Una riflessione sul dibattito relativo alla crisi dello spettacolo dal vivo causata dalla quarantena e sulla risposta di artisti, teatri e osservatori.
I fenomeni sociali nella nostra epoca subiscono dei cambiamenti repentini, soprattutto quando sono agganciati al web e ai social network. Oggi più che mai, dopo quasi un mese di quarantena, quello spazio che una volta chiamavamo virtuale, è in effetti l’unico spazio possibile. Perciò è assolutamente nella norma che gli artisti teatrali abbiano trovato uno sbocco virtuale nutrito a base di dirette Facebook e Instagram, letture su Youtube, fiabe della buona notte, conversazioni con colleghi, ecc. Nei primi giorni del lockdown in molti si sono spaventati, si sono sentiti quasi aggrediti dal presenzialismo di tante proposte e, in effetti, quando l’utilizzo di un social network come Facebook si rivolge a una sola area di interesse, ci si può sentire al centro di una sorta di bombardamento che in questo caso andava di pari passo con l’amplificazione data dai media generalisti.
Ma ora, a settimane di distanza, davvero vogliamo ancora lamentarci del fatto che aprendo Facebook ci troviamo di fronte a un carosello di esseri umani che si mette in mostra? La piattaforma di Menlo Park è stato costruita per questo, dovremmo ricordarcelo. La pandemia ha semplicemente lavorato come un enzima di crescita del fenomeno radicandosi bene in quello spazio moralmente accettabile che lega la produzione seriale di contenuti casalinghi all’ipnotico hashtag #iorestoacasa. Tra gli artisti teatrali più efficaci nel confezionare pillole per il web ci sono solo quelli che già utilizzavano questo mezzo prima della diffusione del Coronavirus e quelli che hanno resistito perché all’inizio della quarantena sono stati in grado di inventare piccoli format che con il teatro non hanno niente in comune. Ma, oltre che sulla reazione dei singoli, bisogna poi riflettere sulle proposte delle strutture teatrali e qui il discorso si complica toccando altri risvolti, quali il marketing e l’audience engagement.
Un paio di giorni fa Andrea Porcheddu, giocando a far finta di essere un vecchio conservatore, su Gli Stati Generali ha pubblicato un articolo che, a partire dalla sua idiosincrasia per il teatro visto in video, rilanciava, a modo suo (ovvero con la formula incontrovertibile e dunque sempre vincente del teatro come agorà, del teatro come piazza…) uno sguardo sul futuro, ribadendo le difficoltà del settore e il deserto che ci aspetterà. Tutto vero, quanto d’altronde è vera la passione del collega, che quotidianamente, si impegna a scuotere le coscienze. Ma il tema ha bisogno di testa e non solo di pancia: «Continuo a domandarmi se sia necessario, urgente, tanto presenzialismo e indispensabile tanta produzione di contenuti di matrice teatrale per la rete», scrive il critico, ma che cosa si intende con quel “matrice teatrale”?
Ed è lo stesso autore, qualche riga prima, a riconoscere il valore documentale delle registrazioni teatrali in video, solo che poi non ne comprende il senso in questo momento: «Ma vissuti così, come scintillante continuazione “nonostante tutto”, mi appaiono manifestazioni di ostinata volontà, di accanimento creativo a senso unico, messo al pari delle lezioni di yoga o di tango, delle ricette o dei tutorial per giocare a carte, in quel calderone, in quell’enorme centro commerciale che è il web». Certo, qui viene intuita una questione, l’orizzontalità dettata dai social network nella distribuzione dei contenuti; ma anche questo era un problema, anzi, una caratteristica, di quei mezzi già prima della pandemia. Il sottotesto sembra essere ogni volta “smettete di perdere tempo cercando in intrattenerci con contributi di vario genere; alzatevi da quel divano e fate la rivoluzione” e infatti la riflessione di Porcheddu continua evidenziando ancora, dopo quasi un mese di clausura, che «abbiamo perso lo spazio pubblico. Abbiamo svuotato le piazze» e «Non possiamo crogiolarci in questi passatempi virtuali».
Forse pretendiamo un po’ troppo dagli artisti del mondo teatrale, soprattutto in questo momento. Certo parliamo di un settore che ha dimostrato un tasso di eterogeneità tale da incappare spesso in una evidente incapacità di far fronte comune, dunque ben venga lo sprone della coscienza politica; ma non vedo il nesso tra l’assenza di questa e il fenomeno della creazione dei contenuti per il web. Parliamoci chiaro: è urgente iniziare a chiedere risposte sulle fasi successive, sulle riaperture delle sale (ieri anche Elvira Frosini e Daniele Timpano pubblicavano un accorato appello/riflessione su Minima&Moralia), ma se alcuni teatri non dovessero riaprire, se a colpi di decreti il governo dovesse rendere difficile il prosieguo delle attività, se dopo questa pandemia compagnie, singoli e strutture falliranno non sarà certo colpa delle attività “in streaming”. Questo va chiarito, altrimenti rischiamo, come spesso accade, di cercare soluzioni facili e immediate a problemi molto più complessi e, cosa più grave, non ci diciamo la verità: la notte potrebbe essere molto più buia di quello che pensavamo, ma se, per affrontare il problema, ce la prendiamo con chi cerca, attraverso i canali del web, di mantenere un contatto con i propri spettatori, allora l’analisi è distorta in partenza.
Inoltre gli eventi sono mutati, rispetto a tre settimane fa, e ora i teatri stanno rispondendo alla questione in maniera diversa, perché, come ha già argomentato Viviana Raciti in questo articolo, il fenomeno della risposta del sistema alla crisi va osservato in maniera complessa e diversificata perché in tal modo è mutato. I Teatri Nazionali, i Tric e gli stabili privati stanno cercando di mantenere un’attività quotidiana. Innanzitutto perché, per quanto riguarda i teatri pubblici, quella è la loro vocazione ed è una vocazione che è lo Stato a sostenere con i soldi dei contribuenti e dunque impone un’assunzione di responsabilità. Inoltre, che alternativa avrebbero? Dovrebbero stare chiusi e battersi politicamente per il bene della categoria? Organizzare manifestazioni contro il diktat della clausura e chiedere a gran voce che i corpi debbano incontrarsi, che la comunità debba ritrovarsi fisicamente? Chi ha questo pensiero sa già di essere negli ambiti della retorica utopistica, almeno per ora. Sono ormai diversi anni che viene chiesto ai teatri di lavorare sugli spettatori, ora queste strutture hanno anche degli obblighi istituzionali con i propri territori e cercano di assolverli a distanza; l’altra opzione è l’oblio.
A mio avviso, se un dibattito relativo alle attività di “matrice teatrale” offerte in streaming ha ancora senso è quello in grado di entrare nel fenomeno sondandone gli aspetti peculiari. Già per questo andrebbe abolita la definizione, abusata, di “teatro in streaming”: incapace di fotografare una situazione mutevole e mutante, è un’immagine dispersiva e inefficace; per convenzione andrebbe usata solo nel caso in cui ci si riferisca alla video registrazione dello spettacolo trasmessa su eventuali canali web. Attività che, come si è già detto, di certo non ha quel valore comunitario fondamentale del teatro caratterizzato dalla compresenza, ma può avere un’importanza culturale e storica.
Allora forse potrebbe essere interessante affrontare la questione parlando di alcuni riflessi tecnici e involontari di questa sovrapproduzione di contenuti online. Ne evidenzio soprattutto due, il primo riguarda la possibilità di artisti e istituzioni teatrali di mantenere e tenere saldo il contatto con il proprio pubblico: qualche giorno fa una semplice conversazione tra il direttore del Teatro di Roma, Giorgio Barberio Corsetti, ed Emma Dante ha totalizzato più di 16mila visualizzazioni su Facebook. Non ci azzardiamo a paragonare la qualità di quell’incontro con l’equivalente dal vivo sul palco dell’Argentina; e sappiamo che Dante è la regista attualmente più amata in Italia (in maniera trasversale); ma è anche vero che quei numeri sono molto alti per la nicchia teatrale e aprirebbero ad altre importanti riflessioni. L’altro riguarda l’erosione, finalmente, di quel gap tecnologico che il sistema teatro non è in grado di colmare rispetto ad altri settori della vita artistica e produttiva del Paese.
Naturalmente le due questioni sono decisamente legate, la seconda è ormai più che rilevante per la prima, e in queste settimane i teatri, anche i lentissimi pachidermi pubblici, stanno sperimentando che cosa significhi usare i social network in maniera seria, quanto sia difficile ma importante curare le proprie pagine sui social media in modo professionale e innovativo. La crescita, in termini di follower (certo, poi quanti di questi saranno spettatori andrà verificato) per alcuni dei teatri che stanno alacremente lavorando su questo fronte è indubbia. Tra quelli pubblici le crescite maggiori, nell’ultima settimana, le ha registrate il Teatro Stabile del Veneto, seguito dal CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro di Roma, ma anche Ert, lo Stabile di Napoli e altre istituzioni, che da subito si sono prodigate per creare palinsesti online, vedono aumentare la base del pubblico social. Non è poco perché parliamo di un settore che solo negli ultimi anni ha iniziato ad avere dimestichezza con le questioni digitali, fino a poco tempo fa ancora si trovavano siti internet (anche di grandi teatri) rimasti, per grafica e usabilità, alla prima era del web, ora insomma qualcosa si sta attivando.
C’è poi un altro risvolto, la concorrenza: per la prima volta i teatri, in questo spazio di tempo progettato dal virus e dai decreti legge volti a contenerlo, sono in concorrenza tra di loro su un piano nazionale (e internazionale quando la lingua cessa di essere un problema). Uno spettatore può dunque usufruire di un evento artistico trasmesso sul canale web di un teatro altro rispetto a quello della sua città o regione. Bisogna trovare il punto di equilibrio, teatri e artisti devono avere coscienza di essere all’interno di un unico tempo, quello delle 24 ore della giornata di un possibile spettatore, il quale, tra l’altro, può destinare a questo tipo di attività solo una parte della giornata. Soprattutto, i responsabili di questi palinsesti digitali, dovranno avere l’intuito di creare contenuti che abbiano una specificità: i passi successivi potranno riguardare un intenso lavoro sugli archivi (molti teatri non possono pubblicare i video degli spettacoli storici e di successo per questioni di diritti, altre volte le registrazioni non vengono proprio prese in considerazione oppure vengono approntate per non essere divulgate) e la possibilità di legare il lavoro online a precise azioni sugli spettatori quando sarà tempo di riaprire i sipari. E tutto questo è possibile anche senza sotterrare il nostro spirito critico, senza dimenticarci delle battaglie politiche e senza dimenticarci di quei corpi che spesso invochiamo come simbolo biologico di resistenza..
Andrea Pocosgnich
Concordo con le posizioni di Andrea: la demonizzazione tout court del teatro in streaming è ingenua e a tratti classista. Classista perché esistono ormai due generazioni di artisti e pubblico cresciute dentro/contro i social media, e almeno una terza dentro il mondo online/virtuale. Per molti di noi la presentificazione online è stata una diretta continuazione dell’attività teatrale, non “intrattenimento gratuito” come ho letto in giro. Una presenza che non offre soluzioni o palliativi, non vuole sostituirsi a nulla: è pura “taumaturgia”, ovvero cura condivisa attraverso il dispositivo della scena. Ed è l’unica cosa che una compagnia priva di finanziamenti statali, priva di contratti di produzione, priva di reddito e prospettive, può fare per resistere all’emergenza, fare rete e immaginare un futuro diverso.
Nelle scorse settimane le bacheche si sono riempite di #iostoacasa e inviti ad “aspettare”, ora il clima è cambiato è c’è grande voglia di uscire e ripartire. Bisognerebbe ricordare che il mese scorso, chi come noi osava criticare l’illogicità delle misure restrittive (chiudono i teatri, poi i ristoranti, prima le scuole poi i centri anziani) e promuoveva attività online, era tacciato di irresponsabilità, protagonismo e – nel peggiori dei casi – gli veniva augurata la terapia intensiva e un vis-a-vis con l’esercito.
Concludo con il pensiero più importante: sono certo che il sistema teatro ripartirà. I teatri istituzionali ritroveranno il loro pubblico, le compagnie già avviate continueranno il loro percorso e le relazioni di potere rimarranno tali (almeno fino al prossimo cambio di governo). Per tutti gli altri/e saranno cazzi amari. Per chi fa teatro nei territori, si barcamena fra corsi e laboratori, organizza eventi dal basso e di comunità, subirà più di tutti le conseguenze della psicosi da “distanziamento sociale” creata e alimentata in questi mesi di lockdown. Inutile girarci attorno: questa “classe” di teatranti sarà ancor più penalizzata, mentre è molto probabile che verranno varati piani di finanziamento della cultura che aiuteranno a rialzarsi i teatri istituzionali.
Mi chiedo allora: se non ora, quando verrà il momento di invocare un cambio strutturale del sistema teatro?