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Fate silenzio sul presente. In risposta a Lucia Calamaro

Su Doppiozero è apparso uno scritto di Lucia Calamaro che si scaglia contro coloro che vorranno scrivere prendendo spunto dalla tragedia in atto. Una riflessione.

Forse davvero non c’è niente di peggio, in questi giorni difficili, delle parole ammonitrici, degli sguardi poliziotteschi, della mancanza di fiducia totale verso il prossimo che stiamo sperimentando nelle piazze virtuali dei social network e della rete in generale. Questa volta non si può fuggire, la nostra vita è diventata, più o meno di colpo, digitale: certo si può e si deve staccare, si sceglie un film, si legge un libro, ma le relazioni sociali, che negli anni abbiamo creato, in questo momento esistono nei luoghi virtuali che maggiormente frequentiamo, vivono all’interno delle piccole e grandi comunità e spesso il nostro umore è direttamente collegato a ciò che guardiamo e leggiamo sui monitor e display dei nostri dispositivi, perché per molti di noi la quarantena forzata coincide con la solitudine.

Dobbiamo sopravvivere, quotidianamente, con un mondo che si sta sbriciolando sotto i nostri piedi, con un panorama, quello artistico e teatrale, che probabilmente non tornerà alla normalità – la (a)normalità italiana del sistema teatrale italiano è tutto un altro discorso – prima di mesi o anni; di certo non vogliamo vivere nell’illusione del sorriso a tutti i costi, dell’inno gridato dai balconi, ma neanche sprofondare nel giochino del cinismo accusatorio. È triste però quando a cadere in tentazione è un’artista riconosciuta, amata e ormai celebrata sui più importanti palcoscenici italiani ed europei. Lucia Calamaro, con l’irresponsabilità di chi goffamente vuole essere ironica come un personaggio dei suoi testi, dimentica del proprio ruolo – o forse proprio in virtù del piedistallo che quel ruolo le conferisce e che le permette in punta di penna di utilizzare la forma del poemetto invece che l’articolazione approfondita in prosa –, punta il dito con arroganza moraleggiante contro tutti coloro che si azzarderanno a ragionare su questi giorni attraverso la scrittura, peggio ancora, se lo faranno attraverso la scrittura teatrale trovando anche chi finanzi l’allestimento. Per carità!, urla la moralizzatrice, sono solo sciacalli impenitenti e incapaci.

È un peccato, perché l’acume di questa scrittrice lo conosciamo; e proprio lei, che ha saputo trovare le parole per rappresentare il vuoto che abbiamo dentro, ora che quel vuoto si ingrandisce smisuratamente prendendo le forme della tragedia, cade nel tranello ipocrita: accusa chiunque scriverà di questi giorni facendo così lo stesso errore, ovvero non sottraendosi al commento proprio di quel “presente” dal quale vorrebbe fuggire.

Si potrebbe obiettare che il testo apparso nelle colonne di Doppiozero – privo di ogni accompagnamento che spieghi una coerente e chiara operazione editoriale – sia un’ironica invettiva contro i tanti tartufi della poesia, contro gli sciacalli della prima ora: ma allora non aggiunge niente di nuovo a qualcosa che già sapevamo. Certo che qualcuno se ne approfitterà, certo che grandi e piccole produzioni sprecheranno soldi su brutte storie ambientate durante gli infausti giorni del Coronavirus, ma questo non deve impedire a chiunque di poggiare le dita sulla tastiera e tentare di utilizzare i mezzi propri della scrittura e del teatro per mettere in crisi quello che stiamo vivendo, per anestetizzarlo, per metterlo a fuoco; con tutta la fallibilità che è propria dell’essere umano.

Nella prima parte troviamo l’accenno a una interessante riflessione sul presente e sull’impossibilità che l’arte abbia di inquadrarlo; riflessione però che, se non argomentata, rischia di spazzare via d’un sol colpo esempi di narrativa e cinema creati all’indomani delle due guerre. Secondo Calamaro, allora, Primo Levi non avrebbe dovuto neanche tentare di scrivere Se questo è un uomo?  Ma gli esempi potrebbero essere numerosi anche rifiutando la narrazione dell’accostamento con le guerre. Stiamo vivendo qualcosa che non ci è mai accaduto e dovremmo avere pazienza per ogni tipo di elaborazione, una pazienza critica certo, ma aperta alle possibilità. Nella penultima strofa del poemetto l’ammonimento di Calamaro è totalizzante e mosso da parole violente:

E chiunque dia un mezzo premio,
un mezzo sospetto di aiuto alla creazione,
una mezza pagnottella col salame
a uno/una che scriva o peggio, molto peggio,
metta in scena una cosa su questo fatto che ci accade
suggerisco venga defenestrato.

Non basta il finale nel quale l’artista cerca di recuperare con l’ironia, che ormai lo abbiamo capito, non può davvero essere il parafulmine di qualsiasi comportamento – tantomeno quando si parla di un comportamento sanzionatorio dell’intimità artistica di qualcun altro:

Può sembrare radicale, ma non lo è
È giusto.
Una finestra, in questi casi, può molto.
E chi può
Deve aiutare.
Un po’ radicale, lo ammetto
Deve essere che sono 10 giorni che nessuno mi citofona.

Allora forse vale la pena ricordare che nella storia dell’arte e del teatro lo zelo normativista non ha mai portato a un granché se non alla cristallizzazione di pratiche, al mancato rinnovamento dei linguaggi e alla ghettizzazione di voci poco allineate. Ne sappiamo qualcosa noi italiani quando, in quel grande laboratorio scenografico e di pensiero che era il Rinascimento, fummo in grado, anche a causa delle imposizioni religiose, di normare la creazione scenica distinguendo cioè che era teatro e ciò che non lo era; riuscimmo a chiudere dentro recinti di regole ferree (convincendoci che così avrebbe fatto Aristotele) le possibilità plurime della scrittura teatrale e con la stessa arroganza puntammo il dito contro gli spettacoli sconci e troppo rozzi dei Comici dell’Arte. Intanto, a migliaia di chilometri da quelle regole, nasceva William Shakespeare.

Andrea Pocosgnich

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

3 COMMENTS

  1. Perfettamente d’accordo Andrea…su tutta la linea…e aggiungerei che dai canovacci di Commedia dell’Arte quel certo Shakespeare pesca a più riprese….quando il teatro si imbeve di una presunta superiorità morale e intellettuale si allontana dalla sua funzione originaria e primigenia, quella di parlare al cuore degli spettatori. La cosa che fa più male è che un artista che ormai gode di un certo prestigio si arroghi il diritto di pontificare su cosa si possa o non si possa scrivere, come se ci fosse un giusto e uno sbagliato in qualcosa come la creazione artistica, che per definizione deve rifuggire da simili categorizzazioni. E’ uno dei grandi limiti del nostro teatro, affrontare raramente il tempo presente…lei lo ha fatto nei suoi testi e la cosa è degna di ammirazione, altri lo faranno nei loro, lo spero….scrivendo di ciò e di cosa vogliono. Sarà poi altro a decretarne la sensatezza e l’opportunità, non di certo un’avversione aprioristica basata su convinzioni personali del singolo. Che si parli di noi non credo sia un male…basta farlo con intelligenza. E comunque provarci non è un delitto….la prima dei sei personaggi al teatro valle venne fischiata dal pubblico…ma questo non ne diminuisce la portata. Io credo che dovremmo preoccuparci di tornare a coinvolgere il cuore degli spettatori, lasciando da parte discussioni sterili da salotto borghese.

  2. Per completezza, aggiungo che Lucia Calamaro, per quanto mi riguarda, è una “BRAVISSIMA DRAMMATURGA”…davvero brava, a me piace tantissimo, ma quell’articolo così come è scritto mi trova assolutamente in disaccordo…poi magari il senso era altro…evitare il proliferare di testi che cercano facilmente mercato? Ci può stare…ma sarebbe come a chiedere di smettere di scrivere spettacoli su Dante come su qualsiasi altro autore o personaggio o evento storico in prossimità di commemorazioni e giorni a loro dedicati…cosa che viene fatta da molti ed è normale che sia così.. La qualità di un lavoro non dipende mai esclusivamente da cosa tratti, ma da come lo tratti e da cosa hai da dire…Pinter ha scritto un testo pazzesco basato su un Calapranzi…la differenza sta in cosa riesci a cogliere dietro il velo delle cose…dalle più stupide alle più drammatiche. Ovvio che è il mio punto di vista.

  3. Buonasera,
    mi permetto di fare qualche appunto:

    1) “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica”. Conoscerà meglio di me la severa sentenza di Adorno. La poesia, come appunto “affermazione creatrice”, nel nostro mondo, sì, successivo alle atrocità del secolo scorso, è forse defunta. E per poesia non s’intende, come crede, scrivere dei libri. I libri continuano a essere scritti e le opere rappresentate perché esiste un’industria culturale, case editrici e produttori, e dei consumatori. Tutta la produzione novecentesca, durante e successivamente le guerre da lei citate, si confronta con questo fatto, non lo elude, come invece siamo portati a fare sempre più frequentemente noi. Scambiare i sopracitati prodotti con la poesia è un abbaglio. Calamaro credo si riferisca a questo, chiede di arrestare il proliferare di pornografia emotiva, come piaceva chiamarla a un simpatico autore.
    2) Quando sostiene “certo che qualcuno se ne approfitterà, certo che grandi e piccole produzioni sprecheranno soldi su brutte storie ambientate durante gli infausti giorni del Coronavirus”, sta spacciando come congenito e inarginabile lo spreco di denaro, spesso pubblico, in pseudocultura. Come dire, certo che gli spacciatori ci sono e ammazzano giovani in difficoltà ma questo non ci deve fermare, questo non può impedirci di continuare a bere i nostri salubri caffè in romantici salotti! Invece, delle volte, sarebbe proprio il caso di fermarsi a pensare quale sia il nostro ruolo, a chi comunichiamo, perché lo facciamo.
    3) Ancora: “di certo non vogliamo vivere nell’illusione del sorriso a tutti i costi, dell’inno gridato dai balconi”. L’inno gridato dai balconi è un simulacro della defunta coesione sociale e a questo simulacro s’aggrappano i nostri concittadini. E’ anche su questo che potremmo concentrarci, analizzare, capire, rispettare, e non relegare a mediocre espressione del popolino, perché ciò che si produce nel basso si riproduce anche nell’alto e viceversa. Poi, anche qui, parlare di alto e basso è ridicolo ma è la sterile divisione sottesa al suo commento, che lei lo voglia o meno.
    4) Infatti, quando accusa Calamaro di essere “dimentica del proprio ruolo – o forse proprio in virtù del piedistallo che quel ruolo le conferisce”, cosa intende? Nel senso, il piedistallo di cui parla, sopra chi si erge? Quali cariche, quale megafono impugna l’autrice come autrice? Chi leggerà questo vostro scambio di opinioni? Una piccola comunità tribale di appassionati/lavoratori dello spettacolo.
    Ergersi a paladini del sapere critico, romantici alfieri della cultura, educatori illuminati sulla complessità del presente, invitando a descrivere e criticare gli eventi che stiamo vivendo, mi sembra un po’ inopportuno, frutto di un già diagnosticato delirio narcisistico. La risonanza che il teatro ha nella nostra società odierna, e ancor più nel nostro paese, è niente più che una flebile eco. Rendersi conto di questo, problematizzarlo, indagare la nostra inutilità, mi sembra l’unica e prioritaria via percorribile. Nascondersi, accettare l’umile e sottratto agli sguardi nostro lavoro quotidiano è l’unico modo che abbiamo per resistere a un brutto periodo, senza millantare doti da poeti vate che, rega’, non se ne vede l’ombra. Ovviamente, queste affermazioni, senza considerare i numerosi talenti che a fatica sopravvivono nell’ambiente saturo e compromesso che è il teatro nel nostro paese. E, se a loro dobbiamo per forza dare un consiglio, come tanti autori della storia ci hanno insegnato, diffidate l’attualismo.

    Infine, trovo scambi del genere – che stanno bene sulle “colonne” di questi giornali poiché sono frequentati solo dalla sopracitata tribù, tanto quanto una bacheca facebook di qualunque individuo – possano consentire dimenticanze di “ruolo” e forme di espressione intimistiche. Ma, se criticate, è giusto sviscerare le questioni il più possibile, cercare di descrivere il quadro che abitiamo, nella sua complessità e con tutto il nostro sforzo.

    Parafrasando uno slogan che sta girando in questi giorni:
    niente tornerà alla normalità, perché è quella normalità a essere sbagliata.

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