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Verrebbe voglia di smetterla con le paure

Recensione di Get your shit together, di Luca Carboni e Gabriel Da Costa. Prodotto da Ert, visto al Teatro delle Passioni di Modena.

Foto Federico Malvaldi

L’immobilità è oggi un paradosso che ci parla del nostro corpo. Ed il corpo, è materia politica. Nel flusso inarrestabile di dati e di merci, il corpo resta prevalentemente fermo, anche quando attraversa continenti, perché è, immobile, traslato da un altro mezzo. Immaginare per credere: i corpi allineati in batteria sulle cyclette di una qualunque palestra, che s’affannano restando fermi. Non sono corpi che destano preoccupazione, come spesso fanno invece i corpi in movimento: i corpi dei migranti che premono in questi giorni alla frontiera greca, che è frontiera dell’Europa. L’immobilità fisica e psichica, l’immobilità come potenzialità politica è oggetto dell’indagine di Luca Carboni e Gabriel Da Costa che, sul palco del Teatro delle Passioni di Modena, tentano la filogenesi di un corpo immobile a partire da un’immagine: un personaggio sconosciuto è fermo in una stazione di servizio, una pompa di benzina in mano.  Get your shit together. Esercizi di approssimazione per umani è osmosi di sentimenti, di parole e gesti fra i due attori, registi e videomaker, e quel personaggio da costruire. Sam il suo nome, semplice e diretto come quell’invettiva nel titolo, che richiama l’infinito immaginario di film e serie TV americane.  È positiva o no, l’immobilità di Sam? È simile a quella, perentoria e rivoluzionaria, del manifestante di Piazza Tienanmen, o dei già dimenticati giorni di Occupy Wall Street a Zuccotti Park (era il vicino e lontano 2011)? O è quella nevrosi che nasce dalla paura e ci impedisce di compiere delle scelte? Carboni e Da Costa portano avanti entrambe le ipotesi, da attori, drammaturghi e videomaker, con l’ausilio di materiale video che ce le riporta alla memoria. 

Foto Federico Malvaldi

Per osservare chi è fermo, i due si sono messi in viaggio per un anno, a partire da febbraio 2019, come raccontano rivolgendosi direttamente al pubblico. La ragione dell’immobilità è da cercarsi in quegli umani verso cui è necessario compiere un’approssimazione, cioè un farsi prossimi. La prima parte dello spettacolo offre una selezione di incontri dall’archivio video di quel viaggio. Si parla appunto di paure, di quando la vita è in stallo. Un giovane medico che condivide la tensione sperimentata anni prima, mentre leggeva la lista degli ammessi al corso di studi; un’architetta che condivide il fallimento professionale e la necessità di andare a lavorare all’estero; il proprietario di un distributore di carburante, i suoi studi interrotti anni fa per emigrare a nord e cercare lavoro. Il girato non denuncia ricercatezze formali, l’estetica è quella amatoriale che pervade i nostri smartphone, né traspare un metodo d’indagine, nessuna griglia di domande. Le storie raccontate non sono eccezionali, tanto da risultare anonime e, per questo, condivise. La stessa idea di immobilità sfuma, si finisce per parlare di altro, “del nulla, dello sbaglio e del fallimento”. Di tutto e di niente, dunque, tematiche che “dovrebbero essere proibite a teatro”, come confessa Carboni in un’excusatio non petita a inizio spettacolo. L’oggetto della ricerca è sfocato, forse l’oggetto della ricerca è proprio la sfocatura, la perdita di un obiettivo che fonde i margini delle cose, che diventano inesatte, approssimate. Carboni e Da Costa cominciano a commentare le proiezioni video con presenza scenica discreta, un tono intimo e colloquiale, come se si volessero limitare a essere divulgatori fuori ruolo di questa ricerca non scientifica. Ripetono alcune parole o certi gesti delle interviste, ne ampliano l’eco nella memoria dello spettatore, come accennando a un mantra che però subito si perde. 

Sembra che l’immobilità sia proprio questo: una debolezza del reale che si riproduce in queste vite comuni, drammi già scritti. Forse in tale condizione è impossibile trovare dei personaggi, per questo Get your shit together presenta proprio questa ricerca. Ma Luca e Gabriel sono anche personaggi di se stessi. Personaggi che cercano di osservarsi attraverso lo sguardo degli altri, degli amici intervistati e del pubblico, come nelle loro precedenti esperienze performative, sorta di archivio autobiografico in parte consultabile sul loro sito, dove si legge: 

“Noi siamo in due, ma nella creazione formiamo un solo binomio: un unico individuo che è espressione di una parte coerente di ciascuno di noi. Queste parti, affrontandosi l’una con l’altra divengono un’unica entità creativa, un eteronimo di natura complessa che ha certamente bisogno di essere chiamato con il suo nome proprio; al momento, però, le parti non hanno ancora raggiunto un accordo sul nome”.

Siamo nel trend dell’autonarrazione, che è sempre anche autofinzione. Il plot converge infatti in una vicenda particolarmente dolorosa della relazione, artistica e sentimentale, fra i due protagonisti. È un perno narrativo, una confessione. Si avverte un climax nella scrittura, come la necessità di condividere un peso col pubblico, di liberarsi attraverso la scena: siamo osservatori di una catarsi al contrario. In questo nodo si chiude la struttura della prima parte dello spettacolo, in cui le vite intervistate fanno da controcanto, partitura allogena e parallela al viaggio introspettivo della coppia: fra desiderio di paternità, le difficoltà lavorative nel mondo del teatro, le piccole ossessioni come quella di Luca che, terrorizzato, controlla compulsivamente le manopole del gas prima di uscire. 

Foto Federico Malvaldi

Carboni e Da Costa usano tutti gli strumenti di questa scena multimediale per uscire da sé e osservarsi nella loro immobilità. Il viaggio è per sua natura occasione per la conoscenza di sé, ma è anche un possibile labirinto: facile perdersi. Get your shit together non è infatti un diario di viaggio, la geografia visualizzata non è quella di un tracciato continuo, ma un segnale intermittente, come un archivio di apparizioni digitali fra Bruxelles, la California, Modena. Un labirinto, appunto. Il meccanismo del racconto, che si traduce in montaggio, è profondamente segnato dalla modalità tecnologica (con la conseguente estetica) di archiviare le memorie di viaggio: paratassi, sovrapposizione, mancanza di gerarchia.  È dunque un computer che può chiederci conto delle nostre identità e delle nostre immobilità, come accade nell’intermezzo fra la prima e l’ultima parte dello spettacolo. Un robot ci invita a compilare una lista di rimpianti su un foglietto consegnatoci in busta chiusa all’ingresso in sala (con tanto di matita stile IKEA ma griffata ′Get your shit together’). In questa chiamata in causa del pubblico, Carboni e Da Costa predispongono un cambio di ritmo: siamo pronti per dare corpo a Sam, alla sua microstoria che è un mash-up di tutte quelle raccolte in viaggio, di quella di Luca e Gabriel, ed infine anche delle nostre.

È tuttavia proprio nell’accumulo di microdrammaturgie che l’indagine perde consistenza. Se, da un lato, dissolvenza e sovrapposizione di segni possono considerarsi vizi e virtù di forma in questa estetica della debolezza, la forma-spettacolo imporrebbe una sintassi narrativa più ordinata per consentire allo spettatore di allineare il suo sentire al tempo della drammaturgia. Il continuo overlapping di linguaggi, dalla forma documentario al controcanto autobiografico, dall’interazione col robot a l’invenzione di un personaggio, determinano un movimento dell’attenzione tale da offuscare il tema stesso della ricerca: l’immobilità. Si ha l’impressione di assistere alla riduzione di diversi capitoli performativi che dovrebbero invece respirare in luoghi e tempi a parte, per essere poi ricollezionati dallo spettatore, magari in formato digitale, secondo un procedere che è peraltro frequente nei lavori di Carboni e Da Costa. Così accorpate, le parti dello spettacolo finiscono per contestarsi: il carattere aperto della ricerca on the road, per esempio, finisce per sembrare strumentale all’invenzione drammaturgica, e non viceversa. Ma non è una fatica da poco quella con cui i due si sono misurati: difficile tenere insieme così tanti piani narrativi senza perdere coerenza, soprattutto se l’umano oggetto di questo sguardo è esso stesso intrappolato nella sua paura, privato della propria coerenza interiore. Non riusciamo, insomma, ad andare lontani da quello che sta succedendo là fuori, e qui dentro di noi. 

Andrea Zangari

Modena, Teatro delle Passioni, Febbraio 2020

GET YOUT SHIT TOGETHER. ESERCIZI DI APPROSSIMAZIONE PER UMANI
soggetto, drammaturgia, video Luca Carboni e Gabriel Da Costa
collaborazione artistica Tatjana Pessoa – Filippo Renda
suono Aurelien Van Trimpont
luci Eleonora Diana
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Théâtre National de Bretagne  – Rennes, Collectif Novae – Bruxelles

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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