HomeArticoliFabrizio Arcuri: «È l'edificio ad esser stato messo in crisi non il...

Fabrizio Arcuri: «È l’edificio ad esser stato messo in crisi non il concetto di teatro»

Panorama Roma. Short Theatre 2017

Uno dei primi post che oggi mi è apparso su Facebook riguardava il lancio di Short Theatre, quindicesimo anno, la piena adolescenza. Quando ci siamo sentiti per programmare questa intervista mi hai anticipato la notizia: questa sarà l’ultima edizione con l’attuale direzione artistica. 

Sì, questa sarà ancora firmata in coppia da me e Francesca Corona come l’anno scorso, mentre dalla prossima edizione è nostra intenzione ripensare la direzione artistica.

Che edizione dobbiamo aspettarci, anche rispetto alle misure di contenimento alle quali lo spettacolo dal vivo deve sottostare per contenere il virus?

Ovviamente abbiamo deciso di farlo perché è importante dare una continuità al festival. È ovvio che subiremo delle limitazioni: una fra tutte è esattamente su quello che secondo noi rende importante Short Theatre, ovvero l’assembramento. Negli anni abbiamo coltivato un’idea di comunità, di luogo che per un periodo dell’anno si trasforma in una sorta di cittadella dove le persone si incontrano e fanno esattamente tutto quello che in questo periodo è vietato fare, riunirsi, appunto. Faremo di necessità virtù, distribuiremo gli spettacoli nel tempo e nello spazio, con più repliche e una certa fluidità tra spazi esterni e interni (India, Argentina, Pelanda e WeGil), caratterizzando il WeGil con opere più installative. Cercheremo di mantenere tutte le caratteristiche del festival con una modalità più morbida.

Panorama Roma. Short Theatre 2017. Foto Claudia Pajewski

Avverti la paura di un certo elitarismo? Da anni le arti performative riflettono sulla relazione con lo spettatore, sulla necessità di non chiudersi ai soliti appassionati e addetti ai lavori: ora le misure invece fanno sì che due terzi dei posti non siano occupabili.

È ovvio che le restrizioni vanno tutte contro l’idea che ognuno di noi ha del teatro, inteso come incontro o come contagio. E dunque nel momento in cui ci sono norme anti contagio ci sono norme anti teatro. Aumenteremo le repliche così da poter raggiungere lo stesso numero di persone, moltiplicheremo gli eventi in vari spazi, così da poter scongiurare gli assembramenti. È prematuro parlare del programma, ma tra una quindicina di giorni avremo pronto un pre-programma con il lancio dei nomi: alcuni stranieri li dobbiamo ancora confermare, tornerà Panorama Roma e sarà caratterizzato da prove aperte sui testi di Fabulamundi, un modo per far incontrare le artiste e gli artisti romani mentre sono al lavoro.

Torniamo a parlare di questo cambio di testimone. Da dove arriva la necessità? Quale saranno i termini con cui avverrà questo passaggio? Mi spiego meglio, state valutando la possibilità di utilizzare lo strumento del bando oppure di passare la direzione a figure interne che si sono formate con voi?

La modalità la stiamo ancora capendo: questa edizione è il frutto di una progettazione impostata a fine anno scorso, secondo i ritmi del Ministero e della Regione, dunque è naturale che sia ancora questa compagine a occuparsi di Short Theatre 2020.

Grafica di Short Theatre 2016

Poi però di fatto io e Francesca abbiamo accettato altri  incarichi : da quest’anno sono co-direttore del Css Teatro Stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia  e Francesca è entrata a pieno ritmo nella programmazione del Teatro India. Certamente è una promozione di quello che abbiamo fatto in passato  ma sarebbe strano se continuassimo a dirigere  il festival, che invece dopo tanti anni ha bisogno di una pausa di riflessione, come d’altronde è già avvenuto negli anni. Da sempre Short Theatre ha assunto forme diverse, per cercare di capire che ruolo stesse occupando negli equilibri della programmazione romana, quale fosse il suo specifico. Poi è chiaro che in una città particolare come Roma gli equilibri cambiano spesso dunque un festival come il nostri, che è luogo di comunità e di ricerca di identità, non può prescindere da ciò che gli accade intorno. Dunque oltre a porre l’attenzione su macro temi che condividiamo con artiste e artisti di tutto il mondo poi però sono importanti le dinamiche locali.

Anche per questo è nato Panorama Roma, per capire cosa stava accadendo artisticamente in questa città, a che punto era la comunità teatrale romana. Oggi più che mai ci sembra centrale che un progetto come il nostro si interroghi, si ripensi in funzione di una riflessione più ampia sui festival in Italia e cerchi modalità curatoriali diverse, lo dicevo proprio su TeC in una intervista di due o tre anni fa.

Materiali per una tragedia tedesca, 2016. Foto Giovanni Chiarot

A tal proposito: vi siete mai detti, tra i denti, nei momenti più difficili “se chiudesse Short Theatre, per quanto è disgregata questa città, chissà quanti si lamenterebbero”?

È un pensiero che onestamente non abbiamo mai fatto. Abbiamo sempre pensato che il festival fosse uno strumento utile per la città, con rammarico mi verrebbe da pensare che se Short chiudesse subirebbe lo stesso trattamento che subisce tutto quello che in questi anni è stato chiuso, diventerebbe racconto di un periodo, di un’esperienza.

Quest’anno hai terminato la tua collaborazione con il capodanno di Roma, lascerai la direzione di Short Theatre, hai iniziato a collaborare con Il Css, con lo Stabile del Veneto, sei l’ennesimo artista costretto a lasciare questa città perché non si sente valorizzato?

No, Assolutamente, anzi. Penso che questo girovagare, fa parte del mio lavoro: penso alla lunga collaborazione con Mario Martone allo Stabile di Torino alla progettazione del festival internazionale Prospettiva, poi la direzione del Teatro Stabile della Tosse a Genova. Poi sono stato regista assistente di Ronconi. Cambiare vuol dire mettersi in discussione Confrontarsi con altre necessità e altri territori, è importante e nutriente per un artista. Ho fatto un’esperienza come regista residente per 5 anni al Teatro di Roma, prodotto molte cose, cambiare è naturale.

Ti chiedo solo altri due commenti su questioni romane, entrambe legate alle politiche culturali dell’attutale assessorato guidato da Luca Bergamo. Il primo è un commento sul bando a sostegno di soggetti che operano nella cultura, 800mila euro totali, per tutti i progetti nella Capitale sostenuti nell’emergenza Covid.  

È evidente che il problema sia a monte: questo enorme blob tentacolare, rappresentato dalla cultura, in realtà non è regolamentato in nessun modo; chi decidesse di intervenire attraverso uno strumento di sostegno si trova di fronte appunto a un magma informe. Non so, forse, andrebbe sistematizzata  per capire chi opera in che ambito con quali strumenti e quindi poi forse si potrebbe capire meglio come intervenire. In questi mesi di Covid è diventato evidente che siamo in una totale deregulation intorno alle forme e ai modi del fare cultura. Ognuno ha trovato una forma, un interstizio entro cui operare ma certo il tutto è molto confuso. La volontà di intervenire con bandi mi sembra importante, ma certo, è molto difficile poi stabilire i parametri e  Il problema non si può certo attribuire a questa amministrazione.

Sweet home Europa, 2015. Foto Sefora Delli Rocioli

Il secondo commento naturalmente è su Romarama: secondo alcuni osservatori Bergamo e il suo team cambiando il nome hanno rebrandizzato un pezzo di Storia, l’Estate Romana di Nicolini, cancellandolo. Che ne pensi?

Effettivamente era parecchio  che un assessorato alla cultura non si dedicasse a politiche culturali su Roma, dobbiamo tornare indietro all’epoca Veltroni, e certamente Nicolini, per trovare qualcuno in grado di inventare o attivare politiche; poi abbiamo avuto un lungo periodo di assenza. Questo assessorato ha di nuovo una forte idea di politica culturale e in questi anni l’ha articolata all’interno di una serie di progettualità in continuità proprio con quegli assessori del passato che diedero alcune impostazioni importanti.

Sono cambiati i tempi certo, alcuni progetti sono diventati solo dei contenitori, ma non mi sembra ci siano dei ribaltamenti, anzi mi sembra ci sia la volontà di occuparsi della città rilanciando una serie di progetti, in continuità. Il mio non è un giudizio di valore, È una constatazione ,vedo che c’è la voglia di rischiare, di prendersi delle responsabilità, i bandi triennali, delle linee guida, scienza, contemporaneo, Il nuovo assetto delle biblioteche, il progetto sulla Pelanda del Macro…

Hai diretto per quattro volte il Capodanno di Roma, sostanzialmente inventando una festa che potesse essere anche un grande evento artistico, cosa ti ha lasciato lavorativamente un’esperienza così mastodontica?

Dunque, da un lato mi ha lasciato l’impagabile esperienza di gestire un palcoscenico grande 3 km per una durata di 24 ore sapendo di dover incontrare migliaia e migliaia di spettatori, non penso esista qualcosa di paragonabile in Italia per grandiosità e complessità. Dall’altra, l’incredibile esperienza di lavorare insieme alle 12 istituzioni culturali della città, condividendo progetti e proposte e costruendo insieme formati artistici.

Arcuri con la direzione artistica del Css di Udine (Maggi, Maffei, Bevilacqua, Arcuri, Schiratti)

La collaborazione con il Css è attiva già con questa nuova stagione?

Sì. Abbiamo lavorato tutta la primavera per il lancio di Blossom (Fioriture), tentando di trasformare la debolezza data dalla pandemia in una forza. Non aveva senso per noi aprire i teatri e creare un’esperienza così influenzata dalle normative: con lo spettatore che deve subire il distanziamento, gli attori che lavorano su uno spettacolo ripensato, il panico che potrebbe arrivare al minimo colpo di tosse; mi chiedo: cosa deve succedere sul palco per attrarre l’attenzione dello spettatore? I fuochi d’artificio?

Allora abbiamo fatto una scelta radicale e pensato di scegliere solo spettacoli che siano esperienze, dispositivi che si snodino all’interno della città, come proprio una fioritura; se la comunità non può andare a teatro sarà il teatro ad andare incontro alle comunità. È l’edificio ad esser stato messo in crisi non il concetto di teatro, quindi il teatro si riappropria degli spazi all’aperto e della possibilità di intervenire e prendersi cura dell’immaginario delle persone. Perché l’immaginario è proprio ciò che è stato più mortificato da questi mesi di confinamento e di paura… ecco, ci sembrava importante intervenire in questo senso. Per essere il più inclusivi possibile avremo tantissime repliche: ci sono spettacoli che cominciano a luglio e finiscono a dicembre. La maggior parte di questi dispositivi spettacolari sono produzioni come Nella solitudine dei campi di cotone di Mario Martone o Vanja in città di Rita Maffei. Altre produzioni saranno dirette da registi stranieri che però lavoreranno con interpreti del territorio friulano, artisti come gli inglesi Gobbedeglook, Jerome Bell, Ivana Muller o L’olandese Lotte van der Berg che collaboreranno dunque con performer locali.  Sono spettacoli nati in altri momenti, che non hanno niente a che fare con il Covid, sarebbero stati uguali anche senza la pandemia. Poi nel 2021, quando speriamo di tornare alla normalità “aumentata” di questa esperienza, recuperare tutto quello che è saltato o è stato sospeso.

Candide, 2016. Foto di Achille Le Pera

Parliamo del Fabrizio Arcuri regista: c’è  un testo o un progetto che ti affascina e che prima o poi vorrai mettere in scena?

È un po’ di tempo che sto approfondendo l’Orestea con Davide Carnevali, ci sono degli aspetti che ci sembrano importanti oggi, delle questioni generative: quell’idea di democrazia fondata sulla legge, ma con una legge fondata a sua volta sul terrore. È un ambito che mi incuriosisce e sto capendo come metterlo a fuoco, era un progetto del Teatro di Roma che è andato perso nel cambio di direzioni.

Poi c’è il progetto  a partire dalla Divina Commedia con il Teatro Stabile del Veneto che coltiviamo da un annetto circa con Fausto Paravidino, Letizia Russo e Fabrizio Sinisi, lo aspetto con grande ansia perché è il tipo di progetto che sento urgente e importante: tre testi originali che prendono spunto dalla Commedia; ci sono tanti aspetti che possono trasformarsi in qualcosa di importante, che possono aiutarci a leggere questo nostro presente. Immagina già quanto sarà importante e complesso sostituire la convenzione religiosa, alla base del capolavoro di Dante, con qualcos’altro che sia più legato alla nostra epoca.

Come si scioglie in questo momento il nodo in cui sembriamo essere tutti incappati, ovvero la necessità di ripartire per molti festival e istituzioni pubbliche, con le esigenze delle lotte, le difficoltà delle tante attrici e dei tanti attori, dei tecnici e lavoratori tutti, che hanno in questo periodo una grande difficoltà a trovare collaborazioni e scritture?

Penso che durante il periodo del confinamento abbiamo perso un’occasione: sarebbero bastati due giorni di sciopero generale per dimostrare agli italiani il valore e il ruolo del lavoratore dello spettacolo. Si poteva organizzare uno sciopero che coinvolgesse i tecnici, i fonici i lavoratori delle televisioni e delle radio e fermare così tutto, mandare tutto a nero. Persa quell’occasione adesso la rincorsa diventa difficile: da una parte ci sono strutture che non possono fermarsi, non possono stare chiuse; dall’altra parte c’è però una mancanza totale di regolamentazione come dicevamo anche prima: ho seguito il lavoro di molti gruppi che si sono riuniti per riflettere su queste questioni e a me sembra che si viva per certi aspetti una dimensione “romantica” del ruolo dell’artista, però anche la creazione di un albo dedicato ai lavoratori dello spettacolo mi sembra un’idea terrificante. Qualsiasi iniziativa organizzata dai lavoratori secondo me deve essere fortemente appoggiata da tutte e tutti, nella direzione di una regolamentazione, del mestiere e della figura del lavoratore. Non c’è da turbarsi se ci definiscono “lavoratori e lavoratrici dello spettacolo“, perché è una categoria, in quanto tale deve essere riconosciuta, deve avere un sindacato e vedersi riconosciuti i diritti di un lavoratore che certamente è anomalo e segue un iter d’impiego diverso dagli altri lavoratori. D’altra parte trovo difficile isolare questa vertenza da una più ampia questione sul lavoro in generale e sull’impiego dei giovani in Italia.

Siamo un pezzetto di un cosmo che ha smesso di funzionare a pieno regime è pieno di contraddizioni, dovremmo tentare di sostenere tutte e tutti, insieme a un percorso comune che parta dai call center e dai riders per arrivare poi anche agli artisti: non siamo dei privilegiati siamo dei precari.

Andrea Pocosgnich

Telegram

Iscriviti gratuitamente al nostro canale Telegram per ricevere articoli come questo

Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Pubblica i tuoi comunicati

Il tuo comunicato su Teatro e Critica e sui nostri social

ULTIMI ARTICOLI

Nell’architettura di vetro di Williams/Latella

Lo zoo di vetro di Tennessee Williams diretto da Antonio Latella per la produzione greca di di Technichoros e Teatro d’arte Technis. Visto al teatro...