Teatrosofia #107. Anassagora, distante dal teatro, eppure, maestro di Euripide, che ne fu fortemente influenzato. Un’indagine
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO.
Il filosofo Anassagora di Clazomene non ha lasciato traccia scritta di una sua riflessione sul teatro, stando almeno ai frammenti del suo trattato Sulla natura. Qui egli ipotizza l’esistenza di una mente del cosmo la quale fa sì che i semi delle cose, originariamente mescolati assieme, si uniscano in modo proporzionato e ordinato, determinando così la nascita dei fenomeni e degli enti che conosciamo. Il solo contributo prossimo al teatro all’interno della sua riflessione è riportato da Vitruvio. Egli sostiene che Anassagora avrebbe elaborato una teoria prospettica a partire dagli appunti del pittore Agatarco su una sua scenografia di una tragedia di Eschilo, che spiega perché accade che gli oggetti dipinti sullo sfondo della scena appaiano oggetti realmente sporgenti verso lo spettatore. Si tratta tuttavia più di una meditazione fisica o epistemologica ispirata da un testo di teatro, che non una riflessione su quest’arte.
D’altro canto, Anassagora ebbe anche un allievo di eccezione, che rivoluzionò il teatro e lo portò a livelli eccellenti: il tragico Euripide. Le fonti concordano nell’idea che la filosofia anassagorea ebbe un forte ascendente sull’opera euripidea, a cominciare dal grammatico Alessandro di Etolia. Quest’ultimo fu un esperto artefice ed editore di tragedie, tanto da ricevere dal re Tolemeo Filadelfo l’invito a creare un catalogo di tutti i testi tragici e di correggerne la loro forma, ma Alessandro di Etolia fu anche autore di un epigramma che per la prima volta qualifica Euripide come allievo diretto di Anassagora.
Alcune di queste testimonianze entrano tuttavia più nello specifico. Esse precisano che Euripide fu indotto da Anassagora ad abbracciare molte dottrine fisiche, epistemologiche e morali, che vale la pena raccogliere e sintetizzare di seguito.
I frammenti della tragedia Melanippe saggia attesterebbero due debiti. Il primo è una ripresa della già citata dottrina di Anassagora della separazione dei fenomeni e degli enti che conosciamo dalla confusa mescolanza originaria. Melanippe avrebbe ascoltato dalla madre un discorso di ascendenza appunto anassagorea.
Per appurare il secondo debito verso Anassagora in Melanippe saggia, invece, occorre riassumere in breve la trama, che ci è riferita in larga parte dall’Arte retorica dello pseudo-Dionisio di Alicarnasso. Melanippe si unì con Poseidone e partorì due gemelli, che nascose in una stalla fuori dalla vista di suo padre Eolo. Un giorno, i bovari – che erano all’oscuro di tutto – trovarono i piccoli mentre erano nutriti da una mucca e protetti da un toro. Convinti che si trattasse di un prodigio, essi lo riferirono a Eolo, che decise di bruciare i gemelli. A quel punto interviene Melanippe che, con un appassionato discorso, dimostra che i piccoli sono figli suoi e che è impossibile il parto di un essere umano dall’unione di un toro con una mucca. Anche se purtroppo l’apologia del personaggio non ci è arrivata, è possibile supporre che il suo spirito critico contro i prodigi potesse ispirarsi al razionalismo di Anassagora. Sappiamo che il filosofo attaccava queste credenze superstiziose, come ci è ad esempio attestato da un famoso aneddoto conservato in Plutarco. La testa di un montone con un corno solo fu portato a Pericle e l’indovino Lampone interpretò il prodigio come un segno divino che il partito pericleo, allora in competizione con quello di Tucidide, avrebbe vinto sul rivale e il potere sarebbe allora passato a un’unica fazione politica. Anassagora ruppe il cranio dell’animale e mostrò invece che il fenomeno era causato da una malformazione del cervello della bestia. È forse con uno spirito simile che Melanippe poté provare che un toro e una mucca non potevano essere i genitori naturali dei due gemelli.
Un’altra dipendenza di Euripide da Anassagora è ipotizzata da Vitruvio, l’allegorista Eraclito Aezio. Questi testimoni citano una manciata di versi da un lungo frammento dal Crisippo euripideo che, da un lato, riporta che gli esseri viventi nacquero dalla terra fecondata dalla pioggia, dall’altro sancisce il principio che nulla si crea e nulla si distrugge, ma che gli elementi delle cose si scompongono e si ricompongono in maniera diversa dopo la presunta morte di un essere vivente. Accade quindi che le parti terrigne tornino alla terra e quelle celesti ai cieli, invece di andare distrutte dopo la separazione nella mescolanza. Questo frammento del Crisippo conterrebbe un altro prestito della fisica di Anassagora, che in effetti nega che esistano i processi di generazione e corruzione in sé, così come gli esseri viventi abbiano avuto origine dalla terra umida.
Euripide attinse poi alla fisica anassagorea anche per parlare dei fenomeni naturali. Nel Fetonte, nell’Oreste e in una sua tragedia perduta, egli segue il maestro nel considerare il sole come una pietra incandescente e la terra come il focolare dell’umanità. Soprattutto, però, come ripetono molte fonti, Euripide riprende da Anassagora la causa delle esondazioni del Nilo, che consisterebbe nel flusso di acqua proveniente dallo scioglimento delle nevi montane. Solo l’anonimo autore di un trattato Sul Nilo specifica che le tragedie euripidee in cui il fenomeno è descritto sono l’Archelao e l’Elena, le quali aggiungono che il punto di origine sono i monti dell’Etiopia, come è confermato da altre fonti. Più che a una ripresa dottrinale, qui ci troviamo però davanti a una digressione erudita, che aiuta lo spettatore a calarsi nell’azione drammatica.
Se diamo poi credito a Cicerone e Galeno, dovremmo aggiungere che Euripide riconosca un debito verso l’etica di Anassagora in una tragedia perduta che aveva come protagonista Teseo. Il tragediografo fa dire al personaggio di aver appresso da un «dotto» la pratica di anticipare i mali futuri nella mente, così da non trovarsi impreparato ad affrontarli, nel caso si manifestassero veramente nella realtà. Ora, secondo Cicerone e Galeno, Teso sarebbe l’alter ego di Euripide stesso. Il «dotto» consisterebbe invece in Anassagora, che pare facesse ricorso a tale pratica meditativa. Quando infatti gli venne riferito che suo figlio era morto prematuramente, il filosofo non si scompose e rispose di aver sempre saputo di averlo generato mortale.
Infine, anche se non c’è una testimonianza antica che lo confermi direttamente, possiamo supporre che un ultimo punto di contatto tra Anassagora ed Euripide sia l’elogio della beatitudine che discende dallo studio della natura. Clemente di Alessandria e Aristotele attribuiscono al primo la tesi esplicita che la contemplazione sia appunto ciò che rende felici gli esseri umani. Gli sembrerebbe fare eco il fr. 910 di un’altra tragedia perduta di Euripide, che mostra come almeno un personaggio della sua fantasia poetica sposasse una concezione anassagorea della felicità.
Escludendo le digressioni erudite dell’Archelao e dell’Elena sul Nilo, le sopra citate tragedie di Euripide che attingono discretamente ad Anassagora hanno in comune due aspetti: il primo è l’impianto razionalistico, che serve sia a contrastare la credenza superstiziosa nei prodigi che a prepararsi ai mali a venire, il secondo riguarda la visione scientifica di un mondo che non ammette l’esistenza di dèi provvidenti. La spiegazione che le realtà si generano per la separazione degli elementi avviene del resto senza un controllo divino, ma apparentemente anche del controllo di quella Mente ordinatrice che era stata menzionata all’inizio e che costituisce per Anassagora il principio supremo di ogni cosa.
Si potrebbe pensare che quest’ultima osservazione ponga una differenza tra Euripide e il suo maestro. In realtà, le fonti sulla filosofia di Anassagora sono concordi nel riferire che la Mente non era sempre invocata come principio ordinatore, anzi molti fenomeni erano anzi spiegati senza ricorrervi. Asclepio di Tralle sintetizza bene il punto, quando chiarisce la dichiarazione di Aristotele che Anassagora usa la Mente cosmica solo come espediente per spiegare fenomeni che non sa spiegare in termini puramente materiali o meccanicistici, attraverso l’esempio del deus ex machina di Artemide che Euripide usa nella sua tragedia Ippolito. Il tragediografo non fa mai intervenire la dea nell’opera a sostegno di Ippolito, se non proprio verso il finale, ossia per consentire al figlio morente di dare al padre Teseo – che l’aveva accusato ingiustamente di aver insidiato la matrigna Fedra – l’ultimo saluto e il proprio perdono. Allo stesso modo, Anassagora non cita la Mente tranne che in quei rari casi in cui non ha altra alternativa per spiegare perché la realtà procede in un certo modo. La tendenza di Euripide a non citare esplicitamente questo principio ultimo e ordinatore può essere allora interpretato come un’altra forma di continuità con la fisica anassagorea, disposta a ricorrere al suo principio metafisico solo in casi eccezionali e particolarmente complessi.
Enrico Piergiacomi
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Per la prima volta in Atene, dovendo Eschilo rappresentare una tragedia, Agatarco fece una scena e ne lasciò memoria. Spinti da ciò Democrito e Anassagora scrissero sullo stesso argomento, come cioè, stabilito un punto fisso quale centro, le linee rispondano alla capacità degli occhi e alla direzione dei raggi secondo il rapporto che c’è in natura, in modo che immagini vere create con cose non vere rendano nell’allestimento scenico l’apparenza di case, e quelle cose che sono raffigurate su pareti piane o diritte appaiano talune rientranti, altre sporgenti (Anassagora, fr. 59 A 39 DK = Vitruvio, Sull’architettura, libro VII, prefazione, § 11)
Il Callia di lui [di Eschine Socratico] tratta della divergenza tra Callia e il padre e la beffa contro i sofisti Prodico e Anassagora. Dice infatti che Prodico fece suo discepolo Teramene, l’altro [fece tali] Filosseno, figlio di Erisside, e Arifrade fratello di Arignoto il citaredo, volendo mostrare dalla cattiveria delle loro azioni e dalla loro spregevole avidità l’insegnamento dei maestri (Eschine il Socratico, T113 Pentassuglio; Anassagora, fr. 59 A 22 DK = Ateneo, I sofisti al banchetto, libro V, § 62)
Insultare i depravati non è una colpa; ma – a ben pensarci – è un onore che si rende alla gente perbene. Se la persona che si sentirà dire numerosi, pesanti insulti, fosse di per sé nota, non farei il nome di un amico. Ora, tra coloro che sanno distinguere il bianco… dalla melodia ortia, non c’è uno che non conosca Arignoto. Ma lui ha un fratello che di carattere non gli somiglia affatto: quel depravato di Arifrade. E costui se ne vanta: non solo è un depravato –, un depravato integrale, ma anche fatto un’invenzione: insozza la lingua in turpi piaceri, leccando nei bordelli l’immonda rugiada ed attizzando i focolari; crea componimenti degni di Polimnesto, e se la fa con Eonico. Chi non prova un disgusto profondo per un individuo simile, mai berrà con noi dalla stessa coppa (Aristofane, Cavalieri, vv. 1274-1289; trad. Mastromarco)
Inoltre Arifrade derideva i tragediografi, perché nel parlare usano espressioni che nessuno pronuncerebbe, del tipo domaton apo [= dalle case via] invece di apo domaton [= via dalle case], o sethen [= teco], o ego de nin [= io ei], o Achilleos peri [= d’Achille intorno] invece di peri Achilleos [= intorno ad Achille], e altre dello stesso genere. Invece, tutti gli enunciati di questo genere, in quanto non di uso proprio, fanno sì che nell’enunciazione non vi sia trivialità. Ma ciò Arifrade l’ignorava (Aristotele, Poetica, passo 1458b31-1459a4; trad. Guastini)
Alessandro Etolo ha scritto su Euripide questi versi: «Il discepolo del venerando Anassagora era rozzo, mi sembra, nel parlare: non gli piaceva ridere e non sapeva scherzare neppure tra il vino, ma quel che ha scritto, l’ha fatto di miele e di sirene» (Anassagora, fr. 59 A 21 DK; Alessandro di Etolia, fr. 7 Magnelli = Aulo Gellio, Notti attiche, libro XV, cap. 20, § 8)
Pare che intorno alla natura del tutto neppure Euripide disapprovi quanto è stato detto, lui che fu discepolo di Anassagora il naturalista. Nella Melanippe [saggia] pone così: «che il cielo e la terra erano un’unica forma: / ma dopo che si separarono l’uno dall’altra, / producono ogni cosa e danno alla luce / alberi, volatili, fiere e i figli nutriti dal mare / e la razza dei mortali» (Euripide, fr. 484 Nauck; Anassagora, fr. 59 A 62 DK; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro I, cap. 7, § 7)
Ma anche il poeta Euripide realizza un discorso figurato in un intero dramma, Melanippe la saggia. Anche qui la figura è doppia, da un lato quella del poeta, dall’altro quella del personaggio rappresentato, Melanippe. Euripide era stato discepolo di Anassagora e un’opinione di Anassagora affermava “tutte le cose sono insieme”. In seguito, frequentato Socrate e accostatosi ad una forma superiore di pensiero, ritenendo – come mi sembra – anche l’insegnamento di Anassagora degno di menzione nei suoi drammi, introdusse appunto questo insegnamento in Melanippe la saggia. L’inizio del suo discorso allude proprio alla riconoscenza nei confronti del maestro. Infatti Melanippe dice: “Il racconto non e mio, ma proviene da mia madre”. La figura impiegata da Euripide è questa. Qual è invece quella di Melanippe? Espose i figli tra le mandrie del padre. Costui, pensando che si tratti di un prodigio, decide di bruciare i piccoli, ma ella, volendo salvare i figli, dimostra con argomentazioni da filosofo che quello non è affatto un prodigio, e così mentre filosofeggia, dispone il proprio utile in forma di suggerimento. (Anassagora, fr. 119 Gershenson-Greenberg = Pseudo-Dionisio di Alicarnasso, Arte retorica, cap. 8, § 10; trad. Dentice di Accadia)
Il dramma di Euripide, Melanippe la saggia s’intitola “saggia”, perché filosofeggia, ed è per questo motivo che ella proviene da tale madre, affinché non sia inverosimile che filosofeggi. Vi è una doppia figura: da un lato quella del poeta, dall’altro quella del personaggio del dramma, Melanippe. Quella del poeta è la seguente: Euripide era stato discepolo di Anassagora e una teoria di Anassagora afferma “tutte le cose in tutto, e poi, in seguito, furono separate”. Successivamente frequentò anche Socrate e si volse verso una forma più complessa di pensiero. Egli, dunque, ammette l’antico insegnamento per bocca di Melanippe: Il racconto non è mio, ma proviene da mia madre, come cielo e terra erano un’unica forma. In questo modo il poeta esprime in forma figurata il suo stesso pensiero. Melanippe, invece, dal canto suo, fu sedotta da Poseidone e partorì alcuni figli, che espose tra le mandrie di buoi del padre. Il padre pensa che siano nati da una vacca e, pensando che si tratti di un prodigio, vuole bruciarli. Ma Melanippe, per portare soccorso a se stessa, cerca di dimostrare che non vi è alcun prodigio. In questo modo l’intero dramma è figurato; e, allo stesso tempo, Euripide ci insegna che chi fa un discorso figurato deve avvicinarsi a disfare la figura, beninteso mantenendo la prudenza della figura. Infatti, nell’esporre tutti i motivi per cui salvare i piccoli, dice : “Se una vergine, sedotta, ha esposto questi bambini per timore del padre, tu commetterai un omicidio?” Sicché riferisce la propria vicenda in forma di suggerimento (Anassagora, fr. 120 Gershenson-Greenberg = Pseudo-Dionisio di Alicarnasso, Arte retorica, cap. 9, § 11; trad. Dentice di Accadia)
Euripide, scolaro di Anassagora che gli Ateniesi chiamarono “il filosofo scenico”, [sostenne che i principi di tutte le cose sono] l’aria e la terra. Quest’ultima, fecondata dalle piogge celesti, avrebbe generato la stirpe degli uomini e tutte le specie viventi. Col passare del tempo ogni essere da essa creato è inevitabilmente destinato a dissolversi e ritorna in essa; anche ciò che nasce dall’aria ritorna ugualmente alle regioni del cielo, senza morire, ma dissolvendosi e trasformandosi riacquista quelle proprietà che aveva in origine (Anassagora, fr. 124 Gershenson-Greenberg = Vitruvio, Sull’architettura, libro VIII, prefazione, § 1; trad. Migotto)
Anassagora di Clazomene, allievo e successore di Talete, abbinò all’acqua come secondo elemento la terra, affinché l’umido mischiato al secco si stemperasse in un’omogenea concordia pur a partire da una natura essenzialmente contraria. (…) Per questo anche Euripide dice, seguendo le dottrine del filosofo di Clazomene: «Ritorna infatti alla terra quel che dalla terra è prodotto e quel che germoglia da seme etereo nella volta celeste rifluisce» (Eraclito Allegorista, Questioni omeriche, cap. 22.8-11; trad. Pontani)
I seguaci di Epicuro (…) [ritengono] che gli esseri viventi vengono alla luce per trasformazione reciproca: in realtà sono parti del cosmo, come dicono anche Anassagora ed Euripide: «niente di ciò che nasce muore, ma separandosi l’uno dall’altro nuova forma mostra» (Anassagora, fr. 59 A 112 DK = Aezio, Opinioni dei fisici, libro V, cap. 10, § 23)
Gaia grandissima ed Etere di Zeus, lui genitore degli uomini e degli dèi, lei accolte le umide gocce d’acqua genera i mortali, genera il cibo e le stirpi delle fiere, donde non senza ragione è ritenuta madre di tutti. Ritorna infatti alla terra quel che dalla terra è prodotto e quel che germoglia da seme etereo nella volta celeste rifluisce: niente di ciò che nasce muore, ma separandosi l’uno dall’altro nuova forma mostra (Euripide, Crisippo, fr. 839 Nauck)
Nel primo libro della Fisica Anassagora dice chiaramente che il nascere e il perire sono comporsi e separarsi. Scrive così: «Del nascere e del perire i Greci non hanno una giusta concezione, perché nessuna cosa nasce né perisce, ma da cose esistenti [ogni cosa] si compone e si separa. E così dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il perire separarsi» (Anassagora, fr. 59 B 17 DK = Simpl. In Arist. Phys. 163.18-24)
Dapprincipio i viventi nacquero nell’umido, in seguito l’uno dall’altro (Anassagora, fr. 59 A 42 DK = Pseudo-Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, libro I, cap. 8, § 13)
Secondo Diogene e Anassagora, dopo che il mondo fu formato e gli esseri viventi vennero su dalla terra, il mondo in qualche modo si inclinò da sé verso il suo lato meridionale (probabilmente per calcolo provvidenziale, onde cioè talune parti fossero disabitate, altre invece abitate, per il freddo o per il calore o per buona temperanza di clima) (Anassagora, fr. 59 A 67 DK = Aezio, Opinioni dei fisici, libro II, cap. 8, § 1)
Dicono ch’abbia predetto la caduta d’un meteorite avvenuta ad Egospotami – a suo parere sarebbe caduto dal sole –, che di qui Euripide, suo discepolo, nel Fetonte chiamò il sole «massa d’oro» (Anassagora, fr. 59 A 1 DK; Euripide, fr. 783 = Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, § 10)
Tantalo, datosi allo studio della natura, avendo detto che il sole è una massa infocata, dovette pagare il fio di questo, sicché gli è tenuto sospeso in alto il sole dal quale è atterrito e spaventato. Intorno al sole i naturalisti sostengono che con sasso si indica il sole e che Euripide, diventato discepolo di Anassagora, chiamò pietra il sole in questi versi: «Perché il felice … Tantalo temendo la pietra che gl’incombe sul capo, nell’aria è librato e sconta questa pena». In altri versi poi lo chiama massa: «Potessi levarmi alla pietra sospesa in mezzo tra cielo e terra, trascinata dai vortici con catene d’oro, massa che pende d’Olimpo, perché nel lugubre canto invochi il vecchio padre Tantalo» (Anassagora, fr. 59 A 20a DK; Euripide, Oreste, vv. 4-7 e 982-1984 = Anonimo, Scolio alle «Olimpiche» di Pindaro, commento a Olimpica 1, v. 91)
Anassagora il fisico sostiene che l’esondazione del Nilo ha luogo a causa dello scioglimento delle nevi. Concordano con lui Euripide e altri tragici. Anassagora dice che la causa dell’esondazione avviene là dove il fenomeno stesso ha origine, come dice lui stesso, mentre Euripide ne specifica il luogo nel suo dramma Archelao («Danao, padre di cinquanta figlie, lasciata l’acqua del Nilo bellissima dalla sorgente, che si gonfia di correnti dall’etiopica terra di neri, quando la neve si scioglie all’arrivo del carro del sole in cielo») e nell’Elena («Eccomi qui, alle correnti del Nilo dalle belle Ninfe, che si sostituisce alla pioggia divina per irrigare il suolo dell’Egitto, quando si sciolgono le nevi candide») (Anassagora, fr. 248 Gershenson-Greenberg; Euripide, Archelao, fr. 228, ed Elena, vv. 1-3 = Anonimo, Sul Nilo, § 2, ed. Gambetti; trad. mia, salvo che dei versi euripidei, che sono rispettivamente di Musso-Burlando e di Tonelli)
Quindi questa preparazione preventiva ai mali futuri rende meno aspro il loro arrivo, in quanto molto prima si son visti venire. Così si lodano le parole di Teseo in Euripide (e possiamo – come facciamo spesso – tradurle in latino): «Infatti poiché mi ricordavo d’aver appreso ciò da un dotto, / nel mio intimo alle future miserie mi preparavo: / a morte violenta o a triste fuga in esilio / o a qualche male enorme sempre pensavo, / affinché, se per caso si abbattesse qualche sventura, / non mi tormentasse impreparato improvvisa cura». Nel punto dove Teseo dice di aver appreso da un dotto, Euripide parla di se stesso, poiché era stato alle lezioni di Anassagora, di cui si narra che alla morte del figlio abbia detto: «Sapevo di averlo generato mortale». Questa frase dimostra che tali eventi sono dolorosi per chi non vi ha mai pensato (Anassagora, fr. 106 Gershenson-Greenberg = Cicerone, Disputazioni Tuscolane, libro III, cap. 14, §§ 29-30; trad. Marinone)
Perciò ha citato a questo punto l’espressione di Anassagora il quale, avendogli uno annunziato che gli era morto il figlio, nient’affatto scomposto, osservò: «Sapevo di averlo generato mortale». Ed Euripide riprende questo pensiero quando rappresenta Teseo che dice: «Ammaestrato da un saggio, io pensavo sempre ai casi della vita e mi mettevo dinanzi l’esilio dalla patria, la morte immatura, le altre vie dei mali, perché, se avessi subìto una di quelle cose che avevo pensato, non mi addolorasse troppo colpendomi inattesa» (Anassagora, fr. 59 A 33 DK = Galeno, Sui lasciti di Ippocrate e Platone, libro IV, cap. 7)
Sostengono che Anassagora di Clazomene dicesse che il fine della vita sia la contemplazione e la libertà che ne consegue (Anassagora, fr. 59 A 29 DK = Clemente di Alessandria, Stromati, libro II, cap. 12, sezione 130, § 2)
Dicono che uno rimaneva incerto su tali questioni e chiedeva perché era preferibile il nascere al non nascere. Anassagora gli rispose: «Per contemplare il cielo e l’ordine che esiste nell’universo intero» (Anassagora, fr. 59 A 30 DK = Aristotele, Etica Eudemia, libro I, passo 1216a11-14)
Felice colui che della ricerca possiede la scienza e non si mette a recar danno ai cittadini né in imprese scellerate, ma dell’immortale natura contempla l’ordine insenescente quando unita essa permane e dove e come. A costoro non posa mai vicino la preoccupazione di turpi imprese (Euripide, opera incerta, fr. 910)
Anassagora si serve della Mente come di un deus ex machina per rendere conto della costruzione del mondo e quando non sa spiegare per quale motivo una cosa è di necessità [quel che è], allora lo fa intervenire, mentre per gli altri casi indica come causa tutto fuorché la Mente (Anassagora, fr. 59 A 47 DK = Aristotele, Metafisica, libro I, passo 985a18-20; trad. modificata)
Aristotele sostiene che Anassagora usa la mente come deus ex machina, o alla maniera in cui gli dèi sono introdotti nelle tragedie sulla scena per risolvere delle situazioni impossibili, come Artemide che si manifesta a Teseo quando si trova in aporia nell’Ippolito [di Euripide]. Similmente, quando Anassagora non riesce a spiegare in che modo il modo è stato generato, egli tira in ballo la Mente. Per il resto, quando spiega i fenomeni nel dettaglio, egli cita tutto meno che la mente (Anassagora, fr. 572 Gershenson-Greenberg = Asclepio di Tralle, Commentario alla «Fisica» di Aristotele, p. 32.2-7; trad. mia)
[La maggior parte delle fonti su Anassagora sono citate da Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969. Laddove non diversamente indicato, la traduzione italiana dei testi è presa da questa raccolta. Altre fonti su Anassagora sono invece citate da Daniel Gershenson, Daniel Greenberg (eds.), Anaxagoras and the birth of physics, New York, Blaisdell, 1964. I frammenti di Euripide si trovano ora in Richard Kannicht (ed.), Tragicorum Graecorum fragmenta. Vol. 5a-b: Euripides, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2004. Le altre raccolte e traduzione italiane usate sono le seguenti:
- Angelo Tonelli (a cura di), Eschilo-Sofocle-Euripide: Tutte le tragedie, Milano, Bompiani, 2013;
- Daniele Guastini (a cura di), Aristotele: Poetica, Roma, Carocci, 2010;
- Enrico Magnelli (a cura di), Alexandri Aetoli testimonia et fragmenta, Firenze, Università degli Studi di Firenze, 1999;
- Filippomaria Pontani (a cura di), Eraclito: Questioni omeriche. Sulle allegorie di Omero in merito agli dèi, Pisa, ETS, 2005;
- Francesca Pentassuglio (a cura di), Eschine di Sfetto: tutte le testimonianze, Turnhout, Brepols, 2017;
- Giuseppe Mastromarco (a cura di), Aristofane: Commedie. Volume I, Torino, UTET, 1997;
- Luciano Migotto (a cura di), Marco Vitruvio Pollione: De Architectura, Pordenone, Studio Tesi, 1990;
- Nino Marinone (a cura di), M. Tullio Cicerone: Opere politiche e filosofiche. Vol. II, Torino, UTET, 1955;
- Olimpio Musso (a cura di), Tragedie di Euripide. Volume quarto, con la collaborazione di Annalaura Burlando, Torino, UTET, 2009;
- Sandra Gambetti (ed.), “Anonymous, On the Nile (647)”, in Brill’s New Jacoby, General Editor: Ian Worthington (Macquarie University): http://dx.doi.org/10.1163/1873-5363_bnj_a647;
- Stefano Dentice di Accadia (a cura di), Pseudo-Dionigi di Alicarnasso: I discorsi figurati I e II, Pisa-Roma, Serra, 2010]