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Nei Vespri, con la regia di Valentina Carrasco, la Sicilia di Emma Dante

Recensione. I vespri siciliani di Giuseppe Verdi, con la direzione musicale di Daniele Gatti e la regia di Valentina Carrasco. Visto all’Opera di Roma.

Foto Yasuko Kageyama

Esistono due modi per inaugurare la stagione di qualsiasi teatro. Il primo è quello di scegliere un’opera conosciutissima e largamente amata da tutti, conquistandosi un certo favore di pubblico e critica e aprire così l’anno con un grande, preannunciato, successo. Insomma, andare sul sicuro. Il secondo è invece quello di scegliere un’opera meno popolare, poco o niente rappresentata, chiamare un direttore tanto bravo quanto particolare a dirigerla e proporre un nuovo allestimento contemporaneo che, si sa, potrebbe non piacere a tutti. Insomma, rischiare. Inaugura così la sua stagione operistica il Teatro dell’Opera di Roma, prendendosi un bel rischio, con Les vêpres siciliennes di Giuseppe Verdi, diretta da Daniele Gatti, con la regia di Valentina Carrasco. Una serata di quattro ore, un’opera di cinque atti e un balletto – in lingua originale, il francese, così come l’aveva pensata Verdi. Un’opera che a teatro si vede poco già nella sua versione in italiano (diversissima a tratti, nel senso, da quella francese), date difficoltà di trovare i cinque personaggi principali all’altezza delle durissime parti vocali. Per di più, eseguita senza tagli, con il famoso balletto delle Quattro stagioni, al modo della Grand Opéra francese.

Verdi scrive, non senza difficoltà, sul libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier (non sono autori malleabili come Piave) e la prima rappresentazione assoluta si tiene al Théâtre de l’Académie Impériale di Parigi, 13 giugno 1855. È un Verdi molto diverso da come siamo stati abituati a sentirlo, perché è il genere francese ad esserlo: al primo posto vi è la partitura musicale, la grande l’orchestrazione e non le parti vocali dei cantanti o il dramma teatrale. Così, si lancia nell’impresa e, ovviamente, riesce. Certo è che non ha nulla a che vedere con la sapienza drammaturgica e le fini abilità teatrali riconoscibili nel trittico popolare. Purtuttavia, anche in questo caso, Verdi non rinuncia a portare avanti l’idea tematica che sempre caratterizza i suoi lavori: la volontà del singolo contro l’esigenza della collettività. Sceglie quindi un episodio storico fortissimo, la rivolta dei Vespri siciliani del 1282, quando a Palermo, all’ora dei vespri, il popolo siciliano si ribellò ai dominatori francesi, gli Angioini, scatenando una lunga serie di rivolte in tutta l’isola. A ciò aggiunge il dramma personale, laddove il rivoltoso Henri, innamorato della duchessa Hélène, sorella del defunto capo della resistenza Federigo d’Austria, scopre di essere il figlio del governatore francese Montfort, suo acerrimo nemico.

Foto Yasuko Kageyama

Un popolo oppressore e uno oppresso. L’incitamento alla ribellione. Il sacrificio di sé. Quasi ogni opera verdiana, in qualsivoglia tempo e luogo venga ambientata, reca con sé le tracce di un discorso politico più ampio: pretesti, per raccontare altro. Non dovrà quindi essere strano trovarsi di fronte a una regia che non si limita a ricollocare lo spettacolo in un luogo e tempo preciso, ma fornisce uno spazio del “dovunque” e un tempo del “sempre”. La scena si apre infatti in una cava di pietra, in un’epoca non meglio specificata. Soldati senza precisa nazionalità costringono altre persone ad estrarre e lavorare la pietra per loro. Ma c’è qualcosa di più prezioso che interessa ai soldati, il compimento di un potentissimo atto simbolico di affermazione di supremazia: possedere fisicamente le donne della popolazione oppressa. È questa la goccia che farà traboccare il vaso, così come accadde a Palermo nel 1200. Una vecchia storia che si ripete all’infinito, da sempre.

In questo senso, la scenografia del maestro Richard Peduzzi aiuta a definire non tanto i confini spaziali, tanto quelli emotivi in cui tutto ciò avviene. Crea così dei colossali palazzi squadrati, di pietra chiara, che pendono minacciosi verso il centro del palco. Le luci di Peter van Praet (collaboratore anche di Robert Carsen) attraversano le irregolarità di queste mastodontiche strutture, ricreando un luogo crepuscolare, spigoloso. Il tutto, sembra rappresentare quest’eterna, monolitica contrapposizione di fazioni opposte. In siffatta idea di regia le pietre si riferiscono anche alla profondità del trauma subito da questa terra, covato nelle sue viscere, inscindibile dalla sua origine geologica. Radici e ricchezze usurpate e violentate dai conquistatori, come racconta Carrasco nell’intervista che si legge tra i saggi del corposo programma di sala. D’altronde la regista argentina è stata forgiata nella grande fucina creativa della Fura dels Baus e si vede; è evidente dal modo in cui coglie i significati politici e con cui accentua gli aspetti di critica sociale, in ogni opera che affronta. Ma c’è di più. Perché Carasco possiede per sua natura artistica una sensibilità circa le ragioni umane, emotive, dei singoli che compongono la società. Come nella storia dei Vespri, dove è l’umiliazione del singolo a dare il via alla rivolta contro i francesi. Ed è proprio questo il nodo gordiano della messa in scena: lo stupro ai danni delle donne siciliane diviene il simbolo di una violenza generale, ai danni di una collettività, di un popolo intero. Le donne sul palco (e forse, a leggere bene le intenzioni di Carrasco, anche nella vita) si fanno carico di rappresentare i concetti di abuso e sopruso, diventando vittime reali e metaforiche.

Foto Yasuko Kageyama

Il balletto delle Quattro stagioni, progettato insieme a Massimiliano Volpini diviene allora l’occasione per esprimere il concetto della violenza, creando delle immagini metaforiche di una dolcezza struggente in contrasto con la brutalità del concetto espresso. Dietro a un telo opaco, calato sul boccascena, una decina di ragazze e altrettanti soldati danzano le fasi che conducono all’escalation della violenza: la caccia, la seduzione e l’atto vero e proprio. Le ballerine hanno braccia posticce di pezza, sono bambole da buttare dopo il gioco. Rimangono a terra, finché altre donne, figure bianche, di purezza angelica, entrano con secchi e bacinelle. Le lavano, le purificano dallo stupro e loro si rialzano, giocano e ridono. e dal più cruento degli atti nasce il più grande dei miracoli: la vita. Il palco si riempie di bambini, ignari frutti di violenza. Sono loro, ora, la speranza. Basta una pietra lanciata da una bambina, quasi per gioco, a uno dei soldati per scatenare una piccola rivolta. Questi bambini hanno la violenza nel sangue. Così come, del resto, ce l’ha Henri, frutto della violenza di Monfort ai danni di una siciliana. È lo spirito di sua madre che aleggia sul palco, la donna anziana, anch’essa vestita di bianco, che si palesa di fronte a Henri. È sua madre da giovane, quella che danza con lui, quella che Monfort, con un colpo di martello, estrae letteralmente dalla pietra, dando inizio al balletto. È sua madre da piccola, la ragazzina ribelle che lancia i sassi ai soldati. La violenza è nel DNA di questa popolazione, è contenuta nella pietra che costituisce le fondamenta del villaggio. Il vero protagonista, allora, non è il singolo, non sono i singoli, ma è il coro. Verdi è forse il più grande maestro nella valorizzazione della massa corale, che in questa regia assume realmente un ruolo da protagonista: è il popolo intero il vero artefice della rivolta finale.

Tuttavia, sebbene l’ambientazione non abbia effettivamente una collocazione spazio-temporale definita, al contrario di quanto detto da molti, la Sicilia non scompare del tutto. Non ci riferiamo a un ricordo suggestivo, storpiato, che c’è sicuramente in alcuni dei costumi, come i gilet neri dei mariti delle donne violentate. Quello che invece abbiamo ritrovato, anche se non dichiarato dalla regista, è il riferimento a una certa sicilianità à la Emma Dante. Pensiamo alle donne del corpo di ballo, al loro gioco nell’acqua, come quello delle Sorelle Macaluso o al trauma irrisolvibile della morte del fratello per Hélène e il suo vestito a lutto perenne, anche il giorno del suo matrimonio, come quello della madre di Carnezzeria, oltre che, ovviamente alla Carmen in scena alla Scala nel 2014, della quale condivide anche l’autore delle scenografie. Dunque, non troveremo la Sicilia degli agrumi, delle coppole e delle mattonelle dipinte, come qualcuno sembra ancora aspettarsi e desiderare quando si approccia a quest’opera, ma una Sicilia non patinata, tristemente iperrealistica, fatta di cave di pietra, polvere, violenza, lutto.

Foto Yasuko Kageyama

In un contesto musicale in cui Verdi dà il meglio di sé, travestendosi con grande successo da francese, l’orchestra e il suo direttore risuonano potentissimi, facendo vibrare il Costanzi sotto ai nostri piedi. Daniele Gatti ci porta, come sempre, un suo personalissimo Verdi, che lascia a bocca aperta gli spettatori del Costanzi, strappandogli lunghi e sentiti applausi tra gli atti: una direzione potente, violenta, appunto, che non lascia un attimo di respiro al pubblico, sempre pronto a saltare sulla poltrona. Di altissimo livello, di conseguenza, le performance del coro e dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, che lasciano sperare in una nuova, ulteriore, grande stagione operistica. E un grande plauso va infine al secondo cast vocale, messo a dura prova dalla difficoltà di quest’opera. L’Hélène di Anna Princeva è cantanta con un filo di voce, ma sempre intonata e precisa; il Procida di Alessio Cacciamani è perfettamente in parte, credibilissimo nella sua asprezza; il Monfort di Giorgio Caoduro, oltre ad essere un buon interprete vocale, risulta anche un bravo attore, che emoziona, soprattutto nel duetto con Henri, Giulio Pelligra. Lui, vera rivelazione della serata, alle prese con una parte di tenore acutissima, molto impegnativa, non perde un colpo e tira fuori una voce potente e precisa, alzando ulteriormente il livello della serata.

Flavia Forestieri

Dicembre 2019, Teatro Costanzi, Roma

Les vêpres siciliennes
Musica di Giuseppe Verdi

Opera in cinque atti
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier

Prima rappresentazione assoluta, Théâtre de l’Académie Impériale di Parigi, 13 giugno 1855

Durata: 4h 20′ circa – Atto I e Atto II 1h 10′ – Intervallo 30′ – Atto III 1h – Intervallo 30′ – Atto IV e Atto V 1h 10′
DIRETTORE Daniele Gatti
REGIA Valentina Carrasco

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
SCENE Richard Peduzzi
COSTUMI Luis F. Carvalho
LUCI Peter van Praet
COREOGRAFIA Valentina Carrasco e Massimiliano Volpini

PRINCIPALI INTERPRETI

La duchesse Hélène Roberta Mantegna / Anna Princeva 17

Ninetta Irida Dragoti*

Henri John Osborn / Giulio Pelligra 17

Guy de Montfort Roberto Frontali / Giorgio Caoduro 17

Jean Procida Michele Pertusi / Alessio Cacciamani 17

Thibault Saverio Fiore

Daniéli Francesco Pittari

Mainfroid Daniele Centra

Robert Alessio Verna

Le sire de Béthune Dario Russo

Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk*

* dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione degli allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

In lingua originale con sovratitoli in italiano e inglese

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Flavia Forestieri
Flavia Forestieri
Flavia Forestieri ha studiato all’Università “La Sapienza” di Roma, laureandosi in Letteratura, Musica e Spettacolo, con una tesi in storia della musica sull’opera di Bertolt Brecht “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, e, successivamente, in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi sulla regia lirica contemporanea, analizzando quattro regie de “La traviata” di Verdi. Dopo aver vinto il bando Luiss “Generazione cultura”, ha lavorato in ambito della comunicazione come addetta e stampa e social media manager alla Reggia di Caserta. Attualmente frequenta il Master in “Drammaturgia e Sceneggiatura” all’Accademia Nazionale “Silvio d’Amico” di Roma. Dal 2017 collabora con Teatro e Critica occupandosi di recensioni di spettacoli d’opera.

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