Perché il ruolo del teatro nella televisione pubblica è stato così importante nei palinsesti Rai dagli anni ’50 alla fine dei ’70? Siamo partiti da una petizione nata in tempi di chiusura dei teatri, da qui lo spunto per riflettere su quella stagione così ricca e lontana.
In giorni in cui il tempo della scena sembra sospeso come e forse anche più del resto, in cui fare previsioni su modalità e prospettive diventa complesso, i teatranti e gli spettatori, più o meno professionali o professionisti, cercano modi se non per continuare ad alzare il sipario, quantomeno per non smettere di concepirlo, tra dirette social, conferenze streaming ed esperimenti performativi, a prescindere dagli esiti (i nostri approfondimenti sul tema). Disorientamento, vuoto, processo di rielaborazione, adattamento alle circostanze, necessità di attestazione, bisogno di preservare un contatto: tutto questo e il suo contrario probabilmente. D’altronde quando le domande si affastellano e le risposte si trovano a fatica le uniche vie percorribili sono procedere per tentativi o accettare un limbo silenzioso coi rischi che ne conseguono.
Prima che il Ministro Dario Franceschini lanciasse il tema del Netflix per la cultura era apparsa una petizione lanciata da Piero Maccarinelli e indirizzata al direttore generale della RAI Maurizio Salini, per conoscenza al Mibac e al Presidente della Repubblica Mattarella, oggi sostenuta da più di duemilaottocento firmatari tra cui Lina Sastri, Andrée Ruth Shammah, Pamela Villoresi, Ferzan Ozpetek. L’obiettivo è quello di rilanciare il teatro attraverso le registrazioni storiche e contemporanee da proporre nei canali Rai.
«[…] La RAI ha da sempre svolto una meritoria attività di documentazione del nostro lavoro. Sono state realizzate centinaia di riprese integrali dei nostri spettacoli a fronte di rimborsi simbolici – molto esigui – per le compagnie anche se con un notevole contributo di troupes professionali da parte della RAI. Questo prezioso patrimonio non è stato tuttavia diffuso adeguatamente. Crediamo che sia arrivata l’occasione per farlo. Si potrebbe offrire al pubblico una panoramica estremamente efficace del teatro contemporaneo. Conosciamo l’attività storica della RAI attraverso la riproposizione di serie come le commedie di Eduardo o i cicli Shakespeariani. Abbiamo bisogno dell’aiuto della RAI per far conoscere ad un vasto pubblico anche la produzione validissima più recente. […]». Qui la petizione completa.
Il dilemma sulle possibilità di restituzione in video dell’evenemenzialità performativa del fatto teatrale accompagna da tempo analisi e disquisizioni. Più corretto sarebbe affermare senza timori di smentita che sia dilemma superato nell’accettazione di una diversa postura emotiva e percettiva, utile però per tentare di fissare una delle pratiche umane più ataviche quantunque fra le più legate al qui ed ora. Studi, tentativi di sperimentazione e divulgazione hanno di fatto negli anni beneficiato non poco degli incontri tra video e teatro con specificità di germinazione, prodotti in tempi, a gradi e secondo livelli di permeabilità differenti, si sa.
Il rapporto tra la scena e il servizio pubblico in particolare è lungo tanto quanto la storia della televisione nel nostro paese: L’Osteria della Posta, un atto unico di Goldoni, è stato la prima trasmissione andata in onda la sera del 3 gennaio del 1954. Un periodo quello del Dopoguerra in cui il palcoscenico si offriva ancora come uno dei principali se non il più accreditato riferimento dell’arte performativa, ma pure camera di concrezione dialettica per nodi e temi del sentimento comune oltre che occasione e luogo sociale per quanti avessero le possibilità di concederselo. L’avvento del mezzo televisivo, vissuto inizialmente in un’ottica di ampliamento delle capacità di comunicazione su larga scala, si voleva fenomeno di avvicinamento, ponte possibile della divulgazione culturale, attraverso cui traghettare o su cui incontrare anche quelle fasce della popolazione escluse o non abituate alla frequentazione dei luoghi o alla riflessione sui lemmi della cultura. La riunione davanti al televisore, a fronte della presenza di solo uno o due canali di trasmissione (il terzo arriva nel 1979), andò a ridefinire un rito comunitario ove la restrizione spaziale in chiave domestica corrispondeva tuttavia ad una amplificazione della fruizione in grado di rendere conosciute, in alcuni casi quasi familiari, figure e opere altrimenti inaccessibili, consentendo agli artisti di potenziare la gittata di alcuni lavori. L’inizio di una stagione lunga, con il massimo della proliferazione sino a tutti gli anni Settanta, è quello che oggi alcuni definiscono il teleteatro italiano, termine soggetto ancora a interpretazioni.
Senza addentrarsi in una pedante specifica di carattere tecnicistico poco opportuna in questa sede, basterà anteporre un presupposto generale su come le diversità di compenetrazione tra video/televisione e teatro siano osservabili sia a livello meramente strumentale sia sul piano poetico-narrativo, a seconda dei tempi, delle opere e degli autori/attori. Tra semplici riprese a camera fissa, riprese in esterno nei teatri, allestimenti in studio e adattamenti veri e propri a tener conto delle possibilità analogiche e sintetiche del video già nella concezione, il rapporto di interazione e autorialità delle regie e, di conseguenza, la natura degli oggetti di osservazione, nonostante la comune matrice teatrale, può essere ed è stata estremamente varia, in base ai contesti, alla “messa a servizio” di un linguaggio nei confronti dell’altro, alle scelte di in-visibilità dei mezzi di un canale comunicativo rispetto all’altro. Le registrazioni (e alcuni esperimenti) da parte della RAI nei primi tre decenni dell’attività televisiva furono moltissime anche e soprattutto grazie all’imprinting dell’allora direttore della programmazione Sergio Pugliese (drammaturgo, operatore radiofonico, dismise l’incarico solo con la morte nel 1965).
Amleto interpretato e diretto da Vittorio Gassman (1955), Sei personaggi in cerca d’autore (1965) con Rossella Falk e Romolo Valli, Arlecchino servitore dei due padroni di Goldoni (1993) o Temporale di Strindberg (1982) per la regia di Giorgio Strehler, Orlando Furioso di Luca Ronconi (1975), le riprese di alcune messinscena di spettacoli di Dario Fo e Franca Rame alla Palazzina Liberty di Milano dopo gli anni di abiura (a seguito della vertenza per la censura in occasione della partecipazione dei due a Canzonissima nel 1962): sono solo alcuni dei nomi presenti nelle teche RAI per una miriade di volti e immagini che oggi cifrano la maggior parte delle memorie teatrali, in ogni caso, quali possibilità di sguardo e riflessione, fissazioni di attimi cui la maggior parte degli occhi della generazione, non solo di chi scrive, non avrebbe avuto altrimenti alcun’altra possibilità d’accesso. Quanto ancora resta di Carmelo Bene come ulteriore mezzo di decostruzione e riconsiderazione della “scrittura scenica”, prima dei suoi macchiettistici eppur brillantissimi “contro tutti” da Costanzo: Amleto (da Shakespeare a Laforgue) (1974), Bene! Quattro diversi modi di morire in versi (1974), Riccardo III (1977), Manfed (1979), Homelette for Hamlet (1987), Lorenzaccio (1986), le quindici ore di Otello o la deficienza della donna (1979), tutti trasmessi anni dopo la registrazione. E poi Eduardo, con le “rappresentazioni” in diretta negli anni Cinquanta, per passare al primo e al secondo ciclo del suo teatro nel 1962 e nel 1964 – quella Filumena Marturano con Regina Bianchi, lui finto cadavere sul letto del contrabbando in Napoli Milionaria, il caffè al balcone in Questi fantasmi!, la superstizione di Non ti pago, la scena della poesia di Ditegli sempre di sì… –, al ciclo scarpettiano a metà dei Settanta fino al terzo e quarto ciclo delle commedie tra il 1975 e 1981, in merito al quale basterà l’assunzione di Luca Cupiello, Lucariello, fra le figure fisse del Natale di mezza o di tutta Italia mentre sottolinea alla Concetta di Pupella Maggio che il suo caffè «puzza ‘e scarrafone».
Operazioni di raccolta che non si sono arrestate del tutto, trovando di recente sbocchi ove la direzione filmica funzionasse pure da camera critica di amplificazione del testo, attraverso il montaggio e la costruzione di sistemi di campo-controcampo: si pensi al Ferdinando di Annibale Ruccello con Isa Danieli per la regia di Giuseppe Bertolucci oppure alla Medea di Euripide con Mariangela Melato per la regia di Giancarlo Sepe. Un lavoro testimoniale niente affatto marginale che non ha più trovato spazi di primaria importanza come per il passato e la cui promulgazione è oggi parzialmente destinata a RaiPlay e alla settimana del palinsesto di Rai5, in alternanza con la lirica e la concertistica. Fa eccezione un tentativo di qualche anno fa, riproposto su Rai1 in prima serata un mese addietro, operato proprio sui tre forse più conosciuti testi di Eduardo (Filumena Marturano, Questi Fantasmi!, Napoli Milionaria) con Massimo Ranieri nel ruolo del protagonista. Sulla riuscita interpretativa molto ci sarebbe da dire, ragione per cui si ritiene di non poterlo e volerlo considerare un esempio bastevole, né per un sostegno seppur idealistico all’universo teatrale né per la verifica o un sondaggio di gradimento da parte del grande pubblico.
Tentare di proporre ancora, aprire ulteriori e diverse brecce di trasmissione o almeno consentire un definitivo e integrale accesso al materiale “archivistico” delle Teche, ipotizzando magari dei percorsi di avvicinamento per immaginare un ponte, oggi come ieri, potrebbe forse aiutare a ricordare che il sipario è calato, le porte dei teatri sono chiuse, ma il palcoscenico e la storia non sono vuoti, mai.
Marianna Masselli
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