La locandiera di Goldoni nell’adattamento del regista Andrea Chiodi e della compagnia Proxima Res di Tindaro Granata in scena al Teatro Vascello. Recensione
La signora seduta accanto al mio posto mi guarda con un sorriso gentile e scosta delicatamente il cappotto sulle sue ginocchia, con la mano a fermare il foulard rosa, si sistema aggiustandosi e mi fa spazio affinché la mia poltrona sia libera. Ringrazio, mi siedo. Manca poco all’apertura del sipario quando, una volta trovata la comodità della mia posizione, mi fermo e ho modo di percepire al mio lato un odore di naftalina misto a una lieve essenza di biancheria che non riesce a imporsi sull’altro chimicamente elaborato. La scena di Margherita Baldoni ora si apre lattiginosa, candida, abbacinante di biancore: costumi settecenteschi di repertorio sono immobili su appendiabiti a rotelle, al centro un lungo tavolo, anch’esso bianco, segmenta orizzontalmente il vasto spazio del Teatro Vascello, sotto vi sono cassette di legno e lampadine, sparsi attorno e abbigliati con le miniature dei costumi appesi (Baldoni), stanno dei manichini di legno da disegno, tanti quanti sono i caratteri della commedia che va per cominciare e che, come nata dall’apertura di un baule d’epoca, muove ora i suoi passi avvolta, per me soltanto, dal pungente capriccio di naftalina. E come trasmessi da una radio lontana, distinguo poi, e mi ricordo di chi me li cantava, i versi di una lontana e popolare Mattinata fiorentina…
Il regista Andrea Chiodi torna in questi giorni a Roma in quel di via Carini con l’adattamento de La locandiera di Goldoni, dopo il successo dello scorso anno con La bisbetica domata. La commedia è il frutto dell’incontro della compagnia Proxima Res diretta da Tindaro Granata col regista varesino, la quale dopo essere stata conosciuta per i lavori firmati dallo stesso Granata, Carmelo Rifici e Luca Mammoli, si confronta per la prima volta con un classico, se non forse il classico italiano per antonomasia. Quando un testo come questo è dal pubblico incorporato se non mnemonicamente almeno come strato culturale di riferimento, la godibilità della visione si diverte a lasciarsi stupire dalla storia di volta in volta diversamente rappresentata. Un gioco dell’imprevisto basato sullo spostamento di segni ora desituati, sul ribaltamento di canoni e su pennellate di lazzi che Chiodi, sin dalle prime battute, sa organizzare e dirigere con grazia da maestro.
A parte qualche incespicata data dall’emozione della prima, gli attori, maschere dal volto ricoperto di bianco cerone e gote rosso vivo, conducono un divertissement che, come nel già citato La bisbetica domata, decostruisce i ruoli tra i sessi della commedia e nel virtuosismo interpretativo li scambia tra loro, spostando il punto di vista della narrazione. Se, come potremmo leggere dai Memoires goldoniani, l’autore veneziano ha iniziato a pensare i suoi testi a partire dallo spensierato jeu de poupées, Andrea Chiodi, come dichiarato nelle note di regia, immagina quindi che gli attori possano proprio «interagire con questo mondo dell’infanzia di Goldoni e dialogare di volta in volta con delle piccole bambole che rappresentino in modo efficace i rapporti tra i personaggi e la straordinaria macchina teatrale che è la locandiera».
Il personaggio di Mirandolina è interpretato da Mariangela Granelli con severità materna e tenera difesa, rigoroso affondo e leggero sberleffo, foriero di una riflessione attorno al femminile che per questa scrittura è ora costruita come un Don Giovanni che si rifiuta per principio di rinunciare, come direbbe Søren Kierkegaard, a quella vita estetica fatta di indifferenza e desiderio priva di qualsiasi legame. Tuttavia, e lo dimostra il monologo finale rotto nel pianto e affranto, Mirandolina sarà costretta a scegliere Fabrizio e ad accettare, non di certo con serena accondiscendenza, la volontà del padre.
Tindaro Granata è un esorbitante, coinvolgente, effeminato e decaduto Marchese di Forlipopoli, protagonista indiscusso delle risate e della partecipazione calorosa del pubblico che non lo perde mai di vista e aspetta di sentir le sue battute. Fabio Marchisio è misantropo brusco ma dolce nel ruolo del Cavaliere di Ripafratta e servo impacciato in quello di Fabrizio; straordinarie sono poi le prodezze mimiche di Caterina Carpio – impeccabile anche nell’opulenza rigorosa del Conte d’Albafiorita – e Caterina Filograno – virile e risoluto Fabrizio negli altri atti – nei panni delle due commedianti, sofisticamente sboccate e irriverenti.
Momenti di straniamento sono quelli in cui gli attori seduti al lato destro del tavolo, si danno alla lettura delle didascalie del testo originale, frangenti scenici durante i quali la commedia sembra arrestarsi e oggettivarsi nell’azione composta di seguire pedissequamente la volontà autoriale manifestata nelle didascalie, nel riposo degli interpreti che si tolgono la parrucca, distendono le gambe, poggiano la testa sulla mano in segno di ascolto.
Ulteriore oggettivazione, quasi che la regia si prenda del tempo per guardare la messinscena dal di fuori, sono le campiture luminose di Marco Grisa che collocano in un quadro le azioni sceniche, le scolpiscono e definendole le fermano in una posa che sembra rallentare il trambusto comico di alcuni passaggi.
Commoventi le occasioni in cui gli attori giocano con i manichini di legno che li rappresentano, quando li guardano, parlano con loro, li muovono come fossero le marionette delle proprie dramatis personae. La locandiera secondo Andrea Chiodi è allora uno spettacolo di acume raffinato, di grazia e poesia comica che corre, salta e scivola su di un lungo tavolo attorno e sotto al quale parti e ruoli si ripensano e riattivano significati del testo, fanno luce su altri e altri ancora confondono nella novità di un gioco che è meraviglia.
Lucia Medri
Teatro Vascello, Roma – gennaio 2020
LA LOCANDIERA
regia Andrea Chiodi
con (in ordine alfabetico)
Caterina Carpio, Caterina Filograno, Tindaro Granata (Marchese di Forlipopoli), Mariangela Granelli (Mirandolina), Fabio Marchisio
scene e costumi Margherita Baldoni
assistente alla regia Maria Laura Palmeri
disegno luci Marco Grisa
musiche Daniele D’Angelo
realizzazione costumi Maria Barbara de Marco
produzione Proxima Res
Carissima Lucia, la sua disamina è così accurata, acuta e profonda che, sinceramente, non rendono onore al suo valore le digressioni iniziali sulle sue vicine di posto e sulla naftalina. Servono solo a raggiungere la lunghezza richiesta al suo articolo? Un ex-magistrato ed ex-politico direbbe:”che c’azzecca?”.
Carissimo Paolo, sarò molto diretta: la sua lettura ha colpito nel segno. L’incipit non è funzionale all’argomentazione del pezzo, né alla comprensione dell’analisi, né tantomeno al rispetto di un preciso numero di battute. In fase di editing si era anche discusso a riguardo e nonostante concordassi rispetto il possibile dubbio che poteva scaturire nel lettore, l’ho difeso perché, da spettatrice, mi sono affezionata a quell’odore e al modo in cui ha connotato la mia esperienza teatrale. In quest’ottica quindi, è stato per me un elemento necessario da inserire nella restituzione. La ringrazio per il commento sensibile. Saluti, Lucia