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Teatrosofia #103. Filosseno di Citera: conflitti drammatici tra arte e potere

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il #103 presenta la figura del poeta ditirambico Filosseno di Citera in conflitto con il Tiranno Dionisio I di Siracusa tra arte ed eros.

Galatea delle sfere. Salvador Dalì, 1952. Teatro Museo di Figueres

Si racconta che il tiranno Dionisio I di Siracusa fu insieme uomo di potere e cattivo poeta. Stando alla testimonianza di Diodoro Siculo, egli cominciò a scrivere tragedie e altri componimenti poetici dopo aver sconfitto i Cartaginesi nel 386-385 a.C., con una foga e un entusiasmo che lo condussero gradualmente alla pazzia. Pare infatti che Dionisio divenne folle, dopo che la messa in scena di un suo spettacolo tragico venne derisa dal pubblico e dall’oratore Lisia, tanto da arrivare a sospettare che questo disprezzo fosse sintomo di invidia od ostilità e ad uccidere tutti coloro che supponeva complottassero contro di lui. Leggenda vuole, inoltre, che il suo amore per la poesia fu anche ciò che lo condusse alla morte. Un oracolo aveva profetizzato che Dionisio sarebbe morto il giorno in cui avesse sbaragliato i «migliori» di lui e, credendo che esso si riferisse ai Cartaginesi, il tiranno tentò di evitare il suo fato facendosi spesso sconfiggere dagli avversari e impedendo così che la sua vittoria diventasse completa. Quando però Dionisio vinse con una sua tragedia alle Lenee di Atene, egli bevve per la gioia una smodata quantità di vino che lo portò alla malattia e poi alla morte. L’oracolo aveva insomma profetizzato che il tiranno sarebbe morto il giorno in cui avesse vinto in questo agone tragico i poeti che erano «migliori» per esperienza e talento.

Dionisio si circondò tuttavia a “corte” anche di poeti e filosofi. Tra gli aderenti al suo circolo, vi fu Filosseno di Citera, poeta di ditirambi che alla fine entrò in conflitto con il tiranno. Le fonti identificano due cause dell’ostilità. Quella più attestata è il giudizio negativo che Filosseno diede a una tragedia di Dionisio. Non sono però chiari i dettagli di questo racconto. Gli aneddoti raccontano ora che Filosseno derise o parlò male di una tragedia che Dionisio aveva letto in pubblico, ora che il primo coprì il testo di segni dall’inizio alla fine, quando il secondo gli chiese di indicargli dove la propria opera aveva bisogno di correzioni e miglioramenti. Isolata è invece la testimonianza di Ateneo di Naucrati che trova la causa dell’ostilità in un conflitto d’amore. Filosseno avrebbe infatti tentato di sedurre la suonatrice di flauto Galatea che Dionisio amava molto. Entro questo intricato caos di testimonianze, l’unico dato su cui le fonti concordano è che il poeta venne esiliato dal tiranno nelle latomie: cave di roccia calcarea di Sicilia, in cui erano di fatto esiliati a morte i nemici della tirannide. Durante la prigionia, Filosseno avrebbe infine composto il suo capolavoro, ossia il ditirambo Ciclope. Sempre secondo Ateneo, il poeta raccontò in quest’opera la sua traumatica esperienza in forma poetica, nascondendo nel personaggio del ciclope Polifemo il tiranno Dionisio, nella ninfa Galatea l’omonima suonatrice di flauto  e in Ulisse se stesso.

Filosseno non sarebbe però rimasto a lungo nelle latomie. Su intercessione di alcuni suoi amici, Dionisio lo fece richiamare a corte dall’esilio e recitò in un altro simposio i propri versi. Il poeta non ascoltò fino alla fine e fece per andarsene. Quando Dionisio gli chiese dove andasse, Filosseno rispose «Nelle latomie!», suggerendo che avrebbe preferito lasciarsi morire esule, piuttosto che dichiarare belle delle opere che sapeva essere mediocri. Stavolta la reazione del tiranno fu il sorriso e la decisione di abbandonare ogni ostilità. A sua volta, Filosseno fu convinto dai suoi amici ad assumere maggiore cautela. Promise che si sarebbe da qui in poi pronunciato in modo che le sue parole dicessero la verità e, al contempo, adulassero la vanità di Dionisio. Un ultimo aneddoto dà prova di questa strategia comunicativa. Un giorno in cui Dionisiò recitò di nuovo dei versi e chiese a Filosseno di esprimere un giudizio, questi rispose «pietosi», giocando sull’ambiguità del termine che può significare tanto “che ispirano pietà”, quanto “degni di pietà”.

Giudicare l’affidabilità storica del racconto di questo conflitto non è facile. Si possono tuttavia di seguito fare almeno quattro considerazioni.

In merito alle cause dell’esilio, non si può escludere che tutte le fonti dicano il vero. Filosseno può essere stato esiliato per aver sia giudicato male i versi tragici di Dionisio, sia per aver tentato di sedurre la suonatrice Galatea. Il conflitto tra i due oscilla dunque tra arte ed eros.

Non si ha invece modo di verificare l’affidabilità della notizia di Ateneo, secondo cui Filosseno avrebbe volute alludere alla sua sventura con i personaggi del Ciclope. Alcune fonti sembrano però andare in senso contrario. Da un lato, in una lunga parafrasi di parte del contenuto del Ciclope, Sinesio riferisce che Ulisse non sedusse Galatea e cercò di scappare dalla grotta in cui Polifemo l’aveva recluso, provando a convincerlo che, appena uscito, avrebbe fatto un incantesimo per far innamorare perdutamente la ninfa del mostro. Dall’altro lato, il ciclope protagonista del racconto poteva essere un personaggio almeno in parte positivo, cosa che invece non sarebbe accaduto se questi fosse stato un alter ego del vanesio Dionisio. Altre fonti riferiscono che Polifemo calmava la sua passione d’amore con alcuni versi in lode di Galatea e che venne perciò trasformato in poeta su ispirazione di eros, che è un concetto che Filosseno mostra a sua volta di abbracciare, quando in un frammento di una sua opera perduta scrive di voler lodare amore con un inno. Il vero intento del Ciclope va dunque lasciato come uno dei molti enigmi irrisolti del pensiero antico.

Una terza considerazione può essere fatta sulla risposta «pietosi» che Filosseno rivolse ai versi di Dionisio. Essa attesta che sia il poeta che il tiranno condividevano l’idea che uno degli scopi della tragedia fosse quello di scatenare la pietà negli spettatori. Sia pur in piccolo, lo scherzoso aneddoto conferma così la seria prospettiva – che sarà approfondita, ad esempio, nella Poetica di Aristotele – che l’esperienza tragica abbia un legame decisivo con questa passione.

Ma la quarta e forse rilevante considerazione che si può proporre è la seguente. Filosseno e Dionisio possono essere interpretati come figurazioni, rispettivamente, dell’arte che aspira al potere e del potere che aspira all’arte. Il poeta cerca infatti il potente per avere risorse e agio per creare poesia, ma al tempo stesso il potente coltiva rapporti con il poeta e con la sua arte per accrescere il proprio prestigio. Questa mutua attrazione apre poi al rischio del conflitto e solleva una domanda etica: fino a che punto l’arte deve cercare un accordo con il potere? Filosseno mostra, col dichiarare di voler ritornare «nelle latomie» dopo aver sentito di nuovo i pessimi versi di Dionisio, che c’è un limite che non va mai superato. Se un potente pretende dall’artista il riconoscimento di saper a sua volta creare bellezza poetica, il poeta deve abbandonare il suo ménage con il potere ed esiliarsi di propria volontà dalla corte, o di anteporre all’agio la sua libertà di giudizio artistico.

Enrico Piergiacomi


All’approssimarsi dei Giochi Olimpici Dionisio mandò alla competizione parecchie quadrighe, molto più veloci delle altre, e tende per la festa intessute d’oro e adorne di costosi drappi multicolori. Mandò anche i migliori rapsodi a presentare alla festa i suoi versi e rendere così il suo nome famoso, perché aveva una vera mania per la poesia. Ne affidò la direzione al fratello Tearide, il quale al suo arrivo alla festa si fece ammirare per la bellezza delle tende e per l’alto numero delle quadrighe. E quando i rapsodi cominciarono a recitare i versi di Dionisio, all’inizio la bella voce degli interpreti richiamò molto pubblico e tutti ne furono estasiati; ma poi, constatando lo scarso valore dei versi, derisero Dionisio e lo disprezzarono a tal punto che alcuni arrivarono persino a strappare le tende. E l’oratore Lisia, che si trovava ad Olimpia, esortò la folla a non ammettere ai giochi sacri i delegati mandati a rappresentare una tirannide tanto empia; fu in quell’occasione che pronunciò l’orazione detta Olimpica. Durante lo svolgimento della gara, per caso alcune quadrighe di Dionisio finirono fuori pista e altre si fracassarono urtandosi fra loro. Analogamente anche la nave che riportava in Sicilia i delegati dopo i giochi fu sbattuta a Taranto, in Italia, da una tempesta. Perciò si dice che i marinai, che tornarono sani e salvi a Siracusa, andavano dicendo per la città che erano stati quei brutti versi a determinare l’insuccesso non solo dei rapsodi, ma, insieme a loro, anche delle quadrighe e della nave. Dionisio, quando seppe che i suoi versi erano stati oggetti di scherno, sentendosi dire dagli adulatori che ogni successo è invidiato prima di essere ammirato, non smise di dedicarsi alla poesia (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XIV, cap. 109, §§ 1-6; trad. Alfieri Tonini)

A Dionisio non venne meno l’interesse per la poesia e mandò alle feste Olimpiche gli attori con la voce migliore per presentare al pubblico i suoi versi cantati. Questi prima sbalordirono gli spettatori con la loro bella voce, ma poi, dopo un attento esame, furono disprezzati e suscitarono molte risate. Dionisio, quando seppe che i suoi versi erano stati disprezzati, ne fu molto addolorato; la sua pena continuò a crescere finché il suo animo fu preso da follia e sospettava tutti gli amici di cospirare contro di lui, dicendo che lo invidiavano. Alla fine il dolore e il furore lo fecero arrivare al punto di sopprimere con false accuse molti amici e di mandare tanti in esilio; tra questi furono Filisto e suo fratello Leptine, uomini di straordinario coraggio e che gli avevano reso molti servizi importanti in guerra (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XV, cap. 7, §§ 2-3; trad. Alfieri Tonini)

Non è incompatibile con la nostra narrazione esporre le cause della morte di questo dinasta e quello che gli accadde quasi alla fine dei suoi giorni. Dionisio aveva fatto rappresentare una tragedia ad Atene in occasione delle Lenee e aveva vinto; e uno di quelli che cantavano nel coro, pensando che avrebbe ricevuto splendidi onori se gli avesse annunciato per primo la vittoria, si recò per mare a Corinto. Là trovo una nave che salpava per la Sicilia e vi si imbarcò, grazie ai venti favorevoli raggiunse presto Siracusa e annunciò la vittoria al tiranno. Dionisio lo ricompensò e ne fu personalmente molto lieto, fece sacrifici agli dèi per la buona notizia e organizzò simposi e grandi banchetti. Diede splendidi ricevimenti per gli amici e, avendo ecceduto nel bere fino ad ubriacarsi, si ammalò piuttosto gravemente per l’eccessiva quantità di bevande ingurgitate. Secondo una profezia divina egli sarebbe morto quando avesse vinto quelli migliori di lui e aveva visto nella predizione un riferimento ai Cartaginesi, reputandoli superiori a lui. Perciò nelle frequenti guerre che aveva combattuto contro di loro era solito fuggire al momento della vittoria e farsi vincere di proposito, per non sembrare migliore di quelli più forti di lui. Tuttavia non riuscì, nonostante la sua astuzia, a vincere la forza del Fato, ma, per quanto fosse un cattivo poeta e fosse stato giudicato ad Atene, vinse i poeti migliori di lui. Ed era logico che si avverasse l’oracolo e la vittoria riportata su quelli migliori di lui gli portasse come conseguenza la morte (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XV, cap. 74, §§ 1-4; trad. Alfieri Tonini)

In Sicilia Dionisio, tiranno di Siracusa, liberatosi dalle guerre con i Cartaginesi, godeva di completa pace e tranquillità. Perciò cominciò con grande impegno a scrivere composizioni poetiche, mandò a chiamare i poeti più famosi e, colmandoli di onori, si intratteneva con loro, e trovava in loro dei maestri e dei critici delle sue poesie. Inorgoglito dalle lusinghiere parole con le quali essi ricambiavano la sua benevolenza, Dionisio si vantava molto più delle sue poesie che dei successi in guerra. Tra i poeti che vivevano alla sua corte c’era il ditirambografo Filosseno che godeva di grandissima considerazione per la struttura del suo componimento. Durante il simposio furono lette le poesie del tiranno, di pessima qualità, e fu chiesto a Filosseno cosa ne pensasse. Siccome gli rispose con troppa franchezza, il tiranno, offeso dalle sue parole e accusatolo di averle disprezzate per invidia, ordinò ai servi di condurlo immediatamente nelle latomie. L’indomani gli amici chiesero la grazia per Filosseno; riconciliatosi con lui, [Dionisio] invitò di nuovo i medesimi convitati al simposio. Quando era ormai in pieno svolgimento, di nuovo Dionisio orgoglioso delle sue poesie recitò qualche verso di quelli che apparivano particolarmente riusciti e gli chiese: «Come ti sembrano questi versi?», senza rispondere Filosseno, chiamati i servi di Dionisio, ordinò di ricondurlo nelle latomie. Allora Dionisio sorrise alla replica spiritosa e tollerò la franchezza, dal momento che lo scherzo mitigava il biasimo. Ma quando qualche tempo più tardi i conoscenti e Dionisio insieme invitarono Filosseno a rinunciare alla sua inopportuna franchezza, egli fece una bizzarra promessa. Disse, infatti, che con la sua risposta avrebbe salvato insieme la verità e l’approvazione di Dionisio, e non mentì. Quando il tiranno recitò alcuni versi che contenevano sofferenze degne di compassione e gli chiese : «Come ti sembrano questi versi?», Filosseno rispose: «Pietosi», mantenendo la duplice promessa grazie all’ambigua risposta. Infatti Dionisio credette che “pietosi” significasse “commoventi e pieni di compassione” e che tali fossero le opere riuscite dei buoni poeti, per cui lo considerò un elogio; gli altri, invece, compreso il vero significato, intesero che tutta la “pena” si riferiva ad un sostanziale insuccesso della composizione (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XV, cap. 6 = Dionisio, T1; Filosseno di Citera, T7a)

Quale incentivo o considerazione per tale arte e per tale poesia potrebbe esserci, dunque, presso simili sovrani? Ma neppure possono esserci presso i cattivi artisti che perciò per invidia e per ostilità umiliano quelli autentici. Tale fu di nuovo Dionisio che fece gettare il poeta Filosseno nelle latomie perché, incaricato di emendare una sua tragedia, subito l’aveva tutta costellata di segni, dall’inizio fino alla fine (Plutarco, Sulla fortuna di Alessandro, passo 334C1-8 = Dionisio, T13 Snell; Filosseno di Citera, T9)

Si dice che anche Dionisio compose una tragedia di nessun valore e del tutto ridicola, così che Filosseno a causa di essa fu gettato più volte nelle latomie, non riuscendo a trattenere il riso (Luciano, Contro un bibliomane ignorante, § 15 = Dionisio, T11; Filosseno di Citera, T12)

Allora visse anche Filosseno di Citera, il poeta di ditirambi. Apprendi chi egli fosse, e considera di quante vendite fosse degno. Ma pur compiendo azioni sconvenientissime non fu mai venduto da Dionisio. Una sola volta fu mandato a giusta ragione nelle latomie, ma quello in breve tempo lo fece uscire di nuovo. Fu mandato in una cava della latomia, perché Dionisio, avendo composto una tragedia che avrebbe dovuto essere letta pubblicamente in Atene, la diede a Filosseno dicendo: «Custodisci la tragedia, Filosseno; esaminala con cura e se c’è qualcosa che giudichi brutto, segnalo con una x». Egli segnò la tragedia dall’inizio alla fine. Di quante vendite era dunque degno costui? Tuttavia Dionisio lo fece gettare una sola volta nelle latomie e lo fece uscire in brevissimo tempo (Tzetz. Chil. 5.152-168 = Dionisio T3; Filosseno di Citera, T18)

Il saggio Filosseno, il ditirambografo, era di Citera, di natura libero. Era particolarmente caro a Dionisio. Questi, consegnandogli una propria tragedia, che era opera dello stesso Dionisio, in procinto di essere letta pubblicamente in Atene, gli disse: «Filosseno, esamina la tragedia, e se c’è qual cosa che non approvi, segnalo con una x». Egli dall’inizio alla fine segnò tutta la tragedia. Dionisio lo spedì nelle latomie, ma subito lo mandò di nuovo a chiamare con una lettera. Allora Filosseno gli risponde per lettera così, ripetendo più volte la stessa frase in forma di cerchio, dieci e più volte scrivendo in questo modo, “non mi do pensiero”, “non me ne curo” e così via. Alla fine fu ricondotto da Dionisio, e dopo aver ascoltato di nuovo ciò che Dionisio diceva, non riuscendo ad adularlo, disse: «Riportatemi nelle latomie» (Tzetzes, Chiliadi, libro 10, vv. 832-854 = Dionisio, T3; Filosseno di Citera, T17b)

Dionisio si ubriacava piacevolmente insieme a Filosseno. Ma dopo che fu sorpreso a sedurre Galatea, amata dal tiranno, fu rinchiuso nelle latomie; lì nel comporre il Ciclope adattò il racconto a quello che gli era accaduto, celando nel Ciclope Dionisio, in Galatea la suonatrice di aulo, in Odisseo se stesso (Ateneo di Naucrati, I sofisti a banchetto, libro I, § 11 = Filosseno di Citera, fr. 2)

Le latomie di Sicilia si estendevano intorno alle Epipoli, per la lunghezza di uno stadio e la larghezza di due pletri. Vi furono uomini che in esse rimasero a vivere tanto a lungo da sposarsi lì e generare figli. E alcuni di quei fanciulli, non avendo mai visto una città, quando si recarono a Siracusa e videro cavalli aggiogati e buoi spinti al lavoro, fuggivano urlando; a tal punto rimasero sconvolti. La più bella di quelle cave aveva il nome del poeta Filosseno. Raccontano che, soggiornando in essa, compose il Ciclope, il più bello dei suoi carmi, non tenendo in alcuna considerazione la punizione e il castigo di Dionisio, ma componendo versi anche nella sventura (Claudio Eliano, Storie varie, libro XII, cap. 44 = Filosseno di Citera, T14)

Ad Atanasio adulteratore di vino. Odisseo cercava di persuadere Polifemo a farlo uscire dall’antro: «Sono uno stregone e al momento opportuno potrei aiutare te che non sei fortunato nel tuo amore marino. Io conosco incantesimi, legami magici e costrizioni erotiche alle quali è verisimile che Galatea non resisterà neppure un poco. Tu impegnati soltanto a spostare la porta, o piuttosto questo masso: mi sembra, infatti, un promontorio! Io ritornerò da te più veloce del pensiero, dopo che mi sarò lavorata la ragazza. Cosa dico lavorata? Ti farò vedere proprio lei qui, divenuta ormai docile per i molti incantesimi. E ti pregherà e ti supplicherà, e tu fingerai indifferenza e la prenderai in giro. Intanto, però, questa cosa mi preoccupa, che il fetore dei tuoi velli sia sgradevole per una fanciulla raffinata e che si lava molte volte al giorno. Sarebbe bello, dunque, se tu mettessi tutto in ordine e pulissi, e lavassi e fumigassi d’essenze la tua casetta; ancora più bello se preparassi ghirlande di edera e smilace, con le quali potresti cingere te stesso e la tua amata. Ma perché indugi e non apri ormai la porta?». A queste parole Polifemo scoppiò a ridere quanto più forte poteva e batté le mani. E mentre Odisseo pensava che quello dalla gioia non stesse più in sé, nella speranza di raggiungere il suo amore, egli, invece, accarezzandogli il mento, disse: «Nessuno, tu sembri essere un ometto molto scaltro e consumato negli affari. Ma escogita qualcos’altro: da qui, infatti, non fuggirai» (Sinesio, Epistola 121 = Filosseno di Citera, fr. 6)

Sul perché si dice «Eros rende certamente poeta, anche chi prima non conosceva la poesia», si dibatteva a casa di Sossio, dopo aver cantato qualche verso di Saffo, dal momento che anche il Ciclope «curava l’amore con le Muse dalla bella voce», dice Filosseno (Plutarco, Questioni conviviali, libro I, passo 622C2-8 = Filosseno di Citera, Ciclope, fr. 10)

Al cospetto delle Muse è giusto menzionare Saffo. Mentre i Romani raccontano che Caco, il figlio di Efesto, vomita fuoco e fiamme che scorrono fuori dalla sua bocca, Saffo, invece, compone versi veramente misti a fuoco e con i suoi canti comunica l’ardore del suo cuore «curando l’amore con le Muse dalla bella voce», come dice Filosseno (Plutarco, Amatorio, passo 762F4-7 = Filosseno di Citera, Ciclope, fr. 10)

Anche Filosseno rappresenta il Ciclope che consola se stesso per il suo amore verso Galatea e che ordina ai delfini di farle sapere che «con le Muse egli cura l’amore» (Anonimo, Scolio agli “Idilli” di Teocrito, commento a 11, vv. 1-3 = Filosseno di Citera, Ciclope, fr. 10) 

Appronterò per voi un canto all’amore (Ateneo di Naucrati, I sofisti a banchetto, libro XV, § 46 = Filosseno di Citera, fr. 23)

[Le fonti sull’attività poetica di Dionisio I si trovano in Bruno Snell (a cura di), Tragicorum Graecorum Fragmenta. Vol. 1. Cap. 76: Dionysius, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1971. Quelle su Filosseno sono raccolte da Adelaide Fongoni, Philoxeni Cytherii Testimonia et Fragmenta, Pisa-Roma, Serra, 2014. Da questa raccolta è tratta anche la traduzione italiana di quasi tutti i testi antichi, ossia con l’eccezione di Diodoro Siculo, per cui si segue: Teresa Alfieri Tonini (a cura di), Diodoro Siculo: Biblioteca storica, libri XIV-XVII, Milano, Rusconi, 1985]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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