Dal romanzo del ’42 Le braci di Sàndor Màrai, uno spettacolo con Renato Carpentieri adattato e diretto da Laura Angiulli. Recensione
Un salotto di carta da parati a righine verdi. Una stufa, un tavolino, una porta. Lenzuola bianche coprono come sudari tre poltrone rosso sangue. Nuove, perfette. Troppo nuove, troppo precise per i presunti quarant’anni della loro attesa. Due uomini ormai anziani, ingessati, si incontrano per una resa dei conti. Un duello a suon di massime e di vita vissuta appresa memorizzata. Intuiamo una guerra, qualcosa di grosso, che scuote l’Europa. Prima? Seconda guerra mondiale?
Le braci, o meglio Le candele bruciano fino in fondo, dell’ungherese Sàndor Màrai, narra di due uomini, due soldati, legati dall’amicizia e dall’amore per la stessa donna, Cristina. Quell’amore proibito, silenzioso, che sarà poi l’elemento di rottura, segnerà l’insanabile distacco tra i tre personaggi. Erik, soldato ligio, fedele all’impegno e al giuramento, docilmente servo dei valori della patria. Konrad, passionale, istintivo, stretto nelle maglie della divisa, condivide con Cristina, moglie di Erik, il sogno del viaggio e la passione per Chopin (una sorta di Affinità elettive 4 meno 1). In seguito a quello che sembra essere il piano fallito dell’omicidio di Erik da parte dell’amico e della moglie, Konrad fugge senza preavviso, per non tornare più. Il rapporto tra Erik e la moglie, ora che è tutto è chiaro, diviene insanabile. I due si dividono e lei dopo pochi anni muore.
Li troviamo, Erik e Konrad, ormai anziani, in un ultimo atteso faccia a faccia al Piccolo Teatro Eliseo per l’adattamento di Fulvio Calise e la drammaturgia e regia di Laura Angiulli. Renato Carpentieri, nel soldato Erik, è suadente, irresistibile nel vestito gessato, una cartolina in bianco e nero dal vecchio teatro dei grandi attori. Quelli depositari di tecniche antiche e tradizioni perdute. Un’impostazione autorevole e monumentale che è superata, forse, ma che a volte sa ancora scaldare un po’ il cuore. Stefano Jotti, un Konrad scostante e reticente, è una statua di cera, impassibile. Nemmeno la notizia della morte di Cristina, amante dell’uno e moglie dell’altro, sembra scalfirlo. Stanco di passo e di sentimenti, si sposta con calma da una poltrona all’altra, sguardo aggrottato fisso più spesso sul pubblico che non sul suo interlocutore. Le emozioni si mostrano brevemente e appena nell’espressione del suo volto, nell’incrinarsi di un sopracciglio, nell’inclinazione degli occhi, dal basso verso l’alto. Ma a questi volti pallidi, rugosi, altezzosi manca una ribalta. Il piazzato infedele taglia di ombre la loro espressione corrucciata, copre il gioco degli occhi. La scena è statica, morbosamente statica.
Il romanzo di Sàndor Màrai, pubblicato nel 1942, è ambientato durante la prima guerra mondiale. Ma il vero fatto, il vero trauma di cui in scena i due uomini parlano velatamente, per metafore, senza riferimenti diretti, non è la guerra. È la fine di un impero. La morte dell’arciduca Ferdinando e il crollo, desolante, irrimediabile, dell’ultimo grande impero della storia d’Europa. La sua caduta segna la fine di un’aristocrazia, di quei valori cavallereschi che, seppur già stantii, ancora segnavano “l’arte” della guerra. Konrad fugge, tradisce la patria, ma perché è stata la patria a tradire lui, a smettere di esistere. Il ménage à trois sembra, in questo caso, il pretesto, tipico della letteratura di stampo tardo romantico, per un romanzo storico e, soprattutto, psicologico. Il ruolo di Cristina – che, guarda caso, è morta da un pezzo, è un fantasma che abita una poltrona di velluto – è solo un collante, uno specchio futile di passioni virili e radicate. Magari, Cristina è la patria stessa. La struttura del romanzo è data da una serie di flashback. Enrik, infatti, racconta dettagliatamente all’amico i fatti avvenuti dopo la sua partenza, mentre Konrad rimane sempre molto vago sui suoi viaggi. Al presente non avviene nulla, tutto è riportato da un passato distante ma che letterariamente appare vivido, irrisolto.
In questo senso la qualità altamente descrittiva e “impressionista” del romanzo poco o niente si presta, in questa forma, alle richieste della scena. I due uomini parlano a una distanza irreparabile, ormai impermeabili agli scherzi ulteriori di un destino già crudele, ormai maturi nell’accettazione sconsolata di una vecchiaia silenziosa e densa di sentimenti contrastanti. Sembrano essersi già detti tutto, tutto il possibile, quando da una poltrona all’altra si rispondono per massime, con sentenze d’eccellenza, con un testo dalla poesia un po’ manierista e che decisamente cozza con il realismo ostentato di questa scenografia. Ostentato, perché quelle lussuose poltrone di foggia moderna non hanno perso un pelo, non una crepa o una sgualcitura nel lungo corso di quelli che immaginiamo essere almeno cinquanta anni. Nemmeno un filo di polvere e di umidità su quella carta da parati posticcia, su quel tavolino troppo piccolo, in questa stanza da tanto disabitata. Dove siamo? Tre poltrone sono rivolte verso di noi e, ben più che un salotto da conversazione, ricordano una seconda platea. Cosa guardano, cosa guardavano in quella parete bianca che dovrebbe separarli da noi ma che loro fissano con tanta insistenza? Il testo, così poetico, così cerebrale, così narrativo, toglie naturalezza a un dialogo che vorrebbe essere impacciato, indurito… i due non si guardano, si rispondono con brani di monologhi, le loro domande non trovano mai risposte. Il ruolo invisibile di Cristina – che in conclusione appare come l’ennesima vittima dell’orgoglio e dell’egoismo non di uno ma di ben due uomini che non hanno saputo comprenderla – prende il totale sopravvento sulla trama storica e psicologica del romanzo, sul racconto di uno scrittore ungherese che affronta il lutto di un impero attraverso quello di due guerre mondiali, di cui una ancora in corso. Non la vediamo, quella Vienna patria della filosofia e dell’arte che si fa camposanto per le memorie d’Europa, quell’Europa infuocata, pericolosa, che l’anziano Konrad deve percorrere per tornare al punto di partenza, là dove solo la morte, unica verità, lo attende scandita dalle campane e dal brusio di una registrazione all’inizio e alla fine della pièce. Quel che rimane è una storia di amore e di passioni in un involucro di parole generiche che non può che apparire stantia, così come lo sono quel salotto simil-realista, quei lunghi silenzi della recitazione, quelle pose scultoree.
“Si fa presto a diventare vecchi”. E no, nelle vecchie poltrone rosse non c’è più alcuna redenzione, alcuna utopica proiezione del futuro. Non c’è verità o risposta che possa consolare una vecchiaia tanto radicata, tanto antica. Quell’incontro segna una morte senza perdono e senza chiarimento, il tempo del futuro è già finito.
Angela Forti
Teatro Piccolo Eliseo, Roma – gennaio 2020
Le braci
Dall’opera di Sándor Márai
Adattamento Fulvio Calise
Drammaturgia e regia Laura Angiulli
Con
Renato Carpentieri
Stefano Jotti
Scene Rosario Squillace
Disegno luci Cesare Accetta
Produzione Il TEATRO COOP. PRODUZIONI GALLERIA TOLEDO