A Firenze, all’interno del festival La democrazia del corpo, Marco D’Agostin (premio Ubu 2018 come miglior performer under 35) ha presentato il suo solo First Love e ha condotto il workshop Abecedario. Intervista
Incontro Marco D’Agostin alla fermata del tram, ancora stanco – ed entusiasta – per la giornata di laboratorio appena terminata a Cango. E la conversazione inizia già mentre camminiamo verso casa, con naturalezza; proseguirà per quasi due ore, durante le quali Marco si racconterà, racconterà le sue creazioni e i suoi processi, accennerà qualcosa sui progetti futuri: Best Regards, la creazione dedicata a Nigel Charnock, e Saga. Sarà un colloquio teso tra estetica ed etica, tra coreografia e impegno organizzativo, tra desideri e doveri.
Volevo cominciare questa conversazione da due parole significative sia per il tuo percorso di artista, sia per il tuo percorso di fondatore e anima di VAN: “memoria” e “archivio”. In che modo questi due temi si sono declinati nel tuo percorso? Cosa significa oggi affrontare nelle tue creazioni gli universi della memoria e dell’archivio?
Tutto ha a che fare con la nostalgia, e soprattutto con il fatto che sono stato un bambino nostalgico. C’è voluto molto tempo prima che usassi consapevolmente la parola “memoria”, e che mi chiedessi perché per me era così importante. È una questione che è emersa con grande spontaneità; credo di essere stato prima di tutto un interprete che si chiedeva come fosse possibile far attraversare il corpo da memorie: non ho mai avuto come danzatore delle mobilità specifiche, non vengo da scuole o accademie, non ho mai assorbito somaticamente una tecnica piuttosto che un’altra, eppure mi sono subito reso conto che quello che mi muoveva erano i ricordi. In qualche modo penso di avere lavorato da sempre sull’idea di corpo fantasmatico, benché non in senso pirandelliano. Quando sono diventato un autore, tutto ciò si è riversato naturalmente nei miei lavori; ma è con Avalanche che ho accolto pienamente questa questione. Ho iniziato finalmente a rendermi conto di essere stato non solo un bambino nostalgico, ma un bambino ossessionato dall’idea di salvare gli oggetti dal passato. Un collezionista, quindi – e lo dico conoscendo la grande differenza che intercorre tra collezione e archivio – ma soprattutto un bambino che imparava a memoria gli elenchi, le liste… Dietro quel desiderio c’era sottesa un’angoscia legata all’idea di perdita: non alla perdita degli oggetti della mia vita, quanto alla perdita che avverrà un giorno di tutti gli oggetti che ci circondano. Ciò che tento di realizzare è un salvataggio degli oggetti da una valanga: non la valanga mediatica, né la valanga della frenesia, come spesso erroneamente è stato detto. Avalanche è stato il tentativo continuo e ostinato di creare dispositivi coreografici di salvataggio degli oggetti, e di sviluppare modi di muovere lo spazio, il tempo, i corpi attraversati da questi oggetti. First Love è come se fosse un unico oggetto, fatto esplodere nel desiderio di dimenticarlo per sempre.
Come si è declinata questa attenzione alla memoria nella tua attività in VAN?
Insiemi agli altri membri di VAN (oltre a D’Agostin, VAN è stata fondata da Francesca Foscarini e Giorgia Ohanesian Nardin, e vede adesso tra i sui artisti associati Andrea Costanzo Martini, Camilla Monga, Irene Russolillo, Enrico Ticconi e Ginevra Panzetti, ndr) ci siamo resi conto dell’assenza di dispositivi efficaci in grado di rendere conto di ciò che accade davvero nella danza italiana. Credo che sia un mondo ricchissimo, sia per le cose che accadono sia per le forme che queste cose assumono, e ciò che vedo accadere – non solo all’interno dei miei processi creativi, ma anche in quelli di cui sono soltanto un testimone – anticipa qualsiasi testo critico. Ciò che lamentiamo è l’assenza di dispositivi adatti a raccontare tutto questo: le testate giornalistiche non sono sufficienti, le università e le accademie faticano… Archivio Anno Zero e adesso Archivio Anno Uno sono stati due timidissimi tentativi di narrare la varietà delle nostre pratiche e dei nostri percorsi: Gaia (Clotilde Chernetich, curatrice dei due progetti, ndr) ha raccolto una quantità tale di elementi… È quasi impensabile restituire la ricchezza di quello che ha collezionato: i modi diversi, le forme che hanno i nostri lavori, e insieme a questi l’interrogativo su come raccontarli adesso e su come renderli disponibili domani. Siamo tutti così presi dai modi per far sopravvivere ora il nostro lavoro, che nessuno di noi si chiede che cosa ne sarà domani. Naturalmente non intendo i nostri spettacoli: quanto i modi con cui li creiamo, i legami che stringiamo mentre creiamo. Archivio Anno Uno sta assumendo una forma molto singolare: abbiamo aperto un drive, in cui ognuno di noi inserirà alcune delle fonti che sta utilizzando per le proprie opere, e al quale il pubblico può accedere, e seguendo alcune istruzioni lasciare i propri “regali” dentro una cartella.
Quindi con Archivio Anno Uno non soltanto rendete disponibili alla consultazione i vostri processi, ma li aprite all’intervento del pubblico.
Questo è quello che speriamo accada: ciò che speriamo di innescare è un cortocircuito. Chiaramente, Archivio Anno Uno è una specie di rappresentazione dell’archivio: l’archivio delle nostre creazioni è ben più complesso e risiede altrove, e tuttavia con questo drive apriamo una fessura rispetto a quello che sta succedendo, grazie alla quale tu sei libero di lasciare un ex voto. Non sappiamo che cosa accadrà, e se influenzerà davvero i nostri processi, però c’è una piccola speranza rispetto a questo. Il tempo dell’archivio è comunque il futuro anteriore, l’archivio guarda sempre e soltanto avanti.
Credo che questa tensione verso l’archivio sia evidente anche nei tuoi lavori, a partire da Everything is OK, e che al contempo sia una riflessione sulla continua, inesausta dissoluzione dell’archivio e della memoria. Un processo simile, per certi versi, a Freeing the Memory e a Freeing the Voice di Marina Abramović.
Everything is OK è un archivio, costruito a partire da una domanda: che cosa resterà dopo che tutte le immagini del mondo si saranno succedute? In qualche modo volevo condensare in trenta minuti tutte le immagini del mondo, in quel caso selezionate sul filtro dell’intrattenimento. Avalanche è nato proprio perché non credo di avere risolto quella domanda a livello spettacolare: quel dopo, quella risposta, non era all’altezza della domanda. Per me è centrale il tentativo di creare dispositivi scenici dove qualcosa si consuma, e provare a lanciare uno sguardo su cosa accadrà dopo. La mia ossessione è riuscire a realizzare uno spettacolo che sia esattamente questo: la materializzazione di come la memoria si dissolve, e di come il dissolvimento della memoria possa materializzare il tempo. Io calo tutto questo in una dimensione molto concreta in sala: ciò che mi interessa è creare dispositivi che materializzino l’accanimento della memoria, che materializzino uno scorrere del tempo che dia vita a questo accanimento, e realizzare così le condizioni per un collasso che generi quello che vedrà l’ultimo uomo sulla terra. Niente di meno chiedo alla danza, niente di meno chiedo alla mia danza: non l’ho ancora mai fatto, non ci sono mai riuscito. C’è riuscito, ad esempio, Romeo Castellucci: la sua Sagra della primavera, una coreografia di macchine che rilasciano getti di polvere che si scopre poi essere osso di bovino macinato… Ecco, quello che rimane di quella cascata, di quella coreografia di cascate di ossa, è ciò che io intendo. C’è riuscita sicuramente Marina Abramović: Freeing the Voice è questo, Abramović alla fine della performance perdeva la voce, quindi di fatto disgregava la materia, perché la voce è materia.
E tuttavia quel “dopo” di cui parli sembra essere un’apertura verso il futuro, verso una nuova narrazione.
Credo ci sia una frattura fra le due cose: non credo che l’accanimento della memoria si possa riversare come un fluido nel nuovo… Se dovessi seguire soltanto il mio istinto e la mia natura, mi concentrerei soltanto sulla memoria: è un po’ uno sforzo che mi chiedo di fare, quello di andare oltre, di guardare oltre. Ed è quello che chiedo alla danza che vedo, al teatro che vedo, alla danza che cerco di innescare negli spazi e nei corpi: lo sforzo di andare oltre. Molto spesso mi sento in un impasse: dopo tutto quello che abbiamo visto, dopo tutti i corpi che abbiamo visto muoversi, in scena così come nel mondo, è davvero difficile pensare a nuove istruzioni per nuovi corpi. Tutto parla di qualcosa che è già accaduto: eppure non avrebbe senso decidere di danzare se non fosse per generare un nuovo corpo, un corpo con una mobilità sorprendente che non abbia nulla a che vedere con il passato. Finora non ci sono mai riuscito, a generare una danza che non ha niente a che fare con il passato, a generare un corpo che anticipi il movimento dei corpi tra cento anni, mille anni.
Accanto all’ossessione per la memoria, per l’archivio, per un “dopo”, è l’utilizzo della voce a contraddistinguerti. Come ti sei avvicinato a questo elemento? Quanto ti senti rappresentato da questa etichetta?
In realtà, ho utilizzato la voce soltanto in Everything is OK, in Avalanche e First Love; la sto ovviamente usando in Best Regards (nuova creazione di D’Agostin, il cui debutto è previsto nella primavera del 2020, ndr), e Saga (produzione del 2021, ndr) è stato scritto per essere un coro, un coro al quale verrà giustapposta una coreografia. Dopo Everything is OK, poteva accadere che qualcuno – avendo visto il lavoro, e posto di fronte a un altro spettacolo in cui si ricorreva alla voce – dicesse «Ah, questa è una creazione dagostiniana». Al di là degli aspetti narcisistici della questione, il paradosso è che Everything is OK non è in alcun modo un lavoro sulla voce. Questa compare soltanto in un piccolissimo prologo in cui il corpo è stanziato nel proscenio: e tutta questa attenzione mi aveva fatto sorridere e pensare, al punto da iniziare a interiorizzare un’aspettativa altrui. Ma la verità è che io sono stato un attore, prima di essere un danzatore, e che sono soprattutto un appassionato della voce, non un suo maestro. Non mi interessa addentrarmi nell’aspetto somatico dell’emissione vocale, non sono un ricercatore puro rispetto alla voce intesa come materia. Per tanti anni ho censurato questo mio lato, perché credevo che per dimostrare al mondo che ero un danzatore non dovevo usare la voce – ingenuamente, dopo quarant’anni di storia della danza con l’utilizzo della voce, tra l’altro! È chiaro che l’incontro con Nigel (Nigel Charnock, coreografo e performer, fondatore della compagnia londinese DV8 Physical Theatre, ndr) è stato fondamentale: Nigel integrava la voce nei suoi lavori con una naturalezza che era sua e soltanto sua. Però ho cominciato a usarla molto tempo dopo… E tuttavia non ne posso fare a meno, innanzitutto perché mi diverte: ho iniziato a usarla richiamando l’atteggiamento divertito del bambino, senza pormi problemi rispetto a tecniche che poi ho approfondito. Quello che accade adesso è un processo di messa a fuoco retroattiva: credo finalmente di avere capito che valore ha per me la voce. Non mi ha mai interessato lavorare sul rapporto tra la voce e il corpo, bensì sulla frizione che generano un corpo impegnato in una certa mobilità e una voce impegnata in una certa emissione Quella frizione, di carattere prima di tutto neuronale, genera una presenza. Genera uno stato. E a me interessa esattamente questo. Lo sguardo dello spettatore riassume quella frizione, ricomprende quei due livelli che il performer tiene separati.
Oggi i rapporti tra critica e artisti sembrano particolarmente tesi, soprattutto quelli tra critica della danza e giovani coreografi. Cosa sta accadendo?
Quest’anno mi sono allarmato, leggendo tanti scritti – non su di me ma su altri autori – attraversati da due atteggiamenti. Il primo era quello di una strana volontà di difendere una supposta autenticità della danza rispetto a qualcosa che non è danza. Il secondo – ben più grave, perché ha a che fare con l’etica – era quello di chi, evidentemente non in grado di accogliere ciò che stava vedendo, invece di fare un passo indietro appiattiva la propria esperienza di visione sovrapponendo a essa un’interpretazione, senza confessare di non essere riuscito a farsi attraversare dall’immagine che aveva di fronte. Dall’altra parte, tuttavia, c’è una generazione più giovane, che sta affilando le armi della propria scrittura, e che riesce a non aggettivare forzatamente un’immagine, ma a trovare strumenti del linguaggio per restituirla, per raccontarla, per dirla, per tradurla. L’impressione che ho avuto è che non esista comunicazione fra queste due frange: ovviamente non penso che ci siano due schieramenti, né che ci siano accordi interni fra gli schieramenti stessi, eppure mai come quest’anno questo è quello che è avvenuto. Significa che è in atto una frattura, che evidentemente non c’è l’interesse di un gruppo a relazionarsi con l’altro. Quello che mi sento di affermare e di difendere, fino a essere allontanato da questo ambiente, è che credo la persona che si siede davanti a uno spettacolo di danza per scriverne debba innanzitutto farsi attraversare da questa immagine, e debba impegnarsi a trovare parole per raccontare quell’attraversamento, senza per questo difendere ciò che crede dovrebbe essere la danza. Come ha detto meravigliosamente Alessandro Sciarroni, la danza è un paese disposto ad accogliere persone straniere. L’unica cosa che posso dire del mondo della danza è che è un luogo che è riuscito ad accogliere, per lo meno negli ultimi dieci anni, tutte le istanze, tutti i formati, tutti i linguaggi: i festival di danza hanno dato spazio a tutto, anche a quello a cui i festival di teatro non davano spazio, gli artisti hanno collaborato fra di loro… Questa è una caratteristica per me innegabile, cioè non si può non vedere che questo è quello che distingue la danza da tutto il resto. Una dimensione che, proprio perché inafferrabile, rende più ampio lo spazio di azione: è più difficile dire cosa è e cosa non è… E invece quello che hanno fatto molti critici è ribadire cosa la danza è, e cosa la danza non è.
In qualche modo, ciò che sembri formulare è una richiesta, prima di tutto etica, alla critica.
È la richiesta di un’alleanza, senza dubbio. La danza, ovviamente, è anche tanto altro, è anche un luogo di esclusione. Ciò di cui parlo è la danza in cui io sento di muovermi, è il mondo in cui sento di abitare… VAN cerca anche di fare questo. Oroscopo (il think thank sul futuro organizzato dall’Associazione VAN, di cui è possibile leggere qui un report dalla prima edizione) è soprattutto il tentativo di creare una rete consapevole di artisti della danza in Italia: siamo tanti, ma non ci guardiamo in faccia, non ci parliamo. La richiesta che facciamo alla critica è una richiesta di alleanza: dobbiamo trovare insieme le parole, i critici devono venire in sala con noi, devono assistere ai processi fondanti della creazione coreografica. Dobbiamo originare una costante nascita di termini e parole, e se si usano quelle già nate bisogna risemantizzarle. Io credo che la critica potrebbe essere davvero un’alleata. Questo è l’unico futuro che vedo come possibile.
Alessandro Iachino
Firenze, novembre 2019