Recensione. Macbeth, le cose nascoste, di Carmelo Rifici e Angela Demattè, ha debuttato a Lac (Lugano Arte e Cultura)
Più di un anno e mezzo di gestazione, un cast artistico e tecnico composto da decine di persone, la produzione di Lugano Arte e Cultura in coproduzione con altri tre importanti soggetti pubblici (Metastasio, Ert e Tpe), le collaborazioni con il Centro Santa Cristina e il Piccolo di Milano per scene e costumi; Carmelo Rifici e Angela Demattè, autori di questo Macbeth, le cose nascoste, hanno fatto ricorso anche a una équipe scientifica che potesse occuparsi di trovare relazioni tra il testo shakespeariano e le tensioni e pratiche della psicoanalisi. Questa è d’altronde l’intuizione più felice dello spettacolo, ovvero la possibilità di mettere a nudo le biografie degli attori, non per un mero spirito voyeuristico che avrebbe come unico obiettivo quello di stimolare una curiosità morbosa, ma con il fine di scandagliare sentimenti e vissuti personali grazie ai quali la traiettoria del Macbeth si innesta quasi naturalmente nel piano drammaturgico. Attraverso il percorso dialogico con lo psicanalista emergono i punti di contatto tra il personaggio del Macbeth e l’attore sottoposto alla terapia, oppure vengono esplose alcune domande chiave sull’ammissibilità morale delle scelte del barone di Glamis. La seduta di psicoanalisi è, dunque, il motore di tutto in una collocazione spazio-temporale duplice. Nella prima parte dello spettacolo gli attori dialogano infatti, dal palcoscenico, con il dottor Giuseppe Lombardi, e il dialogo avviene con un video registrato (sul fondale uno schermo di proiezione orizzontale), nel quale successivamente appare anche l’attore sulla poltrona del paziente nello studio, indicando così allo spettatore lo sfasamento di realtà che ha dato vita alla seduta.
Leggendo il diario del lungo percorso di ricerca curato da Angela Demattè (preziosa testimonianza, edita insieme al testo di cui la drammaturgia finale si compone), o semplicemente conoscendo alcuni degli attori, capiamo che quelle biografie non sono poi tanto romanzate, o, quantomeno, originano da un nucleo di verità esistente.
In un passo del diario, una lettera, scritta dagli autori del progetto agli attori, ben dimostra la temperatura della questione, il livello di rischio a cui il gruppo aveva accettato di sottoporsi: «[…] Da qualche tempo, dunque, stiamo lavorando con lo psicoanalista Giuseppe Lombardi e con Luciana Vigato per capire la direzione di questo lavoro. Abbiamo bisogno, ora, di voi per continuare questa ricerca. I giorni 8 e 9 dicembre saremo ospiti nello studio […] del dottor Lombardi. La richiesta che vi facciamo è di essere presenti in uno dei due giorni. È necessaria, da parte vostra, una grande disponibilità nel mettere in gioco la vostra parte più personale. Sarà, cioè, un viaggio che ciascuno di noi farà, singolarmente, sotto la guida di Giuseppe, per far trapelare ciò che il racconto archetipico di Shakespeare smuove nel profondo. […]».
L’idea di Demattè e Rifici si muove nel solco dell’attuale tendenza europea che sembra non poter prescindere dall’utilizzo esplicito di materiale autobiografico. Le “cose nascoste” che vengono date in pasto agli spettatori sono quelle piccole e profonde appartenenti alle vite degli interpreti; ma naturalmente la questione relativa alla verità conta fino a un certo punto, è l’idea di autobiografismo a perturbare e soprattutto a costituire il momento di innesco con la tragedia shakespeariana.
Quando sono seduti sulle sedie (quelle pieghevoli da set cinematografico) gli attori uomini sono Macbeth (tranne Alessandro Bandini, che interpreta tra gli altri Fleance) e appaiono vestiti con una maglia nera e dei pantaloni corti al ginocchio, anche calzettoni e scarpe sono nere. Come d’altronde è nera la scena, il pavimento che di tanto in tanto viene irrigato di acqua e il fondale che dal nero muta verso il cobalto a seconda delle costruzioni luminose di Gianni Staropoli.
È in questa situazione di correlazione con il protagonista della tragedia che gli interpreti debbono sporcarsi le mani con il proprio passato, quelle mani che rimarranno rosse del sangue di Re Duncan e delle sue guardie. Ascoltiamo chi racconta la povertà della famiglia di origine, lo sconcerto nelle reazioni dei genitori dopo la scelta dell’accademia teatrale e poi quel balzo per migliorare la propria condizione sociale – è lo stesso balzo che tenta Macbeth progettando l’omicidio del Re? – C’è poi chi combatte il senso di colpa per la difficoltà nel mantenere i valori di una tradizione contadina all’interno di una quotidianità urbana che a quei valori spesso si oppone e c’è chi ha a che fare con genitori ammalati. I racconti delle interpreti (Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini splendide anche anche le loro streghe e Lady Macbeth) devono scontrarsi con gli stereotipi sociali: la scelta di non fare figli, l’incapacità di gestire la violenza altrui, la presa di coscienza di un potere seduttivo in grado di cambiare lo stato delle cose.
Questa prima parte vive una difficoltà teatrale non indifferente: le attrici e gli attori devono ricercare un piano di recitazione che si stabilisca su un livello di sincerità altissimo, ma allo stesso tempo hanno a che fare con uno spazio grande, un pubblico lontano (l’ampia e fredda sala del Lac non aiuta, ma d’altronde non sarà più facile nella tournée con i teatri all’italiana) e dunque un’amplificazione vocale che tende ad allontanare ancora di più la scena. Ecco allora che le interpretazioni non sono allineate negli approcci: Angelo Di Genio, ad esempio, rispetto agli altri gioca maggiormente di mestiere lasciando trapelare tecnica e talento, rendendoli purtroppo visibili anche quando ci sarebbe bisogno di un denudamento totale. Altri, Christian La Rosa su tutti, riescono a sintetizzare con una certa efficacia l’approccio estremamente terrigno di Tindaro Granata e la maschera tecnica di Di Genio.
Lo spettacolo cresce di intensità lentamente, in parallelo all’adesione al testo seicentesco: la scena fredda e statica dell’analisi lascia il posto al mistero, alla fascinazione teatrale, fino al ritorno in scena di Fleance, un’apparizione mitologica, completamente dorato, come un Dio, poi diverrà un agnello sacrificale, appeso a testa in giù proprio come il maiale di cui Granata parlava raccontando l’estrazione contadina.
Lo spettacolo si nutre di un piano simbolico molto complesso e affascinante, come la felice intuizione di assimilare le streghe alla figura di Ecate, alla quale viene lasciata la chiusura del dramma attraverso una sorta di preghiera al contrario, nella quale “colei che detiene le chiavi del cosmo” si rivolge all’essere umano ammonendolo di coltivare il presente, «non ci seguire uomo, stai nel tuo presente di sogni». E per nutrire il presente bisogna farne risuonare le domande sulla scena, questo sembra il cuore pulsante di un Macbeth utilizzato, da Demattè e Rifici, come ipertesto con cui leggere l’uomo di oggi. Bandini nella sua seduta evidenzia: «[…] il balzo che Macbeth fa vale più di tutto il mondo messo insieme. Perché lui vive fino in fondo… è una specie di amore il suo… verso questo buio che vuole toccare. E se per farlo deve schiantarsi contro un muro lo fa senza pensarci troppo. Ecco io penso che la mia generazione così bloccata, così incapace di amare fino in fondo una cosa, di arrivare a uccidere perché si ama veramente una cosa. E invece ce ne stiamo buoni buoni… perché così ci hanno detto di fare.»
Andrea Pocosgnich
Gennaio 2020, LAC Lugano Arte e Cultura
Tournée e prossime date in calendario:
05–08.03.2020
Teatro Metastasio, Prato
13–15.03.2020
Teatro della tosse, Genova
19–22.03.2020
Teatro Astra, Torino
24.03.2020
Teatro Openjobmetis, Varese
28.03.2020
Teatro Comunale, Pergine (Trento)
02–05.04.2020
Teatro Storchi, Modena
08–09.04.2020
Teatro Verdi, Padova
Macbeth, le cose nascoste
di Angela Demattè e Carmelo Rifici
tratto dall’opera di William Shakespeare
dramaturg Simona Gonella
progetto e regia Carmelo Rifici
équipe scientifica Dottore Psicoanalista Giuseppe Lombardi e Dottoressa Psicoanalista Luciana Vigato
con (in ordine alfabetico) Alessandro Bandini, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Leda Kreider, Christian La Rosa, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini
scene Paolo Di Benedetto
costumi Margherita Baldoni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Gianni Staropoli
video Piritta Martikainen
assistente alla regia Ugo Fiore
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
in coproduzione con Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina
partner tecnico Lugano Center GuestHouse