Recensione. Al Circo Massimo tre repliche per Rigoletto con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Daniele Gatti, un grande evento del Teatro dell’Opera di Roma.
Arrivando dall’alto da Via del Circo Massimo, passato il Belvedere di Romolo e Remo, si vede un insolito panorama. Proprio sul limitare dell’arena dove per secoli si sono svolti i Ludi Magni di Giove, una gradinata di sedie di plastica sovrasta un larghissimo palcoscenico. Prima che una paratia, montata per l’occasione, blocchi la vista, intravediamo delle auto d’epoca, una roulotte e un’intera giostra di seggiolini volanti. È un nuovo, strano, luna park romano? No, è il palcoscenico della stagione estiva a norma anti-Covid del Teatro dell’Opera di Roma. E basta percorrere solo pochi metri per capirlo: pur mascherati, distanziati e contingentati, gli avventori dell’opera sono inconfondibili, coi loro binocolini e i vestiti eleganti, se pur estivi. È tutto diverso, insomma, ma tutto uguale: se non fosse per i minacciosi termometri-pistola e per il metro di distanza tra una coppia di sedie e l’altra, sembrerebbe di stare per assistere ad un qualsiasi nuovo allestimento.
Non è per nulla ‘qualsiasi’, invece, il nuovo allestimento del Rigoletto di Giuseppe Verdi, realizzato da Damiano Michieletto per la direzione del maestro Daniele Gatti. Non è solo il pubblico, infatti, a dover sottostare alle norme di distanziamento: anche orchestra, coro e cantanti in scena devono rimanere necessariamente a distanza di un metro l’uno dall’altro. Se per i primi due la soluzione si trova abbastanza facilmente (l’organico orchestrale siede semplicemente distanziato e il coro invece di essere in scena è anch’esso seduto ai lati dell’orchestra) per i cantanti la faccenda dovrebbe essere apparentemente più complessa.
Il palco è gigantesco, 1500 metri quadri, e la scenografia quasi assente. Se non fosse per le auto parcheggiate e la giostra, ci troveremmo su un palco vuoto, col pavimento nero a vista. L’atmosfera la fanno le luci (di Alessandro Carletti), il fumo del ghiaccio secco, ma soprattutto il largo schermo sulla parete di fondo, parte integrante dello spettacolo. Siamo negli anni ’80, in una strada di provincia, uno di quei quartieri in cui si vive in macchina, un po’ per coprire le lunghe distanze, ma più che altro per questioni di status. È una provincia degradata, Rigoletto (Roberto Frontali), giacché un giullare, è un traffichino e il Duca di Mantova (Iván Ayón Rivas) un piccolo boss di quartiere. Fin qui, tutto regolare per una regia contemporanea, ma la caratteristica di questo spettacolo è un’altra. Sul grosso schermo che fa da sfondo viene proiettato alternativamente il girato live di tre operatori steadycam presenti sul palco (diretti da Filippo Rossi) e un girato registrato di ciò che avviene nell’opera fuori scena, in questo caso, ‘off screen’.
Sostanzialmente lo spettacolo si configura come un dialogo tra ciò che accade sul palco e ciò che viene proiettato, che siano il cantato live, ri-mediato su schermo, il girato di ciò che accade fuori scena o i flashback dei personaggi. Michieletto ci aveva già abituato a una formula simile, con la sua Damnation de Faust (qui la nostra recensione), ma in questo caso, oltre ad essere usata in maniera massiccia e programmatica, fa un effetto completamente diverso, trattandosi di uno spettacolo pensato per un così grande spazio. Le steady live hanno due funzioni: avvicinare a noi pubblico i cantanti, ma anche stemperare l’effetto di distanza tra loro. E non si cade mai nella trappola del film-opera, proprio per la natura di effetto liveness del piano sequenza. Il montaggio è quasi assente e di conseguenza lo sguardo egemonico del regista: decidi tu dove guadare, sul palco, ma allo stesso tempo, se guardi lo schermo, è come se fossi lì accanto ai cantanti. Per un attimo, sembra Dogville di Lars von Trier, se non fosse che invece il linguaggio cinematografico è lo stesso utilizzato nei videoclip musicali odierni, in particolare quelli trap, che descrivono lo stesso degrado urbano che vuole raccontare il regista nell’opera (non è un caso che la Indigo Film, che si è occupata del girato, sia la stessa casa di produzione che ha realizzato il film di Francesco Lettieri, con la colonna sonora del cantante napoletano Liberato, per cui lo stesso regista aveva girato dei videoclip).
Ma quello ai videoclip non è l’unico riferimento cinematografico. Come detto, siamo negli anni ’80, in un contesto degradato, in una situazione di perenne semi buio. In una delle scene più cupe dell’opera, quando i Cortigiani del Duca si prendono gioco di Rigoletto e lo ingannano per rapire sua figlia, questi ultimi si trasformano in brutali picchiatori, indossando delle maschere da clown tutte uguali. Il riferimento al Joker di Todd Phillips a questo punto diventa inevitabile. Del resto, il giullare Rigoletto, non è forse, come il personaggio di Joker, il clown condannato a far ridere per la sua diversità, incattivito da una società che lo respinge e lo emargina fino a farlo diventare pazzo? Corsi e ricorsi storici, i personaggi archetipici ritornano sempre e Michieletto che si dimostra un regista attento, calato nella modernità, ma sensibile ai significati dell’opera e alla valorizzazione del lavoro di intertestualità. Tutto è ben calibrato, ben pensato e siamo così distratti dal live video che non avvertiamo quasi più la questione Covid.
Proprio grazie alle riprese live, pesano relativamente le distanze tra i cantanti, avvicinati a noi dalle steady. Per il duetto di Gilda e il Duca, i due sono lontani sul palco ma vicini del girato proiettato: tra di loro, a dividerli, un palloncino sul quale entrambi poggiano le mani e quel loro sfiorarsi diventa tanto più illecito in questa situazione di quanto non potrebbe esserlo un bacio appassionato. Manca un po’ invece, questo sì, il contatto padre-figlia. Il legame più stretto nell’opera di Verdi, si perde in questa distanza obbligata, senza gli abbracci del primo duetto, né l’abbraccio finale del corpo esanime della figlia da parte di Rigoletto. Gilda (Rosa Feola), la pura e ingenua ragazza ancora non sporcata da quel mondo di gangster e così ben rappresentata dalla giostra, il suo habitat naturale, esce di nascosto dal padre, destinata a trasformarsi in una di quelle ragazze pesantemente truccate e vestite di volgari pailletes che si vedono alla ‘corte’ del Duca. Ma è vestita da sposa che muore, nella sua purezza di sentimento, così come l’abbiamo vista in video durante il duetto con il Duca, così come lei si è immaginata. Mentre Rigoletto contempla il suo cadavere avvolto in una busta di plastica nel bagagliaio della sua auto, Gilda compare come uno spirito evocato dalla mente di lui e muore sul quel tappeto di fiori presente in scena dall’inizio, che altro non è che l’incarnazione della ‘maledizione’ che incombe su Rigoletto.
Capire oggi cosa potesse significare per Rigoletto essere maledetti ci rimane molto difficile. Il modo in cui viene più spesso rappresentato nelle regie contemporanee, così come in questo caso, si lega al concetto psicanalitico della ‘profezia che si autoavvera’. Proprio perché Rigoletto crede di essere maledetto, tutte le sue azioni tendono a far sì che qualcosa di brutto capiti davvero. È il troppo amore per sua figlia e il suo tenerla segregata in casa che la fa cadere, ingenua, inesperta, ai piedi del primo mascalzone che si presenta alla sua porta. È il suo tenerla nascosta a tutti che spinge i cortigiani a rapirla, credendo che si tratti della sua amante. E la maledizione, per Michieletto, diventa un sacco di fiori, freschi, ma recisi, portati in scena da Monterone e che insanguinano le mani di chiunque li tocchi.
Un Rigoletto particolare anche a livello musicale. Gatti, estremo ma certamente mai banale, si prende libertà che molti altri non si concedono: accelera dove di solito si rallenta e viceversa, accentua gli spigoli e lavora sulla teatralità della partitura verdiana. Si guadagna infatti qualche sparuto ‘bu’ a fine spettacolo, di quelli che proprio non si rassegnano alla sua interpretazione. Per il resto eccezionali coro e orchestra, largamente apprezzati dal pubblico, così come i cantanti che conquistano molti applausi a scena aperta, plauso che, per quanto riguarda questi ultimi, va esteso anche alle doti recitative dimostrate. Rosa Feola su tutti: interprete commovente in Caro nome e abilissima sul finale (cantato completamente sdraiata a terra). Ottima anche la performance di Iván Ayón Rivas, preciso e sempre potente (il suo acuto di giubilo nel backstage a fine spettacolo, si sente a metri distanza), buona quella di Roberto Frontali, interprete esperto e sempre al livello.
Con tutti i limiti del caso, dati in primis dalla microfonazione particolarmente difficile, visti gli spazi, e dalla resa audio generale decisamente migliorabile dal vivo (non sono mancati audio e video lievemente fuori sync) e nonostante la scarsa riuscita della ripresa mandata in diretta su Rai 5 la prima sera (praticamente impossibile riprendere qualcuno che sta riprendendo), si tratta di un’importante apertura pubblica per il Teatro dell’Opera di Roma che dimostra la voglia di lasciare un segno anche in epoca di resilienza.
Flavia Forestieri
RIGOLETTO
Musica Giuseppe Verdi
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo
Prima rappresentazione
Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
Durata: 2h 30′ circa senza intervallo
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Damiano Michieletto
MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE Paolo Fantin
COSTUMI Carla Teti
MOVIMENTI COREOGRAFICI Chiara Vecchi
LUCI Alessandro Carletti
REGIA CAMERE LIVE Filippo Rossi
PRINCIPALI INTERPRETI
IL DUCA DI MANTOVA Iván Ayón Rivas
RIGOLETTO Roberto Frontali
GILDA Rosa Feola
SPARAFUCILE Riccardo Zanellato
MADDALENA Martina Belli
GIOVANNA Irida Dragoti **
IL CONTE DI MONTERONE Gabriele Sagona
MARULLO Alessio Verna
MATTEO BORSA Pietro Picone
IL CONTE DI CEPRANO Matteo Ferrara
CONTESSA DI CEPRANO Angela Nicoli
PAGGIO Marika Spadafino
USCIERE Leo Paul Chiarot
** diplomato “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma