Teatrosofia #106 Simonide e la possibilità del teatro. «I generi poetici in cui si cimentò Simonide includevano le tragedie».
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO.
Protagora annoverava Simonide tra coloro che furono sofisti prima dell’avvento della sofistica e che intendeva ammaestrare con i suoi versi alla virtù. Una giustificazione della tesi protagorea può risiedere nel fatto che il personaggio iniziò la pratica di insegnare il proprio sapere su compenso. Una ragione più profonda può però essere che Simonide elaborò una concezione dell’arte che poteva essere riconosciuta come “sofistica”. È il caso dell’affascinante ma enigmatica definizione della poesia e della pittura che ci è riportata da Plutarco: «Al contrario Simonide definisce la pittura una “poesia silenziosa” e la poesia una “pittura parlante”».
La testimonianza di Plutarco potrebbe essere anche un’indiretta definizione del teatro. Sappiamo, infatti, che i generi poetici in cui si cimentò Simonide includevano le tragedie, di cui non è rimasto nessun frammento né esemplare completo. Stando a questo piccolo dettaglio, possiamo dedurre che il teatro sarebbe per il poeta-sofista una “pittura parlante”. Viceversa, la pittura potrebbe essere definita una “tragedia silenziosa”.
Come va tuttavia interpretata la comparazione di Simonide tra le due arti? Purtroppo, nessuno dei frammenti della produzione poetica simonidea offre un chiarimento decisivo. I resti delle poesie di Simonide ci mostrano che egli avesse una predilezione per i temi della pittura e del silenzio. Da un lato, infatti, il poeta dedicò molte sue opere alla descrizione di pitture e sculture. Ne è un esempio l’epigramma dedicato alle statue di bronzo in onore di Afrodite, che si dice vennero erette da Medea. Dall’altro, Simonide lodava il silenzio perché offre ricompense senza pericolo, ossia non fa esporre a rischi, ed è poi opportuno sia mantenuto da chi è stolto – di contro, però, chi è sapiente deve abbandonarlo per ammaestrare gli altri. Il poeta-sofista studiò poi il comportamento delle cicale che vivevano prossime alla città di Acanto, che si dice non friniscano. Questi testi al massimo ci mostrano che poesia/teatro, silenzio e pittura fossero tra loro sovrapponibili. Non spiegano invece in che senso le poesie e le tragedie siano opere pittoriche, o per converso perché dipinti e quadri siano composizioni poetiche mute.
Nemmeno il seguito della citazione di Plutarco (346F6-347A5) aiuta a illuminare la questione. Il filosofo non parla più della poesia o del teatro, ma paragona il discorso dello storico all’attività del pittore. Come la storia è una narrazione “plastica” di fatti già avvenuti che riguardano personaggi realmente esistiti e le loro passioni, così la pittura rappresenta questi stessi avvenimenti storici nel loro svolgimento. In modi diversi, lo storico e il pittore assolvono l’identico compito di raccontare il passato: l’uno con le parole, o con dipinti parlanti, l’altro con immagini, ossia con discorsi muti. Di nuovo, questo non aiuta a capire la definizione di Simonide. Mostra semmai un interessante capitolo della sua ricezione e quale fosse l’esegesi che ne dava Plutarco.
Persino la famosa analogia della pittura con la poesia che Orazio fa nell’Arte poetica (Ut pictura poesis) ci dice più come Simonide fosse interpretato, che non cosa il poeta pensasse effettivamente. I due generi sono accostati per difendere il principio che la buona opera poetica è riconosciuta dall’esperto. Come infatti le pitture fatte bene vengono viste più volte e non mostrano alcun difetto allo sguardo ravvicinato della persona competente, così la poesia perfetta la si legge volentieri spesso e non rivela difetti a chi la saggia attentamente. Due pregi che l’esperto deve riscontrare sono l’organicità e la composizione, che Orazio loda proprio all’inizio dell’Arte poetica. Non abbiamo però elementi per provare che anche l’accostamento di Simonide mirasse a dimostrare che poesia e pittura andassero valutate allo stesso modo. Potremmo stavolta trovarci invece davanti a una concezione poetica nuova di Orazio, che venne ispirata dall’ambigua definizione simonidea.
In assenza di fonti risolutive, è solo possibile formulare ipotesi sulla definizione di Simonide. Tre possibili ricostruzioni possono essere compiute a partire da altre due fonti sul poeta-sofista.
La prima trae avvio da un interessante pensiero trasmesso dal retore Elio Teone. Simonide consigliava di passare la vita a giocare e di non prendere nulla troppo sul serio. La massima consente un’interpretazione “giocosa” della somiglianza tra poesia/teatro e pittura. Questa – come ogni altra cosa – non va presa troppo sul serio. Occorre prendere l’accostamento senza pensare troppo, ossia lasciarsi ingannare da una suggestione. Tale interpretazione sembra trarre conferma da un’altra testimonianza su Simonide, secondo cui il poeta presentava appunto la poesia come un inganno, da cui chi è saggio si lascia avvincere volentieri.
Di tenore ben diverso è invece l’esegesi che si può ricavare da una fonte molto più tarda: il trattato Sulle opere dei demoni del filosofo bizantino Michele Psello. L’autore riferisce che Simonide pensasse che la parola fosse un’immagine della realtà, qualcosa che ne rivela la sua intima essenza. Sulla base di Psello, possiamo allora supporre che poesia/parola e pittura fossero assimilabili perché sono due lati diversi di una stessa attività immaginifico-sapienziale. Il pittore rivela che cos’è una cosa fornendole un’immagine plastica che non emette voce, mentre il poeta o l’artista di teatro dischiude questa stessa essenza con parole scelte che dipingono nell’aria l’essenza della realtà.
Una terza ipotesi è che Elio Teone e Michele Psello non dicano nulla di incompatibile. Poesia, teatro e pittura sono inganni giocosi che assolvono l’attività seria di rivelare cosa sono le cose. A prescindere dunque che lavori con le immagini o la voce, con le parole o le rappresentazioni, l’artista è colui che unisce gli opposti del gioco e della serietà in un’immagine sapiente. L’esegesi in questione avvicina moltissimo il pensiero di Simonide a quello di Gorgia, tanto che non si può allora escludere che questi abbia elaborato la sua teoria estetica approfondendo il suo predecessore.
Anche queste tre ipotesi non sono però risolutive. Non resta allora che ammettere l’impossibilità di capire quale fosse il pensiero estetico di Simonide e considerare la sua definizione come uno degli enigmi ben costruiti che ci sono arrivati dal passato.
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Simonide sembra essere stato il primo ad aver rivolto nei suoi versi un appello a dare un compenso e a scrivere una poesia su commissione (Anonimo, Scolio alla “Pace” di Aristofane, v. 695 = T74 Poltera; trad. mia)
Al contrario Simonide definisce la pittura “poesia silenziosa” e la poesia “pittura parlante”: difatti i pittori rappresentano le azioni in svolgimento mentre gli scrittori narrano e descrivono le medesime già svolte. Anche se i pittori si servono delle forme e dei colori, mentre gli scrittori descrivono gli stessi avvenimenti con parole ed espressioni, essi differiscono nella materia e nei modi di rappresentazione, eppure l’obiettivo per entrambi è il medesimo e fra gli storici il migliore è colui che, a partire dalla rappresentazione di passioni e personaggi, crea la sua narrazione come fosse un dipinto (Plutarco, Sulla gloria di Atene, passo 346F4-347A5 = T101a Poltera; trad. leggermente modificata)
[Simonide] figlio di Leoprepe. Un cittadino della città di Iulis sull’isola di Ceo: fu poeta lirico, successivo a Stesicoro (…). [Scrisse] tragedie e altre opere (Suda, Lessico, voce Simonide [n. 439] = T3a Poltera; trad. mia)
La cosa infatti ebbe una vastissima eco e Simonide compose un epigramma per le statue di bronzo collocate nel tempio di Afrodite che si dice sia stato innalzato da Medea secondo alcuni perché non amava più il marito, secondo altri perché la dea distogliesse Giasone dall’amore per Teti. Ecco il testo dell’epigramma: «Queste sono le donne che, ispirate dalla divinità, pregarono Cipride per la Grecia e per i valenti cittadini che presero parte alla battaglia. La divina Afrodite non volle abbandonare la cittadella dei Greci nelle mani degli arcieri persiani» (Plutarco, Sulla malignità di Erodoto, passo 871B3-12 = fr. 260 Poltera)
…la ricompensa priva di pericoli del silenzio, come dice uno di Ceo, un poeta (Elio Aristide, Orazione 3, § 97 = fr. 582 Poltera; trad. mia)
Ma al di là e a fianco di tutte queste considerazioni, bisogna avere presente e ricordare la massima di Simonide, che diceva di essersi pentito spesso di aver parlato, mai di aver taciuto, e rammentare che l’esercizio padroneggia ed è più forte di ogni altra cosa (Plutarco, Sulla loquacità, passo 514F5-515A3 = T103c Poltera)
Il poeta Simonide, caro Sosio Senecione, durante un simposio vedendo che un ospite straniero se ne stava in silenzio e non parlava con nessuno, gli disse: «Caro mio, se sei uno stupido, ti comporti da saggio, ma se sei saggio, ti comporti da stupido» (Plutarco, Questioni conviviali, libro III, passo 644E2-F3 = T103a Poltera)
L’aggettivo etnico [della città di Acanto] è “acantio”, da cui deriva il proverbio «cicala di Acanto» in riferimento agli individui silenziosi: infatti, le cicale del territorio stanno in silenzio, stando a Simonide (Stefano di Bisanzio, Etnica, voce “Acanto” = fr. 610 Poltera; trad. mia)
Se ad un pittore venisse talento di congiungere a una testa umana un collo equino, e a membra accozzate da cento parti inserir piume variopinte, facendo sì che una donna, bella in viso, terminasse sconciamente in un sozzo pesce, ammessi a contemplare il quadro, sapreste, amici miei, trattener le risa? Ebbene, o Pisoni, assai simile a questo dipinto sarà il libro, ove ricorrano, come incubi di un febbricitante, vane immagini, in modo che né il principio, né la fine si possano ricomporre in un sol tutto. «Ma i pittori e i poeti ebbero sempre plausibile licenza di ardire checchessia». Lo sappiamo: e tale privilegio noi chiediamo e concediamo vicendevolmente: non al punto però, che le bestie feroci vadano assieme alle miti, e i serpenti siano accoppiati agli uccelli, le agnelle alle tigri (Orazio, Arte poetica, vv. 1-13)
La poesia è come la pittura. Vi sono quadri, che ti colpiscono di più, se li osservi da vicino, e altri, se resti un po’ lontano; l’uno ama la penombra, l’altro, che non teme lo sguardo acuto di un esperto, vuol esser posto in piena luce; questo è piaciuto una sola volta, e questo piacerà, anche se riveduto dieci volte (Orazio, Arte poetica, vv. 361-365)
È dannoso il consiglio di Simonide di giocare durante le nostre vita e di non prendere niente troppo sul serio (Elio Teone, Esercizi di retorica p. 105.9-11 = fr. 646 Poltera)
Al riparo dalle insidie della poesia, in effetti, sono soltanto le persone totalmente stupide e ottuse. Per questo Simonide, a uno che gli aveva chiesto: «Come mai i Tessali sono i soli che non riesci a ingannare?», rispose: «Perché sono troppo rozzi per lasciarsi ingannare da me» (Plutarco, Sul modo di ascoltare i poeti, passo 15D12-15 = T92 Poltera)
Se infatti il discorso – come dice Simonide – è immagine delle cose, perché sia utile va tenuto su cose utili (Michele Psello, Sul lavoro dei demoni, cap. 1 = T102 Poltera)
[Si usa la raccolta più recente della testimonianza e dei frammenti di Simonide a cura di Orlando Pontera, Simonides lyricus. Testimonia und Fragmente, Basel, Schwabe, 2008. Si ricorre poi alle seguenti traduzioni: 1) Emanuele Lelli, Giuliano Pisani (a cura di), Plutarco: Tutti i Moralia, Bompiani, 2017; 2) Tito Colamarino (a cura di), Orazio: Le opere, Torino, UTET, 1957; 3) Pietro Pizzari (a cura di), Michele Psello: Le opere dei demoni, Palermo, Sellerio, 1989. Le altre fonti sono tradotte da me]