Film, unico contributo di Samuel Beckett al cinema, è un cortometraggio del 1964, regia di Alan Schnider, con interprete principale Buster Keaton. Fu presentato per la prima volta nel 1965 alla Mostra del Cinema di Venezia, dove fu premiato con diploma di merito.
Un film che si intitola Film. Un titolo che contiene il genere di riferimento, così come lo fanno Play-Commedia e i vari Atto senza parole. Samuel Beckett ricorre spesso all’espediente di rendere esplicita la tecnica utilizzata e, con questo, l’intenzione artistica dell’opera. Risalta, così, l’importanza drammatica e semantica degli stessi mezzi e linguaggi utilizzati dall’autore. Del linguaggio scelto Beckett sonda sempre la resistenza, ne verifica sempre i limiti: quello della parola teatrale in opere come Not I (la parola rifiutata dalla seconda avanguardia teatrale, dal teatro-immagine, dal teatro-corpo), così come quelli dello specifico cinematografico, ritornando, in maniera inattesa e inaudita, al cinema muto proprio in un periodo successivo alla “Golden Age” cinematografica. Un cinema che forse, più che muto, andrebbe definito “silenzioso”, “non-sonoro”, dato che è muto deliberatamente e nulla ha a che fare con quel cinema del primo Novecento che, del resto, era ricco di musica e didascalie, mentre qui l’unico suono che udiamo è lo “Shhh!” della signora con il cappello, evidenziando l’importanza di mantenere quel silenzio surreale, ridondante. Film è uno studio sull’occhio della telecamera come occhio privo di coscienza, sulla pellicola come inanimato percipiente. La sceneggiatura di Beckett si compone sulla coppia di personaggi Og, l’oggetto percepito – i personaggi – e Oc, l’occhio che percepisce, la telecamera e in generale gli sguardi da cui il protagonista tenta disperatamente di scappare. Il loro rapporto è declinato innanzi tutto in senso geometrico, secondo una serie di schemi che calcolano la posizione di Oc e Og, e l’entità del loro percepirsi, in base all’angolo che li separa.
A sottolineare ulteriormente l’ambito della ricerca troviamo Buster Keaton, “Faccia di pietra”, il volto impassibile e paradossale della comicità anni ’20, mostrato qui sempre di spalle, fino alla scena finale del riconoscimento e dell’auto percezione – quella che Esslin, Adorno, Fischer e Boehlich all’unanimità identificano con la morte; l’auto-percepirsi della coscienza come definitiva deriva dell’esistenza. Qualunque attore avrebbe potuto impersonare quel ruolo, eppure Beckett sceglie un Keaton anziano, rugoso, pur sempre impassibile, icona del vagabondo, del mimo, del clown – tanto ricorrente nella poetica dell’autore irlandese. Chi sa, forse Keaton è lì per ricordarci, nel momento più tragico del mediometraggio, al di là del profondo discorso filosofico – l'”esse est percipi” che Beckett pone a epigrafe della sceneggiatura – che ad esso soggiace, il carattere parodico, quasi giocoso, che sempre stinge l’opera beckettiana.
Nota bibliografica:
la riflessione è sviluppata a partire alla lettura di Alan Schneider, On Directing Samuel Beckett’s Film, ubuweb.it
e di Essere ottimisti è da criminali: dibattito televisivo su Samuel Beckett tra Theodor W. Adorno, Walter Boehlich, Martin Esslin, Hans-Geert Falkenberg ed Ernst Fischer, da Il nulla positivo. Gli scritti su Beckett, Theodor W. Adorno, a cura di Gabriele Frasca, L’orma Editore, 2019
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