Mai un 25 Aprile ha vissuto una Liberazione costretta in casa. E non a caso la TV sceglie il teatro, per una celebrazione che torni al corpo. Con la Radio Clandestina di Ascanio Celestini
È notte, in Italia. In uno stesso ospedale una donna cadenza il respiro per non abbandonare al mondo l’ultimo; un’altra donna fa lo stesso per mettere al mondo il primo. Eccola, la notte prima di un anniversario presto ridotto – rosso stantio nel calendario – a una celebrazione. Doveva venire un’emergenza, una pandemia vestita da guerra, per rinnovare il 25 aprile. È notte, domani dai balconi e le finestre di tutta Italia si canterà il canto della Resistenza e caleranno tricolori avanzati dai Mondiali precedenti, con la scritta Campioni del Mondo che si vede in trasparenza, qualcuno avrà frugato l’ultimo baule per vedere dove si è cacciata, quella bandiera che una volta, si ricorda, di avere sventolato. Eppure in ogni braccio che uscirà dalle fessure, in ogni nota di una mai afflitta Bella Ciao, ognuno avrà capito in cuore suo che c’è qualcosa di cui si vuole liberare. E probabilmente pochi di loro sapranno pronunciare flashmob, o ne saprebbero dire il significato, pochi sapranno che questa azione delle 15 è un’idea dell’ANPI, pochi sapranno pure che significa, ANPI. Però in ognuno ormai è chiaro che qualcosa di fumoso, indefinito, scocca in ogni aprile, il 25: la Liberazione.
E il teatro, quando sarà sera, alle 21:15 sarà in televisione con il volto novecentesco di colui che eredita quel coraggio popolare, attraverso il tempo e le occasioni: Ascanio Celestini, che spesso ha raccolto per la strada briciole di parole consegnate alla storia, perché fossero la memoria del ritorno, per tutte le altre, storie, da raccontare. Radio Clandestina, vent’anni dopo la sua prima nel 2000, tratto dalla storia orale raccolta da Alessandro Portelli nel libro capitale L’ordine è già stato eseguito, è un manifesto di Resistenza tra i più potenti che il teatro abbia prodotto in questa epoca; racconta in una formula ondeggiante, con un continuo ricorso al flashback, i fatti che dall’attentato ormai famoso dei GAP a Via Rasella a Roma, il 23 marzo 1944, conducono fino all’eccidio delle Fosse Ardeatine, appena il giorno successivo, come rappresaglia retroattiva di un’azione partigiana. Ed è un peccato che sia visto alla TV, perché sarà difficile scovare le ombre a intermittenza della lampadina povera sopra il volto di Celestini, raschiare la propria emozione del momento nella solitudine di una sedioletta vuota, dondolare al movimento delle sue mani che scrivono nel semibuio, come fosse lui, sul podio, direttore e le parole orchestra; ma nello stesso tempo, in un anniversario simbolico come questo, in cui la memoria dei corpi perde definizione e si misura l’oppressione languida di un nemico interno e invisibile, è di vitale importanza che la TV generalista, che una volta fu di Stato, faccia ricorso alle risorse più carnali che possiede: il teatro, tra le arti quella che opera la più profonda rivendicazione del corpo biologico, dunque storico, politico.
Ma non è tutto, perché un particolare sfugge ed è lampante: ci vorrà ancora più di un anno, dai fatti del racconto di Celestini, prima che l’occupazione nazifascista sia combattuta e Roma liberata; l’omaggio è dunque, in apparenza, fuori fuoco, sembra un errore storico anche grossolano. Eppure forse, invece, è ciò che esprime ancora meglio come la storia dell’Italia liberata abbia radici che prendono linfa in tante piccole storie del paese, sono radici corte da strada a strada di ogni città in guerra, sono radici lunghe che affondano nel tronco delle lotte risorgimentali. Fare l’Italia fu una lotta lunga non priva di scelte difficili, rischiose, suicide. Non è memoria se ricorda solo in parte, non è memoria se difende solo una parte. Perché la libertà è la fine di una schiavitù collettiva, come disse Arrigo Boldrini, comandante partigiano: “per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro”.
È giorno, ora. Il sole è alto e senza nubi. Tutto è sospeso in un silenzio, come fosse tregua. La donna in ospedale non è ancora morta, chissà, forse si salva; la bambina non è ancora nata, ma è questione di poco. Eppure il sole batte su una pensilina dove un uomo ed una donna sono appena giunti, qua sotto casa mia. Hanno tutti e due la mascherina protettiva, ma pure un fiore tra le mani, lo aggiungono agli altri fiori già portati, da altre mani, alla memoria di chi è stato partigiano. Chissà che avranno scritto sopra il documento da esibire: “Io sottoscritto dichiaro che lo spostamento è dovuto a comprovate esigenze partigiane, di assoluta urgenza e necessità, così da ricordare tutti i giorni cosa voglia dire prendere parte, decidere quale abitare come propria, difendere con il mio corpo i corpi altrui, con la mia forza chi non ha difese, con il mio gesto chi non ha più mani, con la mia scelta di negarmi libertà, la libertà di chi non ha più scelta”.
Adesso è giorno fatto. E questo articolo chiudeva ben prima di sentire i canti per la libertà in giro per il quartiere che, a Roma, con le targhe agli angoli dei partigiani di qui, è diventato simbolo di quella Resistenza, ben prima di scendere e vedere decine di persone a fare festa in piazza, convinti di portarsi in cuore ideali che stanno tradendo, ben prima di piombare nella mia solitudine incazzata e triste: rivoluzionario, partigiano, oggi è chi rispetta le regole civili, si priva della libertà per una libertà più grande. Ma non ci penso, giuro, non ci penso: la donna è salva, la bambina è nata. E il resto no, non mi interessa.
Simone Nebbia