«Recensione di Wasted, scritto da Kate Tempest e diretto da Giorgina Pi. Una produzione Ert – Emilia Romagna Teatro Fondazione
Siamo tutti wasted: sprecati, gettati via in un angolo dei nostri trenta/quarantanni, irrisolti, strafatti di dipendenze e incapaci di uscire dal nostro bozzolo. Ci accontentiamo senza accontentarci, perennemente infelici e aggrappati al passato, quello sì che non è terra straniera, anche quando è mitizzato, anche quando i contorni non sono più netti e non rimangono che le sensazioni. Kate Tempest, con Wasted, ha il merito di aver trovato una lingua per raccontare una generazione frantumata dall’incapacità di tentare una profonda messa in crisi del reale: sono personaggi quasi cechoviani, ingabbiati in un presente senza uscita e con lo sguardo rivolto al passato; il colpo di coda dovrà essere di qualcun altro, una presa di posizione dell’autrice che con una voce morale avrà il coraggio di costruire un nuovo approccio.
Giorgina Pi ha ancora una volta il merito di far scoprire al pubblico italiano un’altra voce della drammaturgia britannica, dopo Caryl Churchill, un’altra autrice d’oltremanica. In questo caso però parliamo di una voce emergente, Tempest è una londinese di trentacinque anni, artista poliedrica in grado di passare dalla prosa alla poesia, al rap.
E non è un caso infatti se la relazione tra gli interpreti, i loro personaggi e la platea cambi diverse volte alternando la frontalità dei monologhi (recitati al microfono) – dunque con una visione postdrammatica della scena – al dialogo, ovvero alla ricostituzione della rappresentazione classicamente intesa, figlia di una concezione, quella inglese, spesso ancora fedele alla cura dei personaggi e alle storie in cui collocarle.
Tre ragazzi, amici dall’adolescenza, Danny, Ted e Charlie, forse trentenni o poco più, si ritrovano all’anniversario di morte di un caro amico. Danny e Charlie hanno anche una relazione amorosa che non decolla, che non riesce a passare a un livello successivo, di responsabilità reciproca. I tre amici portano sulle spalle racconti, sorrisi e storie, si cullano nei ricordi di quando da giovanissimi «tenevano in alto le canne nella penombra della festa come fossero/fari antinebbia». E poi le risse, l’erba scadente fumata sull’autobus, quando tutto era «romantico e autentico» (naturalmente viene in mente Trainspotting); finché gli anni sono passati, «i sogni sono stati schiacciati», la vita adulta è arrivata a manifestarsi con tutta la sua violenza e loro semplicemente non si sono fatti trovare pronti. Tempest li fotografa nel mezzo di questa crisi quasi dando loro la possibilità di uscirne, facendo intravedere una possibile luce fuori dal tunnel che però necessità di impegno e fatica.
La regia di Giorgina Pi, che fa uso del’efficace traduzione di Riccardo Duranti, non definisce in termini realistici l’ambientazione e la città a cui il testo spesso fa riferimento (la Londra dell’autrice). Potrebbe essere una qualunque metropoli occidentale, anche perché la città in cui i tre vivevano la propria ribellione giovanile, era più che altro una città interiore, una geografia degli stati d’animo e se pensiamo all’involuzione sociale che un luogo come Roma (la compagnia, Blumotion è nata negli spazi dell’Angelo Mai) ha subìto nell’ultimo decennio e mezzo, ecco che il testo della trentenne inglese diventa facilmente rappresentativo di numerose geografie del nuovo millennio.
È felice dunque l’intuizione registica che sostituisce la panchina, attorno alla quale l’autrice fa incontrare gli amici, con la sezione ritmica di una band, quella in cui suonavano da ragazzi. In scena c’è la batteria, gli amplificatori, un paio di chitarre; l’albero, simbolo dell’amicizia con l’amico scomparso, è un’ombra da proiettare quando ce n’è bisogno.
È un luogo del ricordo quello immaginato da Giorgina Pi e attraversato dalle luci di Andrea Gallo, nel quale è la musica suonata dal vivo a definire i contorni: rock e commovente, con l’apertura affidata a un video b/n in cui i tre interpretano la celebre The end of the world cantata per la prima volta da Skeeter Davis nel ’62 e la chiusura che vede Gabriele Portoghese intonare una versione con chitarra elettrica de La donna cannone. L’attore milanese d’altronde segna profondamente lo spettacolo con il suo approccio recitativo nervoso, come sempre originale, grazie a una voce ricca di torsioni cromatiche e quella capacità di tenere il personaggio su un filo di pericolosa follia. Come d’altronde è delicata ed emozionante la fragilità con cui Sylvia De Fanti tratteggia la sua giovane donna, bisognosa di rivalsa, e di impegno, mostra nel proprio lavoro di insegnante di una scuola di periferia un motivo di rivalsa. E poi il Danny di Xhulio Petushi, forse il più difficile da rappresentare per la mediocrità con cui viene descritto dall’autrice; è antipatico ma dentro ha un vuoto, una debolezza, ben visibile negli occhi dell’interprete.
Il finale del testo rischia di essere letto per eccesso di retorica, come una sorta di pubblicità progresso anti depressione, eppure, ancora una volta, Tempest coglie nel segno: nella necessità di costruire, di prendersi cura della vita mettendo fuori la testa da quella nebbia di nichilismo in cui spesso rischiamo di addormentarci. «Lasciatevi chiamare da quella cosa che vi grida dentro» recita il coro finale; all’improvviso con un’invenzione registica fanno il loro ingresso quattro figure: è proprio il nostro passato a ricordarci che la vita non va sprecata; non abbiate paura, il dolore e i ricordi sono a portata di mano.
Andrea Pocosgnich
Roma, Teatro India. 14 – 26 gennaio 2020
Wasted
di Kate Tempest
traduzione Riccardo Duranti
uno spettacolo di Bluemotion
ideazione e regia Giorgina Pi
con Sylvia De Fanti, Xhulio Petushi, Gabriele Portoghese
durata 80′