Valerio Binasco dirige un Arlecchino servitore di due padroni depurato dell’immaginario strehleriano. Visto al Teatro Argentina, ancora in tournée, con Natalino Balasso. Recensione
Il delicato gioco di fondali praticabili anima un palcoscenico ridotto all’essenziale: tra pareti invisibili e porte che sanciscono ambienti interamente a vista, pochi arredi scelti ci trasportano senza sforzo ai salotti zeppi e sfarzosi delle case anni ’50, in quei salotti da commedia all’italiana in bianco e nero o in primo technicolor. Fino alla locanda, una bettola con tavolini di ferro come ce ne sono in tutte le città di provincia, in tutti i quartieri popolari. Siamo a Venezia, ma non ci costa molto immaginarci ora a Napoli, ora nella casa di un boss siciliano, ora in una Lombardia da poco industrializzata. La provincia, con tutti i suoi cliché e le vite già viste e i riti quotidiani. L’uomo ricco e l’uomo povero in un incontro/scontro senza tempo. Le ragioni del cuore che soccombono a quelle del denaro, così come il desiderio di libertà che solo là, nella provincia, sembra poter regnare davvero per una volta, una volta sola nella storia.
Fa un effetto strano vedere quel titolo, Arlecchino servitore di due padroni, la punta di diamante dello Strehler regista, privato dell’abito a pezze colorate e della maschera nera. Una bella sfida, l’avranno pensato in molti. Eppure in questo come in pochi recenti casi Valerio Binasco riesce finalmente a imporre senza remore la propria autorialità. Nel tentativo rischioso di lasciare da parte Strehler e di risalire al Goldoni che è testo scritto, parola ragionata. Se Strehler conferiva nuova dignità scenica a una forma spettacolare bistrattata, Binasco torna a indagare la vera riforma goldoniana – non quella che l’autore teorizza nei suoi mémoires, ma quella che si fonda su un lavoro lento e preciso di traduzione della pratica scenica, di stesura a più riprese, di riempimento del canovaccio. Una scrittura densa che non è semplice rincorrere nella prosa fisica e dal dialetto prepotente di cui siamo abituati a vederla vestita, ma che in questa messinscena trova una nuova limpidezza.
Il ruolo di Arlecchino viene completamente ridimensionato. Un Arlecchino improbabile, Natalino Balasso, robusto, impacciato. Sempre affamato, certo, sempre affaticato dalle corse e dal gioco dei due padroni. Ma anche ingenuo, tenero nell’espressione ora preoccupata, ora dispiaciuta. L’anima dello zanni vive nelle alterazioni della sua voce verso l’acuto e lo strillo del bambino capriccioso, nelle indimenticabili gag che qui sono giocate nel senso della parodia e fondate su un utilizzo preciso e puntuale della mimica, che si appoggiano ai bisticci linguistici e al vorticare della giostra dei personaggi. In quest’impostazione trovano nuovo spazio anche i ruoli secondari, esaltati dal dinamismo di un cast affiatato e perfettamente distribuito, dalla cura riservata anche alle interpretazioni potenzialmente più strette dall’abito del ruolo. A guadagnarci sono soprattutto Silvio, impettito e volubile, esilarante nell’interpretazione di Denis Fasolo, e il Florindo di Gianmaria Martini. Quest’ultimo, brutalmente spogliato degli abiti dell’innamorato sognante e sospiroso, assume qui un carattere più forte, impaziente, intransigente, che riesce a lasciarci interdetti.
La condizione della donna è, qui, particolarmente affascinante. I tre personaggi femminili – Beatrice (Elisabetta Mazzullo), Clarice (Elena Gigliotti) e Smeraldina (Carolina Leporatti) – disegnano la trama di una femminilità complessa, affatto scontata. Binasco affonda in queste tre interpretazioni, lungi dallo scadere nel femminismo ostentato, ma donando spazio allo svolgersi delle personalità che le tre attrici dipingono con grande delicatezza. Disperata, Beatrice, spaventata, disarmata nei confronti del mondo. Titubante e costretta tra mura impermeabili Clarice, saggia e insubordinata Smeraldina. Tre donne in cerca della propria libertà. Sia essa un abito da uomo, l’amore di un marito o il palcoscenico di un teatro.
“Beh, per essere Goldoni…”, si sente bisbigliare in platea alla fine dello spettacolo. Un occhio di riguardo questa regia lo pone non tanto su una presunta modernità intellettuale dell’autore Goldoni, quanto sullo specchio, il teatro, di un mondo taciuto dalla scuola, dai libri, dal senso comune, che per fortuna studiosi del calibro di Ferdinando Taviani intervengono a ricordarci. Un mondo di diritti da difendere e di ruoli da smentire. Un mondo di attori e attrici colti, di donne e uomini che studiano e scrivono; ben distante da quell’immagine da cartolina, tanto cara alla storiografia, in cui poveri disperati fanno teatro improvvisando, intrattenendo con partiture fisiche e verbali basse, volgari, prêt-à-porter. E qui, di nuovo, troviamo il fascino che non è figlio del talento e della qualità istrionica, ma prezioso risultato dell’arte e della bravura dell’attore.
Una farsa, certo, ma che proprio in quanto tale non teme di affondare spietata nel dolore, che non si preoccupa di camuffare l’umanità dei suoi personaggi. Perché fa male, l’urlo fuori scena, lo schiocco secco di quelle cinghiate che il padre padrone, non visto dalla platea, riserva alla figlia Clarice; come quelle con cui Florindo finge di colpire Arlecchino, prostrato ai piedi del padrone. Fa male la disperazione dei due innamorati nel momento in cui entrambi si convincono l’uno della morte dell’altro. La commedia riprende senza farsi attendere, rassicurante. Ma quegli sprazzi di dolore appena intravisto rimangono aggrappati agli occhi, lasciano pensare. Ci lasciano liberi di pensare che non è così scontato, tutto questo grande discorso. Sta tutta lì la commedia, in un gioco di sguardi, in un segreto da mantenere, nell’amore assurdo, l’amore a tutti i costi, perfino nella risata che sincera, incontenibile, scappa all’attore sul palcoscenico. La commedia dei destini umani, che si rincorrono per i vicoli ciechi di un destino qualunque. Quella che forse, a ben vedere, non perdona nessuno ma che riesce sempre, alla fine, a fare tana libera tutti.
Angela Forti
Roma, Teatro Argentina, Febbraio 2020
Tournée. Date in calendario:
25 febbraio 2020 | Teatro Puccini | Merano (BZ)
26 febbraio 2020 | Teatro Cristallo | Bolzano
28 febbraio – 1 marzo 2020 | Teatro Fraschini | Pavia
4 – 8 marzo 2020 | Teatro Sociale | Brescia
11 – 15 marzo 2020 | Teatro Toniolo | Mestre (VE)
18 – 19 marzo 2020 | Teatro Comunale | Vicenza
20 marzo 2020 | Teatro Russolo | Portogruaro (VE)
23 – 24 marzo 2020 | Teatro Civico | La Spezia
26 – 29 marzo 2020 | Teatro Delle Muse | Ancona
31 marzo – 5 aprile 2020 | Teatro Bellini | Napoli
Arlecchino servitore di due padroni
di Carlo Goldoni
regia Valerio Binasco
con (in o. a.) Natalino Balasso, Fabrizio Contri
Michele Di Mauro, Lucio De Francesco, Denis Fasolo
Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati
Dal 18 febbraio il ruolo del secondo servitore, interpretato dall’attore Lucio De Francesco, a causa di una sua indisposizione, sarà ridistribuito tra gli altri interpeti.
orari spettacolo
prima ore 21.00
martedì e venerdì ore 21.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
lunedì riposo
durata complessiva 2 ore e 30 circa
(1 ora e 15′ prima parte – intervallo – 1 ora e 10′ seconda parte)