Tra la lotta politica e la poetica artistica, spazi diversi in cui agire. Ne parliamo con Giorgina Pi, regista e attivista dell’Angelo Mai. Intervista
Tu hai un percorso molto preciso: hai una formazione femminista, sei un’attivista politica, ma sei anche una regista teatrale che collabora da alcuni anni con importanti istituzioni pubbliche: come si tiene tutto questo insieme?
Mi verrebbe da dire che tutto questo riesce ad avere un proprio equilibrio grazie all’Angelo Mai, che è un luogo reale ma anche simbolico, nel senso che è uno spazio frutto di lotte, vissuto da un collettivo, cosa che ti obbliga a fare delle riflessioni continue di carattere etico e politico. È la nostra unica sala prove e dunque il nostro (la compagnia Bluemotion) vero centro di produzione che rende quindi molto precisa la collaborazione con le istituzioni: nel senso che si parla sempre di co-produzioni, questo ha anche a che vedere con la scelta di rimanere nel nostro luogo con i nostri tempi e modalità di creazione. Il femminismo è un capitolo molto importante perché mi sembra che negli ultimi 15 anni sia cambiata molto la percezione del femminismo, lo dico con felicità, perché prima non era così diffuso definirsi femminista per una persona della mia generazione, (non era socialmente accettato); anche all’interno delle lotte politiche, nei centri sociali, la questione delle donne non era in primo piano. Per me il femminismo coincide con studi filosofici che dischiudono mondi: scoprire, ad esempio, che sono esistite anche le filosofe (che continuano a produrre pensiero) è già una base formativa molto importante. Ho avuto modo di studiare molto giovane a Parigi, alla Université Paris 8, dove c’è uno dei primi dipartimenti di studi di genere d’Europa, che non a caso era diretto da una teatrante, Hélène Cixous del Théâtre du Soleil. Mi aveva mandato lì la mia insegnante di Storia del Teatro Inglese di Roma, Paola Bono, grazie a una serie di contatti relativi agli studi femministi.
All’Angelo Mai avete fatto una scelta precisa: quella di aprire lo spazio per l’estate senza però ospitare eventi musicali o teatrali. Come siete arrivati a questa scelta?
Innanzitutto, nonostante siano passati numerosi anni, e l’Angelo Mai abbia avuto tanti riconoscimenti, è ancora un luogo illegale perché non abbiamo mai potuto perfezionare l’assegnazione dello spazio, questo significa non poter accedere ad alcun tipo di finanziamento con cui sostenere le attività nello spazio. Naturalmente questa situazione è molto diffusa su Roma, ma per noi è invalidante, soprattutto in un momento come questo del post Covid in cui, proprio per ragioni etiche e politiche, ci rifiutiamo di chiedere a qualcuno di offrire un concerto o uno spettacolo gratuitamente. Il nostro spazio è abitato principalmente da lavoratrici e lavoratori del nostro settore, una categoria che in questa peste a Tebe, non è stata trattata molto bene dallo Stato, si vedano i bonus da 600 euro in ritardo, i problemi con la naspi, la mancanza cronica di tutele… il nostro in questo momento è un ambiente totalmente dimenticato. Allora francamente non capiamo: se per le nostre vite non c’è una tutela neanche dopo uno stato emergenziale simile perché dobbiamo fare ancora una volta finta di niente pur di continuare? Ci sembra più importante in questo momento offrire un luogo, ad entrata gratuita, nel quale incontrarsi attraverso altre dinamiche, crediamo moltissimo nell’informalità, nel potere del passaparola, nel potere dell’incontro spontaneo. Incontrarsi diventa così una modalità di sostegno umano reciproco (e dopo quello che è successo ce n’è molto bisogno) e poi in questa informalità possono nascere nuove istanze che secondo me sono molto necessarie.
Proviamo a fare il punto politico della situazione, rispetto alle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori in vista anche della manifestazione del 27 giugno: per la prima volta sembra ci sia una compattezza interessante delle forze in campo…
Sì, purtroppo ancora inascoltata. Secondo me è interessante anche la composizione se la guardiamo da un punto di vista nazionale: è molto forte quello che sta succedendo a Napoli ed è importante che a fare da traino non siano sempre gli stessi luoghi e le stesse città; come d’altronde mi sembra interessante che stia entrando, in questi capitoli di nuove lotte, anche se con un linguaggio differente, l’esperienza del Campo Innocente che sta ponendo dei quesiti importanti in questa fase. Io non ho dubbi sulla validità di queste lotte, sento che c’è un potenziale. I dubbi emergono rispetto a una certa separazione: cioè, da una parte ci sono le lotte, dall’altra c’è il Governo e il ministero preposto e sarebbe importante che anche chi lavora nei Teatri Nazionali e nei Tric si schieri come lavoratore dello spettacolo, perché in ballo c’è il tema del lavoro che riguarda tutte e tutti; questo diventerebbe il motore di un vero cambiamento: fa strano sentire i teatri che si lamentano con noi artisti circa la difficoltà di lavorare in questo momento a causa delle restrizioni e delle misure imposte, e non condividere poi le lotte che si fanno nelle piazze. Se dobbiamo parlare di una lotta massiva devono partecipare tutti.
Anche perché in questo momento c’è un grande pericolo per tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori freelance, penso agli interpreti che non hanno mai seguito un percorso autoriale o di compagnia ma sono sempre riusciti a lavorare con i grandi teatri alternando magari con cinema e tv, per loro in questo momento è durissima.
Certo, noi siamo abituati al mondo del teatro indipendente, per sua natura ingiustamente sempre fragilissimo, invece ci sono persone che questo lavoro lo hanno sempre affrontato in una maniera diversa, muovendosi da scritturati e scritturate. Vogliamo pensare che questi lavoratori non abbiano diritti? C’è un vero disastro dietro a tutto questo e una miopia totale: il vero problema è che noi non esistiamo; non gliene frega niente a nessuno di considerare il nostro un lavoro.
Come intensificare lo scontro?
C’è bisogno di una certa radicalità, rispetto alle proprie posizioni; parliamo delle paghe ad esempio, adesso tutti piangono e quindi chiedono di lavorare per la metà del compenso e invece bisogna dire di no, perché altrimenti si crea un precedente che affama tutti gli altri.
Tornando sul lato artistico, mantenendo però questa consapevolezza politica, cosa vuol dire per te fare regia teatrale?
Per me fare regia significa innanzitutto avere la possibilità di trasformare immagini, pensieri, studi in qualcosa che diventa vero e fruibile agli altri attraverso lo sguardo e gli altri sensi; non solo attraverso un racconto verbale. Già questo mi sembra un grandissimo dono. Poi c’è un’altra questione che amo profondamente, ovvero la possibilità di lavorare in gruppo: riuscire a percepire che c’è un gruppo di persone che ti ascolta e ti dà fiducia, poi c’è lo studio condiviso; in ogni produzione dedichiamo molto tempo a periodi residenziali in cui studiamo, condividiamo letture, suggestioni musicali, vediamo film insieme. Vedere come le diverse intelligenze propongono declinazioni e colori di quello che hai pensato prima è qualcosa per me di magico, che è relativo proprio alla regia. Nonostante il rischio di verticalità, questa pratica ha una grande possibilità di apertura, di diramazione verso gli altri; è la potenza del lavoro di squadra, una continua moltiplicazione. E poi per me è centrale il senso di responsabilità, verso il gruppo, verso le emozioni, una questione delicatissima ma importante.
Questa ricerca di orizzontalità in un mestiere che anche tu definivi verticale, in effetti, si nota nei tuoi lavori, è evidente che le attrici e gli attori che lavorano con te hanno stretto un patto, hanno accettato una visione sentendosi parte di un gruppo.
Grazie. Prima mi chiedevi del femminismo, in qualche modo il femminismo parla anche di questo, di come rompere delle verticalità, delle forme gerarchiche per creare nuove modalità relazionali.
Hai lavorato sui testi di Caryl Churchill e Kate Tempest, entrambe donne e inglesi, di due generazioni lontanissime e portatrici di due approcci molto diversi: cosa cerchi nel loro teatro?
Di Caryl Churchill amo profondamente questo suo antinaturalismo che diventa una realtà molto crudele, i suoi testi dalla prima all’ultima riga sono scritti per gli attori e le attrici e questo si vede, si sente. Nel caso di Kate Tempest mi affascina il fatto che si tratta di una donna con una voce più giovane della mia, cresciuta in un contesto molto diverso dal mio, i sobborghi di Londra dopo tutto sono differenti da quelli di Roma; una ragazzina che scopre la sua omosessualità molto giovane, ora la sua transessualità diventa poesia, attraverso la spoken word poetry, attraverso l’amore per Sofocle, attraverso un discorso molto junghiano sugli archetipi. Tutto questo rappresentato da una ragazza trentenne con i capelli rossi, piccola di statura, mi affascina, perché sento che attraverso di lei c’è la possibilità di dare voce alla nostra generazione, ma soprattutto a quella successiva, che viene trattata male, spesso stigmatizzata come la generazione degli imbecilli che passano il tempo sui social; e invece forse abbiamo bisogno di ascoltarli. Questa concentrazione di contrasti – non a caso lei ha scelto il nome Kate Tempest – è per me di estremo fascino.
Ora su cosa stai lavorando?
Sto provando una riscrittura, Tiresia di Kate Tempest (debutto a Santarcangelo 2020 ndr.). È uno spettacolo che avevamo cominciato a provare prima del blocco causato dal Covid pensato per un attore solo, Gabriele Portoghese, e da svolgersi all’aperto e quindi ha trovato uno spazio facilitato in questo strano momento delle nostre vite.
Trovo che Gabriele Portoghese sia un attore molto efficace, ha una recitazione ricca…
Si, Gabriele è un attore straordinario con una grazia in scena rara. Un attore autore, nel suo lavoro emerge la sua sensibilità di interprete, intellettuale e musicista. Un incontro importante per me.
Siamo qui in residenza anche con gli indispensabili musicisti con cui creo da sempre, Valerio Vigliar e Cristiano De Fabritiis, perché stiamo facendo un lavoro molto preciso sulla musica, li sto facendo impazzire: dal Rebetiko a Wagner; il protagonista ha un dispositivo, due giradischi, come se fosse un dj. L’aedo raccontava a memoria e lui invece lo fa attraverso i dischi. Sono dei vinili impressi proprio da noi: ci siamo immersi nel lavoro da nove giorni e abbiamo registrato i rumori della natura, le voci nelle grotte.
Non voglio parlare di maestri con te, ma vorrei sapere quali sono i tuoi spettacoli seminali, quelli che ti hanno fatto innamorare da spettatrice
La prima volta che ho visto Judith Malina all’ex Snia Viscosa, poi Peter Brook, era Le costume visto a Parigi, al Bouffes du Nord; poi per me è stato fondamentale l’incontro con il Théâtre Du Soleil. Non ti nascondo che mi impressionò tantissimo un incontro con Luca Ronconi: avevo 17 anni, eravamo in Sala Squarzina, c’era un convegno su qualcosa che aveva a che fare con la letteratura, poi ho visto qualche minuto di prova rubata infilandomi in un palchetto, lo spettacolo era Sturm und Drang; sul palcoscenico c’era un prato, un distributore di benzina e mi sono detta: ma siamo impazziti? Cos’è questa cosa?
Andrea Pocosgnich