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Il cantico, un dramma teatrale sull’immortalità, dio e la passione

Il Cantico dei Cantici letto e analizzato in termini letterari e teologici, un approfondimento e una riflessione sulla raccolta poetica ebraica del I secolo a.c.

Definizione e interpretazioni

Il Cantico dei Cantici è un enigma in forma poetica. Esso è una raccolta di brevi composizioni in versi di lingua ebraica che risale presumibilmente al I secolo a.C. e che ha subito pesanti revisioni nel corso del tempo, per poi confluire nell’Antico Testamento. È tutt’oggi impossibile ricostruire la versione originaria e, dunque, la sua forma autentica. L’incertezza della costituzione testuale e i molteplici rimaneggiamenti hanno portato all’accumulo sul Cantico di numerose interpretazioni.

Possiamo isolare tre letture rappresentative. La prima è l’interpretazione letterale, che spiega il Cantico rinunciando a ogni senso figurato. Sulla base di questa esegesi, il testo sarebbe un canto nuziale in onore di un uomo e una donna, che si scambiano promesse d’amore e si abbandonano spesso al piacere del sesso, descritto in maniera esplicita e spinta (14.4: «Quando il mio diletto spinse dentro il suo sesso / le mie viscere ebbero un fremito»). Non ci sarebbe perciò alcun significato recondito da cercare nel Cantico, e tanto meno una dimensione sacrale. Se esso è finito nell’Antico Testamento, è stato per un bizzarro scherzo della storia e del destino.

Contraltare all’interpretazione letterale è quella mistica o allegorica, di cui sono campioni sono Origene e Gregorio di Nissa. Ogni verso del Cantico va inteso come un’allusione a un’esperienza spirituale, come l’amore che il Dio rivolge alla Chiesa dei suoi fedeli. Il principio è applicato persino ai dettagli sensuali. Per ricordare un esempio celebre, il versetto in cui la donna dice di essere «nera ma bella» di 2.5 (che però nella versione più vicina all’originale riporta l’aggettivo di “graziosa”) è stato interpretato come un riferimento all’individuo che è “bello” per la sua fede in Dio, benché sporco del “nero” del peccato. Si tratta di una sovra-interpretazione, perché il contesto fa pensare alla descrizione della bellezza di un corpo femminile dalla carnagione scura, peraltro basata sull’imitazione del precedente di Teocrito (Idillio 10.26-27: «Bombice graziosa, tutti ti chiamano Sira, / magra, bruciata dal sole – io solo ti chiamo colore di miele»).

A mezzo di questi estremi, possiamo identificare l’interpretazione di natura poetica. Il Cantico è un testo che non “significa” nulla, dunque che non è riducibile – per usare le parole di Paolo di Tarso (Seconda lettera ai Corinzi) – né alla lettera che uccide, né a un presunto spirito che vivifica. Esso andrebbe interpretato, piuttosto, come un’opera di poesia, la cui bellezza sta proprio nei misteri che si nascondono tra le pieghe dei versi. Il Cantico fa del resto spesso allusioni al fatto che, forse, lo sposo e la sposa non si incontrano per davvero, ma si uniscono in sogno e si struggono per un loro futuro incontro (10.1: «Nel mio letto, di notte / cercavo chi ama l’anima mia / lo cercavo e non lo trovavo»). Gli amanti si chiamano nell’assenza, o immaginano con grande trasporto fisico un amplesso che ancora non c’è. La sacralità di questo testo risiederebbe, pertanto e per paradosso, nella rivelazione di un universo vuoto di dio. Come gli innamorati desiderano il corpo e i baci di un amante immaginario, così l’umanità cerca una divinità che forse è morta, o non è mai esistita.

Pregi e difetti delle tre letture

Ciascuna di queste interpretazioni è degna di essere presa in considerazione. Le tre letture hanno però anche specifici punti di debolezza. L’interpretazione letterale ha il rischio di impoverire la complessità di alcuni versi che non sembrano raccontare solo l’amore fisico, o almeno che lo descrivono alludendo al contempo a qualcosa di più profondo. Valga quale unico esempio l’estratto 10.4, in cui la donna dice di condurre l’uomo che ama «nella casa di mia madre / nella stanza di colei che mi ha partorito». Al di là della lettera, un discorso più complesso è forse all’opera. L’uomo e la donna che fanno l’amore rinascono nell’intimità a nuova vita, come è confermato dall’estratto successivo (21.5). Qui la sposa dichiara, dopo aver goduto con lo sposo sotto a un melo, che «lì ti ho partorito, / lì ti ha generato amore»: gli amanti scoprono così di essere anche genitori e figli di se stessi. Tutto ciò viene però perso con la rinuncia preventiva a qualunque senso figurato e la convinzione che il Cantico sia solo una storia di sesso, di carne che sussulta sotto l’amplesso.

Ma all’estremismo opposto, l’interpretazione allegorica o mistica neutralizza la dimensione fisica e sensuale che il testo invece riporta con evidenza. Se infatti il sesso e i baci, gli odori e i genitali, gli orgasmi e l’attrazione dei corpi fossero solo modi figurati di parlare di Dio, allora questi dettagli verrebbero indirettamente messi in secondo piano. È però arduo pensare che i particolari più hard e che fanno vedere la penetrazione sessuale siano algide astrazioni. L’eccesso di simbolizzazione gela i moti della carne e trova una teologia dove è invece il corpo a dominare la scena. Un altro rischio dell’interpretazione mistica o allegorica è, inoltre, quello dell’arbitrio esegetico. I già ricordati Origene e Gregorio di Nissa giungono, del resto, nei loro commentari, ad alcune originali idee, che tuttavia possono essere accolte solo a prezzo della forzatura del contenuto del Cantico e ricorrendo ad altri passi biblici. La loro esegesi ci dice dunque di più sul pensiero dei Padri della Chiesa, che non sull’enigma di questo testo sensuale e difficile.

Infine, l’interpretazione poetica – più plausibile delle due concorrenti proprio per la sua ricerca di un equilibrio tra lettera e spirito, carne e teologia – ha forse il limite di identificare il sacro con l’assenza del divino. Una divinità è dopo tutto richiamata e lodata in 21.5-7: si tratta di Eros, i cui dardi «sono fiamme di un dio» che accendono d’amore gli uomini e le donne, portando grandi benefici. Si è già visto che gli amanti raggiungono grazie all’intimità sessuale una seconda nascita, dunque vincono la caducità che sarebbe loro destinata dalla culla e mostrano coi loro corpi che «Amore è più forte di Morte». Il finale di 21.5-7 aggiunge anche che chi consacrerà a questo dio tutta la sua vita «la salverà e non la perderà». Non è chiaro se tale citazione indichi che Eros renda gli amanti immortali o se faccia in mondo che la loro esistenza non vada sprecata e procuri agli amanti la felicità. In entrambi i casi, essa documenta nel Cantico la presenza di una teologia erotica. Amore e sesso o conferiscono immortalità, o rendono prossimi a una beata eternità. 

Il cantico come opera drammatica-edonistica

Con la debita cautela, nella consapevolezza che anche questa proposta avrà i suoi limiti e problemi, vorrei allora ipotizzare un’esegesi che raccoglie i pregi delle tre interpretazioni e che chiamerei “drammatica-edonistica”. Forse il Cantico è, da un lato, un dramma teatrale che racconta la ricerca dell’immortalità e di un dio, o – in termini laici – di un assoluto, che trova la sua manifestazione nei corpi incendiati dalla passione erotica. Riprendo tale suggestione da un’intuizione geniale di Origene, che nel suo commentario sostiene che il Cantico rappresenta i personaggi dello sposo e della sposa, ma anche altre figure (le amiche e gli amici degli amanti, le guardie della città, e via dicendo), secondo un andamento appunto drammatico. Questo dettaglio tutelerebbe il pregio dell’interpretazione poetica, perché pone l’accento più sulla ricerca di qualcosa che manca, che sul possesso o raggiungimento definitivo del bene. L’amore e il sacro sono come il sesso, o come il teatro: esperienze benefiche che si raggiungono insieme, nell’intimità e nella relazione reciproca che si fortifica ogni giorno, piuttosto che nella solitudine e nella forza d’animo del singolo.

Dall’altro lato, il Cantico è forse anche una raccolta di poesie che parla della sacralità del piacere. Il sesso è, infatti, l’esperienza fisica più piacevole che gli uomini e le donne possono provare. Ora, nel fare di Eros un dio e nel rappresentare drammaticamente la ricerca di una nuova nascita, del sacro, di una sorta di immortalità, forse il Cantico afferma qualcosa di unico e paradossale. Esso sostiene che cercare il divino è piacevole quanto l’atto sessuale, e viceversa che il godimento dei corpi innamorati è l’esperienza fisica che più avvicina al benessere della divinità. Ci troviamo dunque di fronte a un edonismo religioso. Il Cantico identifica il bene con il piacere e, attraverso la lettera, descrive chiaramente l’importanza della sessualità per la vita, ma attraverso il senso spirituale e figurato allude a come si possa trovare un orgasmo anche nel contatto col divino. Se un dio esiste, esso è come Eros: ci persuade a godere sia nello spirito che nel corpo, senza creare artificiali cesure tra questi due piani che di norma edonisti e sacerdoti tendono invece a separare.

Spirito e carne, divino e umano, lettera e allegoria si trovano così a essere uniti grazie al comune denominatore del piacere. Ma poiché sappiamo molto poco sulla vera natura dei concetti che sono stati richiamati (amore, dio, godimento, ecc.), il testo resta ancora un enigma, perché lascia avvolti in un alone misterioso e in parte indicibile gran parte dei suoi contenuti. Il Cantico dei Cantici è forse dunque un’opera di poesia e teologia che balbetta sul mistero dei misteri di Eros.

Enrico Piergiacomi

Leggi anche: Il Cantico dei Cantici. Da Roberto Latini, all’amore

[L’edizione del Cantico a cui si fa riferimento in questo articolo è quella a cura di Giovanni Garbini, Cantico dei Cantici, Brescia, Paideia, 1992. Si menzionano anche queste tre opere:

  1. Claudio Moreschini (a cura di), Gregorio di Nissa: Omelie sul «Cantico dei Cantici», Roma, Città Nuova, 1996;
  2. Manlio Simonetti (a cura di), Origene: Commento al «Cantico dei Cantici», Roma, Città Nuova, 1976;
  3. Onofrio Vox (a cura di), Carmi di Teocrito e dei poeti bucolici greci minori, Torino, UTET, 1997]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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