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Teatrosofia #105. Uomini-marionette e le Leggi di Platone

Teatrosofia #105 su i libri I e VII delle leggi di Platone, al cui interno è utilizzata l’immagine dell’uomo come marionetta

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il #105 approfondisce l’immagine platonica dell’uomo marionetta a partire dall’ultima opera incompiuta.

Illustrazione di Carlo Chiostri per il Pinocchio di Collodi

I dodici libri delle Leggi costituiscono l’ultimo dialogo di Platone, rimasto incompiuto e a cui segue l’Epinomide, o un’ «appendice alle leggi» scritta dal discepolo Filippo di Opunte per non lasciare il testo con un finale interrotto. L’opera rappresenta un dialogo di un anonimo Ateniese con gli interlocutori Megillo e Clinia che mira a trovare le norme migliori in assoluto: quelle che permettano di condurre i cittadini ai beni divini o primari dell’intelligenza e della virtù, da cui a loro volta derivano i beni umani o minori della salute, della bellezza, della forza e della ricchezza.

Le Leggi concludono però la carriera di Platone con quella che è forse l’immagine o il mito più perturbante del suo corpus. Il personaggio dell’Ateniese sostiene, infatti, nei libri I e VII, che gli esseri viventi – uomini e donne incluse – sono marionette o macchine prodigiose create dagli dèi per un qualche scopo a noi ignoto. Dalla prospettiva storica, l’immagine tradisce una sfiducia verso le capacità morali e conoscitive dell’essere umano. Se Platone nutriva ancora nei libri centrali della Repubblica la fede che almeno il filosofo potesse uscire dalla caverna [ne parlavamo in Teatrosofia #62], liberandosi dai ceppi che lo avvinghiano alla contemplazione delle ombre delle marionette che simboleggiano le realtà sensibili, nelle Leggi egli pensa invece che questa figura sia una marionetta. Da soggetto osservatore di un gioco vano che può aspirare alla salvezza e alla totale conoscenza, egli si trasforma in un trastullo in mano agli dèi.

L’immagine della marionetta è per il resto molto ambigua, perché cambia di significato a seconda della prospettiva da cui la si guarda. Quando osserva la divinità, l’Ateniese non riesce a decidersi se il giocattolo prodigioso che siamo noi abbia un qualche significato. Nel libro I delle Leggi, egli si limita a dichiarare che non sappiamo se l’insondabile mente degli dèi abbia costruito la marionetta per un qualche fine serio, oppure se sia per semplice divertimento. Questo dubbio si ripropone, peraltro, all’interno del più vasto corpus di Platone. Infatti, questi non esclude nel Cratilo che gli dèi possano amare lo scherzo senza finalità serie, mentre nel Timeo rappresenta un Demiurgo che costruisce l’essere umano e le altre specie viventi per assolvere lo scopo serio di rendere il nostro mondo quanto più bello/perfetto. Il problema è lasciato aperto, perché non si può affermare con totale sicurezza che l’uomo sia davvero importante nei piani della mente divina.

Lo scenario cambia se si passa, di contro, alla prospettiva umana. L’Ateniese manifesta infatti nel libro VII delle Leggi la tesi chiarissima che in noi esseri umani ci sia davvero poco di serio. Molto prima, nel libro IV della medesima opera, egli aveva poi considerato l’arte e la saggezza umana all’ultimo posto nella scala del dominio del reale, perché più forti di loro sono – nell’ordine – la divinità, il caso e l’occasione. Ciò significa che persino un principe dotato di tutte le virtù non potrà in alcun modo imporre un ordine al mondo, se non interverranno a suo favore gli dèi, la fortuna e alcune circostanze favorevoli. La marionetta che noi siamo può dunque essere al massimo ammirata per la sua origine divina o per la perizia con cui il sommo Demiurgo l’ha costruita, non importa se animato da serietà o svago. La nostra vita rimane per il resto un gioco disprezzabile, un balocco di dio e del caso.

Sulla base di questa antropologia negativa, la sola cosa seria diventa allora l’atto di giocare. Lo scopo di noi umani sarà scegliere i giochi che ci avvicinano di più agli dèi e ci allontanano dalla nostra insopprimibile pochezza. Quale tra questi è il migliore possibile? Per rispondere, occorre contestualizzare l’immagine della marionetta di Platone e capire quale scopo assolve nelle Leggi.

L’opera rappresenta un dialogo dell’anonimo Ateniese con gli interlocutori Megillo e Clinia che mira a trovare le leggi migliori in assoluto: quelle che permettano di condurre i cittadini ai beni divini o primari dell’intelligenza e della virtù, dai quali a loro volta deriveranno i beni umani o di minor pregio della salute, della bellezza, della forza e della ricchezza. Un elemento determinante che andrà a tal fine regolamentato riguarda l’educazione. Essa è definita in senso proprio come la capacità di orientare i piaceri, i dolori, le paure, le aspettative dei bambini verso la virtù e di allontanare queste pulsioni dal vizio. Ora, l’immagine della marionetta è introdotta proprio per spiegare che la divinità ha programmato questa complessa macchina affinché potesse essere indirizzata verso la disposizione virtuosa. Posto infatti che in questo giocattolo prodigioso vi sono corde di bronzo o di ferro che strattonano violentemente verso azioni vergognose e nefande, come i piaceri dissoluti o le paure irrazionali, bisogna anche riconoscere al suo interno la presenza della «corda d’oro» della ragione, che il legislatore – in qualità di saggio burattinaio – può tirare dolcemente alla virtù tramite leggi appropriate.

Il seguito della discussione dell’Ateniese con Megillo e Clinia porta l’esempio dell’ubriachezza. Il legislatore dovrà evitare che questa corda ferrea o bronzea spinga il bevitore verso la tracotanza e la follia. Egli la legherà invece alla corda d’oro della ragione, istituendo leggi che prescrivono ai giovani di ubriacarsi con moderazione in occasione delle feste in onore di Dioniso e di usare questi momenti di abbandono per temprare il proprio carattere. Se si abituano a non fare nulla di sconveniente in queste condizioni, o addirittura ad assecondare questo stato alterato per allenarsi ad essere sempre sinceri e per affrontare con baldanza/allegria alcune imprese difficili, allora il piacere dell’ebbrezza risulterà paradossalmente un filo che conduce l’uomo-marionetta alle virtù del coraggio e della temperanza.

Altri giochi sono poi accennati di nuovo nel libro VII delle Leggi. L’Ateniese fa ora l’esempio dei sacrifici, dei canti, delle danze in onore degli dèi, che ottengono un duplice scopo: quello divino di rendere la divinità propizia e quello mondano di allenarci alla guerra, che a sua volta rappresenta una sorta di propedeutica alla virtù del coraggio. Questo punto che può suonare sorprendente è in realtà la logica conseguenza di un lungo e dettagliato programma legislativo. Secondo l’Ateniese, ad esempio, la danza in onore dei Dioscuri e di Atena è un gioco che i governanti prescrivono per legge per insegnare sin da piccoli l’arte militare, abituarli a trarre piacere dalla virtù del coraggio in battaglia e a imitare i guerrieri che affrontano valorosamente le minacce della città. Una marionetta che supera in parte la sua pochezza è perciò quella che gioca al divertimento serio della virtù e si assimila, per quanto è possibile, alla perfezione morale e intellettuale della natura divina.

Se poi un gruppo di legislatori dovesse riuscire a fondare una città costituita dalle leggi che meglio conducono alla disposizione virtuosa, il risultato sarà quello che l’Ateniese espone in un linguaggio poetico e immaginifico sempre nel libro VII delle Leggi. Un apparato legale che imita la vita più nobile ed elevata che si trova negli dèi è paragonato alla tragedia più bella, o migliore, o più vicina alla verità. Le marionette che la compongono realizzano così il gioco della virtù che riluce in un mondo circondato dai giochi vani e sciocchi del vizio, del rancore, della violenza.

Nonostante questa apertura poetica, il Platone anziano autore delle Leggi non si fa illusioni. Se pure ci avvicinassimo alla vita migliore o vicina alla bellezza e alla verità, noi poveri uomini-marionette rimarremmo comunque i pupazzi di una tragedia. Si tratta di un’idea confermata peraltro dal Filebo e dal Cratilo, che accennano al carattere tragico irrimediabile della vita. La tragedia dell’esistenza è tale che persino la macchina più prodigiosa e che gioca la virtù al meglio delle sue possibilità resta una cosa da nulla, un trastullo utile a stupire dèi imbambolati, del tutto irraggiungibili.

Enrico Piergiacomi

—————————-

Di queste cose allora pensiamo così. Pensiamo che ciascuno di noi viventi sia una macchina meravigliosa fatta dalle mani di un dio, o per un suo svago o per una sua cura precisa; questo non lo sappiamo. Sappiamo invece che tutte le affezioni enumerate qui sopra stanno dentro di noi come fossero nervi od una specie di fili e ci trascinano e, poiché sono contrarie fra loro, ci inducono ad azioni contrarie; e qui sta la differenza fra la virtù e il vizio. Il discorso suggerisce a ciascuno di seguire necessariamente un solo genere di questi stimoli, seguirlo sempre senza mai abbandonarlo, e di resistere invece a tutti gli altri richiami: questa è la sacra guida d’oro del ragionamento e si chiama “legge comune dello stato”, mentre le altre sono dure e di ferro, ma la prima è dolce e delicata perché è d’oro; le altre sono simili ad ogni altra sorta di cose. Bisogna collaborare sempre con la guida preziosa della legge. E poiché il ragionamento, pur essendo cosa bella, è mite e non violento, il suo insegnamento ha bisogno di essere servito da collaboratori perché dentro di noi gli stimoli d’oro vincano gli altri. E cosi per noi macchine meravigliose vale ancora il mito della virtù, e in qualche modo capiremo di più cosi quello che vuol dire veramente essere superiore o inferiore a se stesso. E quanto allo stato e al cittadino, questo, se su questi stimoli ha conosciuto il discorso vero, deve vivere .coerentemente ad esso, e anche lo stato, cui sia stato rivelato da qualche essere divino o l’abbia ricevuto da chi l’ha conosciuto, una volta concretato nella legislazione, dovrà cosi stabilire le relazioni con se stesso e con gli altri stati. Cosi anche la virtù ed il vizio saranno più chiaramente distinti ed articolati per noi e, fattosi ciò più evidente, anche l’educazione e gli altri aspetti del costume risulteranno forse più chiari e pure il valore dei simposi (Leggi, libro I, passo 644d7-645c6)

ATENIESE: Io dico che noi dobbiamo occuparci di ciò che ha valore, tralasciare il resto; la divinità è per natura degna di ogni interesse, che sia anche fonte di beatitudine, ma l’uomo, l’abbiamo detto prima, non è che un giocattolo uscito dalle mani degli dèi e ciò che di lui vale di più è proprio questo, in realtà. E in modo a ciò conseguente ogni uomo e ogni donna devono anche vivere la loro vita, giocando cioè i giochi migliori, il contrario di quanto si intende oggi da parte loro.

CLINIA: Come?

ATENIESE: Ora si pensa che le occupazioni serie debbono essere in funzione dei divertimenti; ritengono infatti che le cose della guerra, essendo cose serie, debbono essere ben disposte in funzione della pace. Ma invece, per natura e in realtà, nella guerra non c’è divertimento, non c’è nulla che abbia valore educativo e sia degno del nostro discorso, noi lo dicevamo, non c’è e non ci sarà mai, e questo è invece ciò che noi diciamo degno del massimo interesse: bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace il più a lungo e il meglio possibile. E quale sarà allora per una vita il modo di essere corretta, secondo quanto s’è detto? Bisogna passare la propria vita divertendosi con qualche divertimento, coi sacrifici, i canti, le danze in modo da esser capaci di renderci cosi favorevoli gli dèi, respingere i nemici, e vincerli in battaglia. (…) Queste stesse cose riterranno nella loro mente anche i nostri allievi e penseranno che quanto si è detto è sufficiente e che quanto dovesse mancare riguardo ai sacrifici e alla “danza corale” sarà loro suggerito dal dèmone o dagli dèi, e cioè a quali dèi e quando essi dedicheranno le feste, ciascuna a ciascuno di essi, e quali renderanno propizi e quando, sì che potranno vivere tutta la vita in modo conforme alla loro natura, che è quella di chi è quasi del tutto una marionetta e di poco partecipa alla verità.

MEGILLO: Tu svaluti del tutto il genere dell’uomo, ospite.

ATENIESE: Non sorprenderti, Megillo, perdonami piuttosto. Ho parlato cosi tenendo gli occhi rivolti alla divinità e subendo questo confronto ho detto ciò che ora ho appena detto. Sia dunque il genere nostro d’uomini cosa non vile, se ti è caro pensare così, e degno di un qualche attento interesse (Leggi, libro VII, passo 803c2-804c1)

Ma il nome attribuito a questi due dèi fu dato sul serio e per scherzo: quello serio domandalo pure ad altri; ma nulla impedisce che si esamini quello scherzoso, perché anche gli dèi si dilettano dello scherzo (Cratilo 406b8-c3)

Rimangono ancora tre specie mortali che non sono state generate; e, se non nasceranno, il cielo resterà incompiuto, poiché non avrà in sé tutte le specie dei viventi; ma bisogna invece che le abbia, se deve essere compiuto come si conviene (Timeo, passo 41b7-c2)

ATENIESE: Volevo dire che mai nessuno degli uomini ordina qualche cosa con la legge, ma è sempre il caso e ogni sorta di circostanze che con il loro accadere dirigono la nostra vita in ogni aspetto e in ogni modo. E fu una guerra che sovverti di forza le costituzioni e mutò le leggi oppure fu la difficoltà di una dura miseria; e molte altre volte sono anche malattie che costringono ad innovare, e pestilenze che sopravvengono, e il susseguirsi per molto tempo, per molti anni, di stagioni cattive. E prevedendo tutto questo è facile che uno sia tratto a dire come io dicevo or ora, che nessun uomo mortale mai a nulla può dar ordine e legge e tutti, quasi, i fatti umani sono opera invece di una sorte cieca. E può essere che paia dir bene chi dice ugualmente della navigazione, del pilotaggio, della medicina e dell’arte militare, ma parimenti si può anche argomentare giustamente dicendo così su queste stesse cose.

CLINIA: Come?

ATENIESE: Che è dio che governa tutte le cose degli uomini e insieme a lui il caso e l’occasione favorevole. Attenuando un po’ si può concedere che a questi fattori debba seguire al terzo posto l’arte. Nel caso infatti di una tempesta io ritengo che aver l’aiuto dell’arte di un pilota sarebbe cosa molto superiore e vantaggiosa a non averlo. Non è così?

CLINIA: Così (Leggi, libro IV, passo 709a1-c4)

ATENIESE: Ebbene il nostro principe dovrà possedere questa naturale virtù oltre alle altre se deve lo stato avere, quanto più presto e bene è possibile, una costituzione tale che, una volta ottenutala, viva esso tutta la sua vita nel modo più felice. Una organizzazione infatti della costituzione più rapida e migliore di questa non c’è, né mai potrebbe venire ad esserci.

CLINIA Come, ospite, e con quale discorso enunciando queste cose si potrebbe essere persuasi che si dice correttamente?

ATENIESE: È facile capirlo, Clinia, che cioè cosi è secondo la natura delle cose.

CLINIA: Che dici? Che cioè se un principe fosse giovane, saggio e temperante, di intelligenza pronta ad apprendere e memoria buona, coraggioso, magnifico…

ATENIESE: …e fortunato, aggiungi, non per altro che perché nasca nella sua età un legislatore valente e una sorte felice lo guidi a lui per questo medesimo fine. Quando infatti ciò accade si può dire quasi che il dio ha fatto tutto ciò che opera quando vuole che uno stato sia fortunato al massimo grado. Se invece saranno due tali prìncipi è al secondo posto la situazione, e al terzo posto e più sfavorevole quindi in proporzione a quanti più sono. Al contrario saranno più facili le cose nella misura in cui saranno in meno a comandare (Leggi, libro IV, passo 710b4-5; trad. modificata)

ATENIESE: Mi par bene di non dover riferirmi nel mio discorso di ora a coloro che pensano, come sembra, l’educazione inerente a queste ultime cose; intendo invece l’educazione dei fanciulli alla virtù, che accende nel fanciullo il desiderio e l’amore di riuscire perfetto cittadino e di saper comandare con giustizia e obbedire alla giustizia. E una volta che questa è stata separata, questo nostro discorso, come a me sembra, vorrebbe ora dire “educazione” questa sola educazione, e l’altra, quella che mira al denaro o alla forza fisica o a qualche altra abilità senza intelletto e giustizia, è cosa volgare e servile e indegna assolutamente di chiamarsi “educazione”. Ma noi non dobbiamo disputare per nulla con quelli sul nome; piuttosto dovremo porre come base quanto abbiamo fra noi convenuto adesso: coloro che sono educati rettamente, quasi certamente diventeranno anche uomini retti e così non bisogna in nulla trascurare come cosa vile l’educazione, perché è la prima delle doti che hanno i migliori, e se qualche volta si perde e devia ed è possibile raddrizzarla ancora, bisogna ognuno ciò faccia sempre con ogni sforzo, in tutta la vita.

CLINIA: Sta bene, e siamo d’accordo con ciò che dici.

ATENIESE: Prima ancora abbiamo convenuto nel dire giusti e retti gli uomini capaci di comandare a se stessi, disonesti gli altri.

CLINIA: Sì, esattamente.

ATENIESE: Pertanto ridiciamo più chiaramente quello che intendevamo dire. E accettate quello che dirò, se mi riesce di chiarirvelo in qualche modo con una immagine.

CLINIA: Parlaci, noi ti ascoltiamo.

ATENIESE: Ciascuno di noi è uno; possiamo affermarlo?

CLINIA: Sì.

ATENIESE: Ed ha in sé due consiglieri contrari e istintivi che noi chiamiamo “piacere” e “dolore”.

CLINIA: È vero anche questo.

ATENIESE: Oltre a questi due, dopo di loro, ci sono le opinioni delle cose future che hanno in comune il nome di “attesa”, e secondo il nome proprio aspettare di soffrire è “paura”, aspettare di godere è “confidenza”: su tutte queste si esercita il ragionamento e decide quello che di loro è migliore o peggiore; quest’atto divenuto poi comune decisione di uno stato si dice “legge” (Leggi, libro I, passo 643e6-644d4)

ATENIESE: Cosi ha fatto del suo meglio questo discorso per assolvere il proposito posto al principio, dimostrare giustificato il nostro contributo al coro di Dioniso. Vediamo ora se in realtà sono state compiute le intenzioni. Una tale adunanza di necessità diviene sempre più turbolenta col procedere del bere che vi si fa, e ciò noi abbiamo dato come inevitabile fin dal principio del nostro discorso su questo argomento.

CLINIA: Necessario.

ATENIESE: Ognuno cosi si sente più leggero, e si solleva e si fa lieto, pieno di libertà nel parlare; e allora chiude le orecchie ai vicini e si stima ormai valida guida di sé e degli altri.

CLINIA: Così.

ATENIESE: E non abbiamo anche detto che in queste circostanze le anime dei bevitori, come un ferro messe al fuoco, si fanno più morbide e più giovani così che si offrono di facile guida a chi può e sa educarle e forgiarle, come quando erano appunto giovani? E questo forgiatore non è lo stesso che allora dicemmo, il buon legislatore, il quale deve dare le sue leggi sui simposi, tali che possano rendere quell’uomo fiducioso e temerario, che diviene più imprudente del giusto e insofferente di adattarsi a un ordine e a tacere e a parlare a suo turno e a bere e a cantare così, renderlo desideroso di fare tutto il contrario; leggi capaci di opporre, col freno della giustizia, a quella non bella temerità che sopravviene, la più bella paura che ci sia per combatterla, quel divino timore che abbiamo chiamato “pudore” e “vergogna”?

CLINIA: È vero.

ATENIESE: Custodi di queste leggi e loro collaboratori, dicevamo, saranno gli uomini alieni dai tumulti, i sobri saranno guida ai non sobri; senza di loro è più pericoloso combattere la ubriachezza che i nemici senza avere comandanti imperturbabili e coraggiosi. E chi non sa voler obbedire a questi uomini e alle guide di Dioniso, cittadini di oltre sessant’anni, avrà sopra di sé uguale e anche maggior onta di chi non obbedisce alle guide di Ares.

CLINIA: Giusto.

ATENIESE: Se dunque fosse questo il bere, questo il divertimento, non ne avrebbero un utile i bevitori siffatti e non si separerebbero dopo il simposio più amici di prima, non come ora, nemici, una volta che abbiano partecipato insieme a tutto il convegno secondo le norme prescritte e abbiano seguito i sobri quando dirigevano i non sobri?

CLINIA: Perfettamente, se fosse almeno così, come tu ora dici, la riunione.

ATENIESE: Non biasimiamo dunque così semplicemente anche questo dono di Dioniso, come cosa cattiva e indegna di essere accolta in uno stato (Leggi, libro II, passo 671a1-672a7)

Non si devono trascurare inoltre tutte le imitazioni che ci sono nella “danza corale” e che è conveniente realizzare, così la danza armata dei Cureti che è in uso qui e quella dei Dioscuri a Sparta. E anche da noi la vergine che ci è signora [scil. Atena], rallegrandosi del divertimento della danza, non ritenne di dovervi partecipare a mani vuote, ma, tutta coperta ed adorna della sua completa armatura, cosi volle compiere tutta la danza. Cosa questa che sarebbe conveniente imitassero in tutto i giovani e le ragazze, rendendo onore alla benignità della dea, per prepararsi alle necessità della guerra e per le feste. I bambini subito per tutto il tempo in cui non siano ancora giunti all’età di intervenire alla guerra, dovranno partecipare a determinate processioni e cortei a tutti gli dèi, sempre adornati con le armi e montati a cavallo, e rivolgere agli dèi e ai figli degli dèi le loro suppliche danzando e marciando, ora più veloci ora più lente. Così le gare e gli esercizi che le precedono devono avere, se mai, non altro scopo che questo quando vengono appunto messi in pratica sotto forma di esercizio. Questa è infatti una preparazione utile in pace e in guerra, allo stato ed alla famiglia; gli altri esercizi dedicati al corpo, siano giochi, siano cose serie, non sono degni di uomini liberi e civili, cari Megillo e Clinia (Leggi, libro VII, passo 795b3-796d5)

E infatti guardando ora ai discorsi esposti da noi fin qui dall’aurora di questo giorno – e mi pare che li abbiamo fatti non senza una qualche ispirazione divina – mi apparvero del tutto detti in modo simile a una qualche opera di poesia (Leggi, libro VII, passo 811c6-9)

Quanto ai nostri poeti “seri”, come si dice, quelli delle tragedie, se alcuni di questi venuti da noi ci interrogassero press’a poco così: «Ospiti, possiamo frequentare la vostra città e la vostra regione o no? Possiamo portarvi ed introdurvi le nostre opere o come avete deciso di fare per questa materia?», se ci interrogassero così che cosa mai dunque potremmo correttamente rispondere a questi uomini divini, a queste domande? A me infatti sembra che potremmo dir cosi: «Ospiti illustrissimi, noi stessi siamo poeti di una tragedia e, per quanto si possa, della migliore, della più bella; tutta la nostra costituzione è stata organizzata come imitazione della vita più nobile e più elevata e diciamo che questa è in realtà la tragedia più vicina alla natura della verità. Poeti siete voi, poeti siamo anche noi delle stesse cose, vostri rivali nell’arte e nella rappresentazione del dramma più bello che solo la vera legge, per natura, può realizzare, come è la nostra speranza ora. Non pensate che cosi facilmente vi permettiamo di piantare le vostre scene nelle nostre piazze e di introdurvi attori dalla bella voce, che grideranno più di noi, non pensate che vi permettiamo di arringare i giovani e le donne e tutta la turba del popolo, che vi lasciamo parlare sugli stessi costumi in modo diverso dal nostro, e che vi lasciamo dire in maggior numero, e per lo più, cose contrarie rispetto a quelle che diciamo noi» (Leggi, libro VII, passo 817a2-c7)

[L’invito a parlare del tema della marionetta è arrivato da Viviana Raciti, che ringrazio per lo stimolo. Le traduzioni usate sono le seguenti:

  • Attilio Zadro, Platone: Leggi, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Platone: Opere. Volume secondo, Roma-Bari, Laterza, 1974;
  • Francesco Fronterotta (a cura di), Platone: Timeo, Milano, Rizzoli, 2003;
  • Giuseppe Cambiano (a cura di), Platone: Cratilo, in Giuseppe Cambiano, Platone: Dialoghi filosofici. Vol. 1, Torino, UTET, 1970]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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