Quinta di copertina: Donatella Orecchia, Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1979, Milano-Udine, Mimesis, 2020. Recensione
È da diversi anni che Donatella Orecchia dedica una particolare attenzione al lavoro di Carlo Quartucci, questo percorso di ricerca si deposita ora in un libro necessario a ricostruire il percorso di un artista “irrequieto”.
Le pagine di certi libri ci obbligano spesso ad andare dritti, soprattutto quando sono quelle di un romanzo, o vogliono sembrarlo. Di fronte a un quadro, invece, si attiva uno spaesamento, che non sempre preme su un indirizzo, e neanche è una mappa, esibisce invece la sua interezza ma senza trascurare la parzialità.
Il volume di Donatella Orecchia si presenta come il romanzo di un protagonista forte ed è insieme un quadro d’ambiente, perché di questo conserva le diverse storie di figure incastrate in un panorama teatrale più vasto. Riesce perché nella sua struttura alterna a un racconto puntuale una serie di documenti (note di regia, articoli apparsi su riviste teatrali e scritti vari): si può quindi gettare un’occhiata generale è vero, ma a chi osserva è affidato l’invito ad avvicinarsi e sostare sui singoli episodi. Mi si perdonerà la metafora, forse abusata, ma è d’obbligo per quei volumi che funzionano come un atlante. Nel voler calibrare il suo sguardo, e insieme il nostro, l’autrice decide di concentrarsi sul ventennio 1959-1979: anche in questo caso l’indagine è minuziosa e fa della parzialità un vanto. Dalla Compagnia della Ripresa al caso Zip, dal Teatro di Gruppo al lavoro con Jannis Kounellis, dal progetto Camion alla crisi del teatro di ricerca: emerge in rilievo l’immagine di un’artista debordante di cui non si era scritto ancora abbastanza. Alla penna di Rodolfo Sacchettini sono infine affidate le pagine che indagano il rapporto di Quartucci con la radio, a evidenza dello sconfinamento che ha sempre mosso l’artista.
Gli episodi cui il volume fa riferimento sono numerosi, qui voglio ricordarne solo uno, che nel libro è affidato in parte al racconto di Carla Tatò: è la storia di Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen. Sono gli anni di Camion, quell’esperienza dentro e fuori il teatro inaugurata nel 1971 che proseguirà poi per due stagioni del teatro di ricerca italiano. Nell’impossibilità di pensarsi Nora, Carla Tatò decide di portarla in borgata, ad incontrare donne simili a lei, e il racconto diventa allora corale sostituendo le testimonianze dirette alle parole di Ibsen. Questa esperienza segna per Tatò il passaggio dall’attrice-interprete, all’attrice-narratore (con riferimento esplicito a Walter Benjamin e alle sue Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov), ma funziona da apripista verso un’idea di Laboratorio permanente che, per Quartucci, è ricerca sul campo e non close reading dal respiro corto. Messa al bando l’estetica più trita, l’unica che pare animare Quartucci è quella della stimolazione. Non a caso Orecchia lo definisce un “artista irrequieto”, per il suo rapporto con la tradizione, per quel suo modo strano di star dentro le maglie di un teatro di ricerca dal quale poi, nel 1969, deciderà persino d’uscire. “In fondo non mi interessa definire cosa sia teatro. Mi interessa incontrare sguardi artistici che stravedono” – dice Quartucci, sognando forse un microcosmo sincretico, nel quale i linguaggi artistici, dalle mani di chi li sventola come bandiera, possano funzionare per far tempesta.
Doriana Legge