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Herlitzka e Enrico IV, orchestratori superbi e implacabili

Roberto Herlitzka è Enrico IV di Pirandello. Lo spettacolo diretto da Antonio Calenda è andato in scena al Teatro Basilica in prima assoluta. Recensione

Foto Ufficio Stampa

Ci sono certi attori in grado di generare un’inevitabile attrazione – sia pure minima, sarà sempre innegabile – anche da immobili, zitti, anche se lanciano lo sguardo oltre chi lo guarda, pure se il corpo reca i segni della vita, stanco e irrigidito, non più agile. Mentre ci lasciamo irretire ancora una volta da quell’incanto che è tecnica e genetica, impegno e imprevisto, finiamo per preferire il gesto più piccolo e infimo; ancora più che la tirata del grande mattatore, il delirio acuto e lucidissimo che è ancora in grado di sostenere, ancora più dell’improvviso scatto di giovinezza, il lancio millimetrico di un oggetto, ricorderemo poco più che un respiro, l’intervallo brevissimo tra due ritmi diversi, tra la risata e lo scherno, tra il dolore e la rabbia, imprimendo nella memoria esattamente come tutto avevamo visto e immaginato, come se quella forza implorasse ancora di essere guardata, pure in procinto di esaurirsi.

Roberto Herlitzka in scena (o meglio, sarebbe stato in scena, se non ci fosse stato il coronavirus a troncare prematuramente questa, come qualsiasi altra, tournée) è una di queste figure, catalizzatore superbo e implacabile. Guai all’attore che gli stia vicino, incauto. E al regista che non gli lasci il campo, lo spazio, per farlo brillare; e, con lui, tutto il resto. Tanto sembra il potere di un uomo? Sicuramente tanto sembrava nella mente dell’Enrico IV pirandelliano, mostruosità geniale che aveva fatto di un personaggio la sua persona, di una simulazione la sua e soprattutto l’altrui realtà. L’antefatto narrato è quello di un gioco di ruoli durante una cavalcata, eccoli lì a fingere di essere re tra gli intrighi, a sovrapporre relazioni reali con quelle immaginate; una caduta, e quella finzione cessa di essere tale, e diventa per qualcuno una possibilità. La follia e dopo di essa la sua maschera, la macchinazione che si dice vera prima e poi si scopre falsata, perché da quella realtà il presunto re si dice guarito, rimasto ugualmente a giocare al teatro per carpire le mosse del mondo esterno.

Foto Ufficio Stampa

E che dice quel mondo esterno, che prendeva piede al Teatro Basilica, nella regia di Antonio Calenda? Provava a raccontare all’inizio di un’altra scatola teatrale, una bozza di teatro che mette in scena altro teatro, ma se ne dimentica subito, dimentica quello strappo di stoffa quasi fosse lo strappo di una realtà e dimentica gli abiti odierni, subito abbandonati, più mostrati per vezzo che per cavalcare un coté metateatrale che pure apparterrebbe al testo. Si torna candidamente alle premesse, ai giochi offerti dal drammaturgo, ai recitativi nell’artificio tra il sospirato e il sostenuto, e così si va avanti; adagiato, forse un po’ troppo, tant’è che basta appena un momento di buio improvviso, una feritoia e due occhi che scrutano. Ecco la rottura, pure se minima, sempre innegabile; quell’attrazione che spezza il fin troppo noto. Entra il maestro, orchestratore della finzione nella verità – la storia di questo Enrico – e della verità – scenica, di Roberto – nella finzione del palco. Cambia sempre ritmo, il suo parlare è poco più che un sussurro, ma siamo tutti irretiti; si muove con la grazia trattenuta di chi oramai non può fare a meno del bastone (che imparasse, chi lo tiene come orpello, a capirne peso e funzione, a non farne scomodo ingombro tra le mani, disturbo per chi vi recita e per chi lo guarda), manovra se stesso con quella sapienza attoriale che forse ora ha bisogno di pochissimo per esprimere, e quel poco basta, perché i nostri sguardi siano orientati. Schiaccia con una parola e sorride leggero. Forse, allora, la scelta di non lasciare altro in grado di produrre pensiero, è la rinuncia e il dono (o la strategia) più grande; in quelle mura di mattoni, spazio al grande attore, alla storia che si porta addosso, in grado, fosse anche da solo, di rendere vero ciò che non esiste.

Viviana Raciti

ENRICO IV
regia Antonio Calenda
con Roberto Herlitzka
E con: Daniela Giovannetti, Armando De Ceccon, Sergio Mancinelli, Giorgia Battistoni,
Lorenzo Guadalupi, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo
Regista assistente: Alessandro Di Murro
Scene e costumi: Laura Giannisi
Luci: Matteo Ziglio
Produzione: Gruppo della creta
Organizzazione: Bruna Sdao
Direttore di produzione: Pino Le Pera

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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