Recensione. Vortex di Phia Ménard, uno spettacolo per performer, plastica e ventilatori. Visto al Teatro India di Roma.
«Per noi il teatro è farvi vivere qualcosa; ricordarvi che siete fatti di carne, ossa, sangue, sudore». Così saluta Phia Ménard, mentre il pubblico di uno degli spazi rinnovati del Teatro India soffoca gli applausi per sentirla. E prosegue, poi, con altre parole ugualmente semplici, ugualmente efficaci, alle quali molti artisti, molti spettatori, molte persone – verrebbe da augurarsi, da sperare, tutte – aderiscono. «Non scegliamo dove nascere, di che sesso, di quale orientamento sessuale, quale forma imprimere al corpo, se vivere in un paese che è in guerra o è in pace – io preferisco la pace», chiosa. Cosa, allora, fare? Lasciarsi trascinare dal flusso degli eventi o scegliere quale impronta dare a queste forme che ci sono state consegnate, sfidando quella assodata, definita, e rendere quell’idea di circolarità chiusa invece spiraliforme, vorticosa, in grado di gestirla, o meglio, di entrarci in relazione.
Questioni simili smuove Vortex anche a prescindere dalle parole dell’artista della compagnia francese Non Nova, ma che ci possono essere utili per andare (a malincuore) oltre il senso di meraviglia che pure appartiene all’intera operazione. La meraviglia che scopre il bambino quando immagina e gioca a far sì che un oggetto diventi animato, persona da muovere, da far vivere, con cui interagire. Così accade alle forme di plastica (bustine leggere, sacchi, fogli e tubolature giganti, di diversi colori, foggia e qualità), il cui soffio vitale è dato da una serie di ventilatori che circondano la pedana d’azione. Meraviglia per la perizia tecnica messa al servizio di quella immaginifica che permette di rendere quel vortice di vento una danza per ballerini di polimeri e una performer in carne e sangue (Ménard stessa, che ne cura anche la regia e le scene).
La centralità degli elementi naturali è presente nei lavori della compagnia francese fin dal 2008; in questo caso Vortex fa parte delle Pièces du vent: «Con il vento abbiamo lavorato in maniera pragmatica e lo abbiamo testato attraverso numerosi tentativi che hanno più a che vedere con l’artigianato che con la ricerca scientifica – leggiamo nelle note della regista – Esattamente come il ghiaccio, il vento è un elemento instabile. Il vento rende nervosi, è freddo. Ci chiede, a noi umani, di adattarci a lui e non il contrario. In questo senso ci obbliga a non possederci, a mollare la presa sulla nostra volontà di controllare tutto. Bisogna lasciargli lo spazio e allo stesso tempo non perdere il filo dei propri propositi». I processi messi in atto sono esemplari nella loro precisione e pulizia, ma non ci si aspetti una struttura ordinata, quanto un flusso che sfrutta principi fisici e dà forma a movimenti armonici sotto le note del Prelude d’aprés-midi d’un foehn di Claude Debussy oppure a quelli imprevisti, decisi, taglienti, quasi fosse una lotta alla sopravvivenza, sempre più cruenta e inquietante, che si appoggia alle note elettroniche di Ivan Roussel nelle parti successive.
Dare forma: principio ordinatore di tutta la drammaturgia a cura di Jean-Luc Beaujault, che appunto inizia con un omone in completo serio, occhiali e fattezze spropositate, intento a ritagliare e incollare alcune bustine di plastica. Dopo questo movimento che ha la qualità quasi di un rituale, il sacchetto diventa protagonista di un risveglio, e inizia a danzare un solo, dolcemente sospinto dal vento. Poi l’etereo “corpo di ballo” si amplia, e non si farebbe fatica a parlare di floorwork, pas de deux, attitude, chassé, jeté, passi di una danza di buste che occupa tutto lo spazio in verticale; è un puro godimento dei sensi mentre quella figura nerovestita partecipa del loro movimento, le raccoglie dentro un ombrello, ci gioca, le lascia libere, poi le riacchiappa, quasi fosse lui un bonario uomo dei palloncini in una fiera durante una ventosa sera d’estate. Finché qualcosa cambia decisamente l’atmosfera: cessa il tono idilliaco, si fa strada la rabbia, la foga distruttiva verso l’altro e verso se stessi. Si cambia forma: il viaggio è quello di una tortuosa discesa della conoscenza, viaggio nel nostro essere mostri ambigui, negli incubi che abitano dentro la pancia, negli strati dietro i quali ci nascondiamo.
Cosa fare, appunto, con quanto ci è stato dato? Combattere, corpi umanoidi contro mostri di plastica, quella stessa che prima non avevamo fatto fatica ad indossare, scoprirci vittoriosi eppure quasi sconfitti, consumati da un altro mostro che alberga dentro di noi, e che ha la forma di un infinito incubo. Qui non sembra più di trovarci a un metro dalla performer, siamo forse davanti alla forza simbolica dei mostri della ragione di Goya, ai contrasti luministici del Sogno del pastore di Füssli, solo che quell’incubo tubolare lungo decine e decine di metri incombe proprio davanti ai nostri occhi. Anche questa battaglia, prima combattuta ciascuno per conto proprio, per trovare la propria identità, e poi per affermarsi sull’altro, ha fine. Ne nasce un nuovo corpo, femmineo, grandi mammelle, una pancia gravida, ancora una tuta che smussa i contorni umani. Ma il principio della trasformazione è di nuovo in atto: un nuovo corpo prende vita, ma quanto ci caratterizza? Quanto il figlio segna il ruolo di madre, quanto la seconda è in grado di generare protezione, quanto il primo invece diventare uno spauracchio dietro cui nascondersi; quanto invece ancora una volta, diventare qualcosa contro cui scagliarsi, con cui ingaggiare una danza di fuoco o di sangue, per poi scoprirsi, quasi del tutto, stremati, sfiancati, sudati, dentro quel bozzolo cui abbiamo dato una forma. C’è ancora qualcosa prima di andare, c’è uno strato, ancora, da strapparci di dosso e riconoscerci, finalmente, con una pelle che è natura e artificio, sangue, ossa e sudore, lì, a raccontare la nostra storia.
Viviana Raciti
Visto al Teatro India, febbraio 2020
VORTEX
drammaturgia Jean-Luc Beaujault
direzione artistica, coreografia e scenografia Phia Ménard
con Phia Ménard
musiche di Ivan Roussel da Claude Debussy