Sete è lo spettacolo del collettivo composto dal drammaturgo Walter Prete, il regista Lorenzo Parrotto e l’attore Giorgio Sales, andato in scena nello spazio e scuola di formazione Altrove Teatro Studio. Recensione
Sete è un dispositivo virtuale, dove per virtuale s’intenda la capacità della scrittura di farsi iper e meta testo, di creare possibili e immateriali fughe dal reale rimanendo però profondamente attaccata alla realtà. Un reticolo di azioni, accadute forse, in corso anche, oppure futuribili, immaginate come fossero la degenerazione ultima e parossistica di uno stato di cose irrecuperabile, dominato da quelle stesse cose, e solo quelle, che siano state “unte di valore”. Un valore fondato sul nulla ma che determina e vincola e verso il quale si tende. Per poi soccombere.
Lo spettacolo ha debuttato nella stagione dell’Altrove Teatro Studio, un teatro, scuola e sala prove indipendente romano fondato e diretto da Ottavia Bianchi e Giorgio Latini per sostenere il lavoro d’attore: «Il centro nevralgico di questo progetto di evoluzione culturale è l’attore, divenuto negli anni, da lavoratore dipendente, un libero professionista spesso bistrattato a livello sociale e produttivo e costretto ad allargare sempre più le sue competenze: scrittura, produzione e promozione degli spettacoli di cui è interprete». Dopo aver ricevuto il Premio Speciale nell’ultima edizione del Premio Giovani Realtà del Teatro Nico Pepe e aver vinto la Residenza alle Periferie Artistiche della Regione Lazio, Sete è stato accolto alla prima da una sala sold out, partecipante e entusiasta, anche generosa di più di un applauso a scena aperta. Questo progetto, come si legge nelle note, «è il prodotto di un collettivo informale composto da Giorgio Sales (interprete), Lorenzo Parrotto (regista) e Walter Prete (drammaturgo). Dopo gli anni della formazione e delle prime esperienze professionali, si ritrovano per dare seguito ad un impegno preso anni fa, quasi per gioco». Provenienti da una formazione accademica – Parrotto e Sales sono diplomati all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” mentre Prete ha un diploma con titolo regionale – i tre sono autori di un’invettiva ruotante intorno a un semplice fatto, banale per la sua ordinarietà, ovvero la trasformazione di un locale, La Severina, da umile ristorante di pesce a conduzione familiare a luogo sfruttato e mercificato per e dalla massa, svuotato del sapore di una volta, riempito del niente di oggi.
Le sette scene in cui è suddiviso il testo, da La Creazione (anticipata da un prologo in voice off che legge la Genesi) all’Apocalisse, sono scarne scenograficamente ma puntellate di pochi elementi funzionali, tra cui uno spot pubblicitario proiettato sul fondo, che seppure non hanno la forza di imporsi come simboli possiedono tuttavia la funzionalità di porsi come tracce oggettive e tangibili della narrazione. Prima fra tutte, perché presente sin dall’inizio e per tutta la durata dello spettacolo, una bottiglia d’acqua in plastica da 50 cl appesa al lato destro del palco e illuminata di taglio, a fendere il buio. Solo in scena Giorgio Sales prepara gradualmente un’architettura di monologhi relativi a specifici e attentamente delineati personaggi (il genio, l’imprenditore, il ristoratore, l’intellighenzia, il trader) districando con dovizia di particolari tonali, mimici e linguistici, un’interpretazione eclettica e virtuosistica relativa a sette nuclei di testi brevi – dal copione di massimo una, due pagine – costruiti non per stratificazione ma per propagazione. «Una scrittura a centri concentrici», la quale dal fatto principale esplode in altrettanti momenti che non solo determinano angolazioni riflettenti una polemica nichilista relativa alla spettacolarizzazione, a come «ogni cosa non ci sazia mai e tutto sa di finto», ma fanno procedere la drammaturgia arricchendola di contenuti. Se il genio definisce, avvalora, amplifica nella ridondanza di un’esaltazione masturbatoria ed elogiativa concentrata sull’ego (per dirla à la Guy Debord, citato insieme a Feuerbach come riferimento nella sinossi) che è però distruttiva perché privativa; il ristoratore, invece, nella sua ingenua ignoranza, autentica e fiera di valori, si pone come colui che si oppone, e nel rifiuto decostruisce il totem di un locale, ora non più suo e della sua famiglia, immaginato da altri, dove non c’è più nulla di vero ma tutto è artefatto e in cui si spaccia la purezza di un’acqua, la cui bottiglia da 50 cl viene servita e venduta per la modica cifra di otto euro e cinquanta.
A definire maggiormente l’aspetto formale di una scrittura tendente alla virtualità, è la scena 3, La partita, in cui un imprenditore eccitato parla con il genio e «ogni battuta è un colpo di racchetta perché sta giocando a tennis con una racchetta laser in cui l’idea della partita è vera, se non fosse che la pallina non c’è». E neanche l’avversario. Azione che ci rimanda subito a riferimenti letterari celebri di certa letteratura postmoderna, in cui la partita di tennis, e le traiettorie della pallina, sono emblematici pretesti narrativi per creare un reticolo di connessioni sprigionate in imprevedibili peripezie testuali, le quali però come un boomerang metalinguistico tornano indietro all’individuo e concentrano l’attenzione sul sé. Come in Cocaine Nights di J.G. Ballard, in cui Charles Prentice gioca da solo la sua partita colpendo le palline vomitate dalla macchina, nella rarefazione del campo di tennis del complesso residenziale di Estrella de Mar: non c’è l’avversario ma la lotta è tra sé e sé, proprio Ballard scrive che «il vero duello stava avvenendo dentro la testa dell’uomo».
Quanto niente è alla base di tutto? Se il testo di Sete non spicca certo per novità della tematica, se a tratti sembra cedere pure alla retorica del culto di un tempo migliore che fu, ciononostante il lavoro si afferma come sintesi di tre autorialità capaci di spingere il loro bagaglio formativo verso la sperimentazione e la prova, portando a compimento una drammaturgia che è un originale, quanto spietato, gioco di vite.
Lucia Medri
Altrove Teatro Studio, Roma – gennaio 2020
SETE
di Walter Prete
regia Lorenzo Parrotto
con Giorgio Sales
Assistente alla regia Alfredo Calicchio
Sonoro Laurence Mazzoni
Video Federico Sanfrancesco