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La belva giudea. Il pugile che sfidò Rocky per amore

La belva giudea, spettacolo di Dogma Theatre Company in scena all’Off-Off Theatre, sul pugile ebreo Hertzo Haft, prima internato in un campo di concentramento e poi in America alla ricerca del primo amore. Recensione

Foto Tania Bozzaelli

Sono molte le storie in cui sport e lotta per la libertà si intrecciano, le regole e i valori nobili della sana competizione si fondono all’affermazione dei diritti e della dignità umane, da Abebe Bikila scalzo che vince per l’Africa nel 1960 alla vittoria dell’algerina Hassiba Boulmerka alle Olimpiadi di Barcellona del 1991. Parlando di sport e genocidio non si può non pensare al volto tozzo ma bonario di Leone Efrati, così come a quei due pugni neri che stretti si levano sotto gli occhi di Adolf Hitler e della Germania nazista. Non di pugni ma di guantoni racconta La belva giudea della giovane Dogma Theatre Company, in scena all’ Off-off Theatre, che dal nome “di battaglia” del pugile Hertzo Haft ne ricostruisce la biografia ispirandosi a Harry Haft: Auschwitz Survivor, Challenger of Rocky Marciano di Alan Scott Haft.

Hertzko Haft, ebreo polacco, internato ad Aushwitz a soli quattordici anni, alias la “belva giudea”, per la resistenza dimostrata sul ring, per la tenacia dimostrata nelle lotte che servivano a intrattenere i carcerieri del campo di sterminio. Tenacia e resistenza provvidenziali, le stesse che richiameranno su di lui l’investimento di uno dei kapo, Shnider, e che sapranno, in definitiva, portarlo dall’altra parte dell’oceano.

Intraprendiamo un viaggio a ritroso dalla sconfitta inscenata da Haft, ormai libero, contro Rocky Marciano, nel tentativo ostinato di far giungere a Leah, la donna promessa e amata prima dell’internamento, la notizia del proprio arrivo in America. Una farsa, deviata nel risultato dall’intervento del potere economico americano, dell’interesse cieco ai valori dello sport, una sconfitta che ha come unico obiettivo il titolo di testa dei giornali più importanti d’America.

Foto Tania Bozzaelli

A fine match, fuori dal ring, si incontrano Haft (Giampiero Pumo) e Alan (Filippo Panigazzi), giovane giornalista a cui il pugile è deciso a strappare la prima pagina del Times. Un timido apprendista, un taccuino disordinato, lo sguardo basso. Al giovane giornalista ebreo la storia di Haft cade addosso imprevista con tutto il suo orrore. Una responsabilità troppo grande, una storia troppo difficile, forse impossibile, da raccontare soltanto con una penna. Una fragilità che riesce a farsi forza, un mestiere, quello del giornalismo, che diventa missione. Ambiguo il ruolo di Panigazzi, che oscilla tra il giornalista sconosciuto e il figlio di Haft, autore della biografia, suggerendoci quanto il dovere della memoria e della comprensione riguardino prima di tutto coloro che coinvolti non si sentono affatto, tutti coloro che non c’entrano e che soli possono raccoglie e narrare una storia di rivalsa e di passato vivo. 

La narrazione procede per flashback e spezzoni, mentre il giovane giornalista sembra montare dal vivo, in un set cinematografico, la sequenza delle scene. Anche grazie a questo espediente la drammaturgia, dello stesso Pumo, resiste alla retorica della narrazione dell’olocausto, mantenendo la tragedia europea come sfondo e contesto delle impulsive scelte di un giovane uomo che, se non può comprendere l’assurdità del mondo in cui si ritrova, capisce molto presto di doversi difendere con tutti i mezzi a disposizione. Del campo di concentramento vediamo soltanto spiragli, brevi frame, suoni, attraverso gli occhi del protagonista.

Foto Tania Bozzaelli

La resa scenica dello spettacolo contribuisce alla frammentazione del racconto e argina eventuali carenze di una recitazione istintiva, semplice, fortemente emotiva. In particolare, il disegno luci di Federico Millimaci, di notevole precisione e complessità, contribuisce alla creazione di spazialità differenti e i salti temporali acquistano chiarezza. Un faro manovrato in scena dai due attori si fa master da set cinematografico, seguipersone al confine, lampada da interrogatorio. Strisce di luce tagliano di volta in volta la superficie del palco delimitando l’azione e portandoci dal treno merci polacco a una Provenza e un mare soltanto sognati. A segnalare il salto cronologico interviene di volta in volta un oggetto, portatore di memoria, e un rallenty di luce e suono che congela momentaneamente il corpo degli attori.

Anche il materiale video in presa diretta, se pur in una tecnica elementare, risulta funzionale allo sviluppo drammaturgico e performativo della storia: la presenza della telecamera rende accessibile la dinamica del ring ovviandone l’aspetto fittizio e portando alla creazione di un ambiente pluridimensionale e metaforico, in grado di ricostruire la psicologia del personaggio. La belva giudea si presenta, a questo stadio, come un lavoro che, soprattutto, ha bisogno di pubblico. Uno spettacolo ancora timido ma che non nasconde le possibilità di una scena frammentaria, complessa, una regia – quella di Gabriele Colferai – e un’impostazione scenotecnica di grande impatto e modernità.

Forte è anche la critica alla degenerazione capitalistica e mediale dello sport. È in America, infatti, la grande America dove perfino i “negri” possono allenare alla boxe, che lo sport soccombe con i suoi valori alle regole minacciose della spettacolarità e della scommessa. Ogni round è un nuovo sacrificio, guidato soltanto dall’amore e da una promessa di vita. Lo sport assume qui la forma della redenzione così come quella della sopravvivenza. 75 incontri vinti K.O., 75 volti sfigurati perseguitano la confessione di Hertzo, macchiano indelebilmente quell'”arte nobile” che ora diventa metafora della lotta disperata per la vita, là dove l’importante non è partecipare ma vincere, vincere e basta, ad ogni costo.

Angela Forti

Visto all’ OFf OFF Theatre, febbraio 2020

La belva giudea
Di Gianpiero Pumo
Con GIanpiero Pumo e Filippo Panigazzi
Regia Gabriele Colferai
Luci Federico Millimaci | Foto Tania Boazzelli Disegno | Voice Over William Angiuli
Prodotto da Dogma Theatre Company |Col sostegno del Centro di Cultura Ebraica
Lo spettacolo è patrocinato da Coni, Comunità Ebraica di Roma e Federazione Pugilistica Italiana

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Angela Forti
Angela Forti
Angela Forti, di La Spezia, 1998. Nel 2021 si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza Università di Roma, con un percorso di studi incentrato sulle arti performative contemporanee. Frequenta il master in Innovation and Organization of Culture and the Arts all’università di Bologna. Nel 2019 consegue il diploma Animateria, corso di formazione per operatore esperto nelle tecniche e nei linguaggi del teatro di figura. Studia pianoforte e teoria musicale, prima al Conservatorio G. Puccini di La Spezia, poi al Santa Cecilia di Roma. Inizia a occuparsi di critica musicale per il Conservatorio Puccini, con il Maestro Giovanni Tasso; all'università inizia il percorso nella critica teatrale con i laboratori tenuti da Sergio Lo Gatto e Simone Nebbia e scrivendo, poi, per le riviste Paneacquaculture, Le Nottole di Minerva, Animatazine, La Falena. Scrive per Teatro e Critica da luglio 2019. Fa parte della compagnia Hombre Collettivo, che si occupa di teatro visuale e teatro d’oggetti/di figura (Casa Nostra 2021, Alle Armi 2023).

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