza. Tu, che, tra le altre cose, insegni questa materia in diverse accademie, quali ritieni che siano le caratteristiche fondamentali di un buon organizzatore? Cosa consiglieresti a un giovane che vuole diventare manager teatrale?

Potrebbe sembrare banale, ma occorre ribadire come sia fondamentale avere passione nei confronti di queste arti. Possono esserci anche altre esigenze che ti avvicinino, ma bisogna avere una necessità endemica, da spettatore appassionato. Quello che consiglierei a un giovane organizzatore è di coniugare un percorso di studio all’esperienza, così da potersi orientare nell’ambiente lavorativo attraverso gli strumenti teorico didattici. A me è servito tantissimo venire da un master (in management dello spettacolo alla Bocconi, ndr): quando ho iniziato a lavorare, banalmente, ero già a conoscenza di tutti quei termini tecnici che sul lavoro si danno per scontati.

DIrettore artistico di Rural Dimensions Marco Messina e Sacha Ricci

Per un consiglio concreto, potrei citarti la rassegna Rural Dimensions che si terrà a Bellosguardo il 21 e il 22 agosto. Io sono nato in questo paese del Cilento e ritrovare dopo vent’anni quei ragazzini con cui facevamo dei laboratori prendere ora iniziative di questa portata (nel 2017 l’associazione Rehub Alburni è stata fondata da 40 giovani del territorio, ndr) è stato molto bello e ho voluto contribuire. In questa dimensione non sono interessato ad avere un profilo curatoriale, quanto essere una figura di mediazione, stare dietro le quinte. Non ho mai preteso di avere un ruolo definitivo ma di coordinamento, anche rispetto all’importanza del dialogo con le istituzioni, e di supporto in accordo con il direttore artistico, Marco Messina. Chiaramente, data la sua provenienza musicale in quanto componente dei 99 Posse, il festival ne rispecchia storia e profilo, e tuttavia, negli anni, anche grazie alla mia attività di mentoring, è stato dato uno spazio alle arti performative come la presenza di Anagoor o di Vinicio Marchioni. Inoltre, questo festival si lega anche alla questione relativa allo spopolamento di quelle aree rurali cilentane, che proprio in questo momento storico, invece, dovrebbe essere invertita, le città decomprimersi a favore di una dimensione di vita più agevole.

Entrando nello specifico delle competenze di un organizzatore, è quasi impossibile una volta per tutte separare o meno funzioni tecniche da quelle artistiche. Quanto ha influito questa compresenza, e quale equilibrio secondo te deve esserci tra le due figure?

La mia figura è sempre più ibrida. Questo, tra l’altro, per me, è un momento molto particolare: da poco sono uscito da stabilemobile perché ho iniziato a seguire tutta una serie di progetti più in qualità di direttore artistico. Dunque, in un clima di grande serenità e collaborazione, ho sentito l’esigenza di affrancarmi; la compagnia di Antonio Latella è un’impresa nata intorno alle skill di ognuno di noi, ma crescendo, negli anni, ha richiesto sempre più un impegno che adesso avrebbe sottratto attenzione ad altro.

MA di Stabile mobile. Foto Brunella Giolivo

Venendo a questa compresenza di cui parli, ritengo che sia fondamentale: quando vendi uno spettacolo o un artista, sai quali sono le difficoltà che incontri; quando passi dall’altra parte e ti capita di acquistare dei lavori, allora sai bene cosa significa rispettare quel cachet o offrire condizioni di lavoro consone. Non mi interessa calare dall’alto una struttura in cui l’artista trova più o meno spazio, a me interessa la promozione della forza di un artista, al di là del singolo progetto o dello spettacolo. È così che le azioni più particolari e radicali si iscrivono in un clima in cui il pubblico conosce quanto sta vedendo.

Nel momento in cui c’è stata un’accelerazione forte con il DM 2014, per cui i numeri sono diventati fondamentali rispetto alle previsioni economiche del sostegno pubblico, è chiaro che non ci si può troppo girare intorno. Soprattutto se non si ha un approccio preciso, quella prospettiva diventa soltanto “dobbiamo fare i numeri”, invece, quando si hanno delle competenze anche di contabilità spicciola, sai che ci sono dei progetti con i quali puoi fare dei numeri e progetti sui quali i numeri non ce li hai, ma magari a livello identitario sono più importanti. È pure possibile che l’artista chiamato a “fare i numeri” possa avere meno strumenti per non far altro che quello, magari la sua proposta sarà perfetta sotto il profilo economico ma non è detto che porti una reale riflessione sotto il profilo artistico culturale.

Al contrario, dobbiamo mettere gli artisti nelle condizioni di poter sbagliare ma rimanendo protetti a livello produttivo, pensando sempre a lungo termine e non soltanto fermandosi al singolo spettacolo. In questo, forse, la triennalità del decreto potrebbe aiutare: se si disegna un percorso con un artista che non è ascrivibile a un singolo momento ma è più sulla lunga gittata, in una maniera che poi all’esterno è consolidata nei teatri pubblici, allora anche l’eventuale errore lo hai messo a sistema.

Ritornando anche alla tua esperienza in stabilemobile, anche lì hai avuto un ruolo e mansioni fortemente legati alla componente artistica…

Anche prima. Ho avuto la fortuna di iniziare al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, dove mi occupavo di promozione e distribuzione, ma con la possibilità di prendere decisioni che avevano delle influenze di tipo curatoriale, come inserire degli spettacoli di danza in abbonamento. Ma ho sempre avuto anche la consapevolezza di dover prima “imparare il mestiere”. Non ho mai avuto paura di fare il lavoro sporco, quello che nessuno vuole fare. Non mi spaventavo nel cercare di distribuire spettacoli o nel trovare i fondi, perché sono convinto che prima di pensare alla rassegna da comporre bisogna conoscere la macchina.

Del resto,  l’identità di un teatro si costruisce non solo attraverso le ospitalità ma attraverso la creazione di spettacoli, quindi in questo senso ringrazio tantissimo il lavoro con Antonio Latella, con cui ho collaborato anche come assistente alla regia in spettacoli come Natale in casa Cupiello al Teatro di Roma, Pinocchio al Piccolo di Milano. In quelle occasioni ho potuto capire come si iscriveva in una stagione quella singola azione, anche perché accogli le istanze che ti arrivano dalla direzione e devi capire come svilupparle. Stiamo parlando di Teatri Nazionali che hanno inoltre una vocazione generalista, si trovano in grandi città, dunque per forza di cose si confrontano con i grandi numeri.

Orestea di Anagoor. Foto Giulio Favotto

Un’altra delle esperienze fondamentali è stata seguire nel teatro d’opera gli Anagoor, al Massimo di Palermo, al Comunale di Modena… vivi dieci anni in un mese, perché vedi delle macchine molto più complesse che nel teatro di prosa, basti pensare solo ai musicisti, ai tecnici, già solo per imparare  l’organigramma ci vuole del tempo! È molto interessante questo discorso anche in relazione a quanto sta accadendo al Piccolo a Milano, al Teatro di Roma… non puoi non avere polso anche su questioni simili, non possiamo pensare di avere solo un artista che si interfacci con dinamiche di questo tipo. L’ideale sarebbe avere un organizzatore e un comitato di più artisti, inevitabilmente già metterne seduti due o tre limiterebbe il rischio che quella direzione diventi espressione di una singola poetica.

Osservando il progetto Na-Sa che hai dedicato ai vent’anni di attività di mk (anche se al momento limitato dalle restrizioni sanitarie che hanno ridotto il progetto iniziale presentandone soltanto una prima tappa con Bermudas), leggo una volontà di porre in una stessa traiettoria arti performative, territori da queste poco esplorati o poco interessati e patrimoni culturali materiali. Mi sembra chiaro che questo progetto abbia bisogno di strumenti e persone che sappiano creare e mantenere queste relazioni, affinché i diversi punti di interesse possano effettivamente convergere. Quali le difficoltà, le strategie per disegnare e percorrere questa mappa?

Na-Sa chiaramente si è dovuto ridimensionare, dalle due intense settimane a cavallo tra aprile e maggio per ora abbiamo potuto presentare soltanto questa anteprima, tuttavia il progetto non è stato snaturato e verrà ripreso nella prossima primavera. Tra gli elementi costitutivi che dialogano tra loro ci sono in primo luogo promozione del territorio e promozione degli artisti: si tratta di una personale diffusa su un territorio vasto, promuovendo l’uno con l’altro e viceversa.

Michele Di Stefano. Foto di Francesca Verga

La differenza la fa il fatto che si tratta di un linguaggio contemporaneo in aree per lo più archeologiche, e dunque la mette in campo la volontà a intercettare un nuovo pubblico, un lavoro come quello di Michele di Stefano era perfetto per questo tipo di operazione. In secondo luogo, si tratta di un artista di Salerno che in Campania non ha mai fatto nulla, non è mai stato programmato a parte Latella che gli fece fare alcune produzioni. Per me dunque era importante che ci fosse un tavolo istituzionale così ampio a sostenerlo, da Scabec, società in house della regione Campania che, con il programma di eventi Campania by Night ha permesso la realizzazione di questa prima puntata; ma ci sono anche la Casa del Contemporaneo, il Teatro Pubblico Campano, la Galleria d’arte contemporanea Paola Verrengia, il Comune di Salerno. Nel futuro ci sarà un grande cappello di attività legato a Baia e a tutte le zone archeologiche, ma anche altri eventi gestiti e finanziati singolarmente da ciascuno dei partner, che concorre insieme su un progetto unitario. La collaborazione sul contemporaneo (che è uno degli obiettivi per cui queste istituzioni sono finanziate) e in particolare una collaborazione condivisa è il valore più grande dal punto di vista delle politiche culturali. Il contemporaneo portato nelle aree archeologiche, inoltre, fa cortocircuitare la concezione che abbiamo dei beni culturali come qualcosa di troppo ingombrante e accentratore delle attenzioni ministeriali. Il nostro patrimonio è un grande attrattore rispetto a una larga fetta di pubblico, per cui non possiamo far altro che cavalcare questo interesse, anche per mischiare le diverse tipologie di spettatori.

Terzo elemento che emerge anche nel titolo è la collaborazione tra le aree di Napoli e Salerno. Questo è un periodo in cui in Campania stanno fiorendo diverse realtà, anche per dei motivi politici generici, vedi l’attenzione su Salerno data dalla presenza di De Luca. Una novità rispetto al passato perché Napoli è sempre stata molto accentratrice, è un po’ vittima della sua tradizione; tuttavia, non ci deve essere competizione ma si deve sostenere un’ottica di sistema. Salerno ha spazi e una tradizione sul contemporaneo che gli permette anche di essere un incubatore ideale. Spero che Na-Sa diventi un format, ovvero che negli anni prossimi possa lavorare su altri artisti e anche con altri linguaggi.

Quale direzione pensi che prenderà il nostro settore, e quali scelte sapranno consolidarsi nonostante l’incertezza?

In pieno lock-down ero convinto che bisognasse fermare tutto, come hanno fatto molti grandi festival europei; porsi in modo radicale tra recupero e riprogettazione. Paradosso vuole che invece in questo periodo ho lavorato tantissimo soprattutto con Anagoor, con la riconfigurazione di Na-Sa e con Rural Dimensions. Tuttavia, rispetto a come influirà e come sta influendo sulla socialità la presenza del covid, è chiaro che il rischio di una ulteriore chiusura in autunno è evidente. Questo compromette molto il lavoro di riprogrammazione che stanno portando avanti i teatri. Allo stesso tempo a livello ministeriale si stanno mantenendo delle certezze anche al di là dei numeri. Allora ti chiedi perché fosse così tanto necessario far ruotare tutto soltanto in funzione quantitativa, tra occupazione delle sale, alzate di sipario…

Si è scoperchiato il vaso di Pandora anche rispetto alle condizioni di lavoro accettate in passato e che ora dovremmo avere la forza di non ritornare ad accettare. Io mi trovo nel privilegio di lavorare con artisti che sono estremamente pronti, prendi gli Anagoor che già prima del lockdown stavano lavorando a un progetto senza attori. Sudo freddo al pensiero che tutto questo sarebbe potuto accadere durante le prove di Orestea, con trenta persone su quel progetto e un budget molto importante! Gli artisti devono ragionare ancora di più sul senso e l’importanza della loro proposta artistica, sul pubblico e sul repertorio. Anche per una questione etica, lavorare di più su quello che abbiamo già prodotto e meno sulla creazione, ci permetterà di avere un tempo che per gli artisti sarà prezioso.

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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