Giusto la fine del mondo del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce nell’adattamento di Francesco Frangipane, andato in scena al Teatro Piccolo Eliseo. Recensione
In questi giorni straordinari avremmo bisogno di pensare la parola e di pesare il suo significato scegliendo quella a noi più prossima e senza che questa sia aggressiva verso l’altro che legge. Avremmo urgenza poi di riscoprire il tessuto emotivo di essa, quale storia ha da raccontarci; avremmo desiderio di sentire forte i sentimenti provati affinché questi possano sciogliere i loro nodi e apparire spiegati, senza ombre. Jean-Luc Lagarce avrebbe trovato versi pieni per poter comunicare ciò che ora ci appare incomunicabile, non l’avremmo compreso subito, certo, ma probabilmente saremmo arrivati a smuovere i nostri animi dall’apatia ottundente, dal rumore vuoto.
Giusto la fine del mondo, che arriva dopo, adesso. Scritto nel 1990 da uno degli autori più portati in scena in Francia, il testo è rappresentazione drammaturgica del non detto con estrema pertinenza di sentimentalismo nostalgico, a porsi, nel macro, come rappresentante di un’intera generazione e come autobiografia di Lagarce, nel micro. Malato di AIDS – morirà cinque anni dopo nel 1995 – il drammaturgo sceglie il protagonista Louis come suo alter ego per dire, forse, della sua malattia alla famiglia che non vede da anni, durante un pranzo domenicale.
Dopo l’adattamento ronconiano del 2010 e il film del regista Xavier Dolan (Grand prix della giuria a Cannes 2016), con la traduzione di Franco Quadri e prodotto da Argot Produzioni e Fondazione Teatro Metastasio di Prato, il regista Francesco Frangipane ha portato in scena Giusto la fine del mondo al Teatro Piccolo Eliseo poco prima che iniziasse il periodo di chiusura dei locali e della quarantena che stiamo oggi vivendo. Torniamo ora a quella casa ricostruita sul palco del teatro di via Nazionale, aperta sul salone, chiusa ai lati e circondata dal giardino. Lì sta una famiglia in attesa del ritorno del figlio: l’ansia da prestazione per la migliore accoglienza pervade i corpi che attraversano lo spazio dapprima convulsamente, poi in maniera composta, a celare tuttavia la trepidazione. Louis, non vorrebbe ma deve, è il figlio delle cartoline lui, quello dei brevi messaggi, funzionali a dire di esserci anche nella lontananza ma intenzionati a non ridurla. E ora che invece il distacco si farà definitivo, eccolo percorrere il giardino laterale alla casa, dare espressione tangibile dei grovigli emotivi che lo imbrogliano attraverso dei primi soliloqui coi quali Alessandro Tedeschi parlerà alla platea per comunicare con sé, in un a parte che è anche fuga in un tempo altro, altrove da quella domenica: «Mi amano come se fossi già morto».
In quel cosmo casalingo non allineato in cui i ricordi lieti del passato sono uniti al rancore del presente – per i quali è riconoscibile quella cifra cinematografica propria allo sguardo di Frangipane fatta di aderenze naturalistiche alla parola del testo e di una recitazione nuda nella sua emotività – stanno i pugni stretti della madre Martine – magnifica Anna Bonaiuto – a mostrare la loro chiusura nevrotica, a serrare la sigaretta sempre accesa, mentre il corpo è teso verso uno slancio che vorrebbe, ma fallisce, trasmettere accoglienza materna. Vincenzo De Michele è Antoine, il fratello che dietro l’aggressività nasconde però un bene autentico, il più puro quasi, irascibile però perfino contro la delicatezza di Barbara Ronchi, sua moglie Catherine e cognata di Louis, timida e impacciata, anche lei costretta a gestirsi in una famiglia, non familiare. Mentre l’autismo di Suzanne, la sorella minore secondo Angela Curri, irrompe all’inizio con infastidente assillo ma poi è sensibile e rivelatore, animo ingenuo in grado di carpire la verità incomunicata di Louis.
Il paradosso emotivo, che risiede nella scrittura di Lagarce e nella traduzione compita e fluida di Quadri, sta nel dire rifuggendo. Come se la comunicazione procedesse per ellissi emotive, propagazioni della pensosità della parola e, soltanto in alcuni momenti, della sua leggera gravità. Nello scandagliare le imprevedibili curve degli animi riuniti attorno alla tavola domenicale orfana di padre e vedova di un marito, si scopre ascoltando che ciò che viene taciuto verbalmente in realtà si esprime per tensione sentimentale, incarnata dagli interpreti per essere poi detta dai loro corpi, rivelata dai nervi e muscoli, dalle mani che tremano in grembo, dalla voce stridula, dagli occhi spalancati o socchiusi, dalle braccia conserte, dal passo tintinnante… Una scatola scenica, creata dallo scenografo Francesco Ghisu, che è al tempo stesso scatola sonora perché riempita dai suoni originali creati dal musicista Roberto Angelini, a tradurre, e amplificare, proprio le frequenze d’animo dei protagonisti.
È Giusto la fine del mondo, dice qualcuno. Anche no, dicono altri. Non avrebbe voluto che lo fosse neanche Lagarce/Louis, non la vorrebbero tante famiglie come quella di Martine, Antoine e Suzanne, non la vorrebbe neanche Catherine, che ha dovuto fare i conti con la non familiarità familiare. Lagarce scrive della fine una decina d’anni prima dei Duemila, quando si pensava che il mondo sarebbe imploso e che oltre alla morte singola, si sarebbe sperimentata quella collettiva. Ebbene, com’è sapere di morire quando gli altri continueranno a vivere, e com’è morire quando intorno si fa esperienza della morte? Ora avremmo bisogno della sensibilità di Lagarce, della sua incomunicata comunicazione, che riempie le parole di pensiero e le svuota della presunzione della risposta.
Lucia Medri
Teatro Piccolo Eliseo, Roma – marzo 2020
GIUSTO LA FINE DEL MONDO
Di Jean-Luc Lagarce
Traduzione Franco Quadri
Con
Anna Bonaiuto
Alessandro Tedeschi
Barbara Ronchi
Vincenzo De Michele
Angela Curri
Scene Francesco Ghisu
Costumi Cristian Spadoni
Musiche originali Roberto Angelini
Luci Giuseppe Filipponio
Regia Francesco Frangipane
Produzione ARGOT PRODUZIONI e FONDAZIONE TEATRO METASTASIO DI PRATO
in collaborazione con PIERFRANCESCO PISANI e AMAT