Roma, Rialto Santambrogio: dopo le chiusure e i sigilli che negli anni scorsi hanno determinato la fine dell’esperienza, ora una multa di quasi duecentomila euro mette a rischio coloro che si occupavano di gestire il centro culturale.
Esisteva un’era in questa città nella quale appassionati e osservatori si incontravano nelle platee “illegali” degli spazi alternativi per scoprire tendenze, talenti e linguaggi della scena performativa cittadina e talvolta nazionale. Dal punto di vista teatrale quel periodo – che era poi la coda con cui si chiudeva il decennio dei Novanta, ovvero una stagione ricchissima per la controcultura e gli spazi sociali e indipendenti – rappresentò un’energia rinnovata e contribuì a far emergere le ultimissime ondate di giovani artisti che ora fanno parte dell’ossatura più viva e rappresentativa della scena teatrale.
È stata l’ultima era in cui le nuove idee nascevano in luoghi liberi, corsari, ed erano frutto di collaborazioni, passaggi osmotici, chiacchiere, bevute e battaglie politiche.
Tra questi c’era il Rialto Santambrogio, ormai protagonista di racconti mitici pronunciati da chi ha vissuto quel luogo alla nuova generazione di teatranti romani che mai ha avuto modo di frequentarlo: frammento di memoria e di realtà che, a pensare quanto sia cambiato il panorama culturale romano in questi anni, sembra non solo distante anni luce, ma pura e semplice utopia. Non è un caso che il decennio successivo, nel quale sostanzialmente la protesta si è spostata dalla piazza al web, gli spazi culturali indipendenti abbiano subito pesantemente quella crisi di partecipazione politica che ha dilaniato la sinistra radicale. Se cercate la frase “Rialto Santambrogio” su Google l’apposita scheda informativa riporta la dicitura “chiuso definitivamente”; in questo articolo di cinque anni fa cercavamo di spiegare l’ultima chiusura coatta.
Certo, la società intanto ha vissuto una drastica mutazione, ma è pur vero che parafrasando il mea culpa di Brian Eno di questi giorni, a un certo punto ci siamo seduti di fronte a Facebook e non abbiamo più combattuto. Abbiamo lasciato che la burocrazia chiudesse luoghi come il Rialto, per questioni di “sicurezza” abbiamo lasciato che mettessero per sempre i sigilli al Teatro dell’Orologio e non siamo riusciti a sfruttare quanto avremmo dovuto l’innovazione e la forza di un’assemblea cittadina e nazionale come quella del Valle Occupato; anzi gran parte della città di Roma ha lasciato espellere la questione Valle come fosse una cancrena di cui era necessario privarsi. Mentre la Capitale perdeva il suo profilo culturale più libero, radicale e foriero di innovazione noi firmavamo petizioni su change.org. Così abbiamo lasciato singoli, collettivi, gruppi informali che si erano presi la responsabilità di prendersi cura di luoghi abbandonati dalle istituzioni (piantandoci progetti culturali, sociali e politici) a combattere da soli contro polizie municipali e tribunali.
Ora la kafkiana macchina della giustizia chiede il conto: 183mila euro ai soci dell’associazione che gestiva il Rialto Santambrogio. Graziano Graziani, Francesca Donnini, Fabrizio Parenti e Luigi Tamborrino dovranno pagare di tasca loro una cifra che se confermata sarebbe in grado di spezzare le prospettive di vita a chiunque non abbia alti redditi.
Per la giustizia sono colpevoli di aver utilizzato il modello dell’associazione culturale in occasioni puramente commerciali: serate da discoteca e utilizzo del bar.
È la solita storia, relativa anche a quello che accadde all’Angelo Mai che dovette chiudere la taverna, non è più contemplato un livello alternativo di creazione del reddito che permetta la sostenibilità dell’azione culturale. Fu il comune a dare in gestione, tramite una delibera veltroniana del ’96, i locali del Santambrogio al ghetto dopo un periodo di occupazione alla fine degli anni ’90 del Cinema Rialto, in via IV Novembre. La gestione di quegli spazi utilizzava attività parallele, di grande richiamo, come appunto le serate dedicate alla musica elettronica, per finanziare quella fase culturale che da sola non avrebbe avuto uno spazio di manovra economica. Perché se da una parte chi gestiva il Rialto afferma di non essersi arricchito con quella attività commerciale posta ora sotto la lente della giustizia, la ricchezza è stata invece evidentemente visibile sul piano culturale e artistico. Non stiamo di certo dicendo che l’obiettivo della ricerca artistica possa sdoganare qualsiasi pratica, ma qui a mancare è un nodo: le regole del mercato e i loro “vestiti” legislativi non riescono a prendersi cura delle nicchie culturali. Gli spazi indipendenti in questo senso permettono anche una sperimentazione della gestione economica che punti verso la possibilità di fornire accesso a servizi e cultura a prezzi popolari che difficilmente sarebbero possibili nei modi consueti. In questo decennio è mancato un lavoro legislativo che potesse portare alla creazione di dispositivi giuridici innovativi in grado di contenere la tassazione per le micro imprese culturali che svolgevano un importante ruolo in spazi cittadini pubblici o recuperati dall’abbandono. Al Rialto le compagnie potevano abitare gli spazi gratuitamente e contemporaneamente (dato che c’erano più luoghi a disposizione) potevano alimentare conoscenze e collaborazioni.
Il paradosso sta nel fatto che ormai abbiamo riconosciuto in maniera lapalissiana la flessione negativa del capitalismo (smascherando talvolta le forme più acute di liberismo), ma poi nelle nostre città non riusciamo a trovare forme alternative che riescano a mettere in comunicazione cultura ed economia di scala. E i nostri agglomerati urbani stanno espellendo le forme culturali indipendenti, prive di un mercato di riferimento, libere e talvolta incomprensibili alle masse.
Chi curava la programmazione teatrale del Rialto è dunque colpevole di aver dato la possibilità a un’intera generazione di creare, farsi le ossa, collaborare e poter oggi lavorare nei maggiori teatri italiani e all’estero: da Deflorian/Tagliarini a Lucia Calamaro, da Babilonia Teatro agli Omini, dall’Accademia degli Artefatti a Fibre Parallele (allora Lucia Lanera e Riccardo Spagnulo), da Daniele Timpano a Psicopompo e ancora Oscar De Summa, Biancofango, Sacchi di Sabbia, Andrea Cosentino, Fanny & Alexander, Muta Imago, Teatro Sotterraneo, Alessandra Cristiani, Menoventi, Teatro delle Apparizioni, Bartolini/Baronio questi solo alcuni dei nomi ospitati o prodotti nello spazio del Rialto.
Andrea Porcheddu (su Gli stati generali), giocando con la questione dell’emendamento milleproroghe a favore dell’Eliseo e poi bocciato, ironicamente proponeva di infilare nel decreto anche un salvagente per chi subirà questa multa di quasi duecentomila euro; la questione è una boutade fino a un certo punto: nei giorni scorsi in tanti hanno manifestato la propria solidarietà al Rialto e a chi lo gestiva. Ecco, bisognerà trasformare quella dimostrazione di solidarietà in aiuti veri e in un dibattito istituzionale, perché se luoghi come il Rialto hanno contribuito a creare l’eccellenza del teatro che noi tutti frequentiamo, il sistema ha non solo il dovere di riconoscerlo ma anche di trovare un modo per rendere tali pratiche in grado di agire e rigenerarsi, anche in epoche e modalità differenti.
Andrea Pocosgnich
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