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Peter Brook e il senso del teatro. Why?

Why?, l’ultima creazione di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne, è andato in scena al Teatro Cucinelli di Solomeo. Si è trattato del debutto italiano, dopo quelli di Parigi e di Brooklyn, in attesa delle date torinesi nella primavera 2020. Recensione

Foto Pascal Gely

Quattro figure, vestite di nero, si muovono silenziose su una scena in ombra. Sul fondale scuro spiccano pochi oggetti: tre sedie, un tappeto, qualche abito appeso, un piccolo pianoforte sulla destra. Lo spazio è oggetto di un’occupazione delicata, liminare, ma come invaso da una magia tutta umana: il sentimento dell’attesa. Quando il palco si rischiara, all’improvviso, di una luce calda, un applauso naturale e affettuoso rompe, per pochi attimi, le righe del silenzio.
Hayley Carmichael, Kathryn HunterMarcello Magni avanzano leggeri in proscenio, Laurie Blundell prende posto al piano. Sono portatori di un interrogativo “totale”, noto fin dal titolo: perché il teatro è il destino al quale ci votiamo? C’è un’intimità, implicita ma evidente, nel porre questa domanda a una platea, eppure la gradualità con la quale l’atmosfera si addensa permette il dispiegarsi pieno di una dolcezza confidente ma ferma.

Foto Simon Annand

Il nuovo spettacolo di Peter Brook, ancora una volta in collaborazione con Marie-Hélène Estienne, si pone espressamente in chiave riflessiva ma la cifra della riflessione è quella di comporsi poco a poco, come un palinsesto nel quale evocazioni storiche e tracce semplici si depongono le une sulle altre, a volte sovrascrivendosi, a volte intessendosi. Si tratta inoltre di una questione che investe il piano della memoria, quella di secoli di pratiche sceniche ma anche quella dell’arte di Brook che, dieci anni dopo Warum Warum, riprende le fila di un movimento di auto-interrogazione sul significato del teatro e lo colloca, in forma di lama, nel cuore di un presente che vede l’Europa misurarsi ogni giorno con il trionfo delle tautologie.
Il principio risiede nei giorni della Creazione: il settimo è quello dell’invenzione del Teatro, contravveleno alla noia (che affligge l’uomo da sempre, come un sottile morbo congenito) ma anche strumento per comprendere le leggi del Paradiso.
«God made theatre, which was both a joy and, it seems, a mistake». La perfezione della lingua inglese – sintetica e levigata – si accorda alla qualità della presenza dei tre attori, semplice e intensa, immersa in un disegno di grande naturalezza. Come accade sempre nel teatro di Brook, la scena sembra vivere subito di un palpito leggero, senza sforzo, come se fosse adagiata su di una consapevolezza profonda e spontanea che, lentamente e solo in un secondo tempo, si delinea nella drammaturgia. I tre attori si muovono in un ambiente sonoro fragile e sotteso, fatto perlopiù di accenni e accenti. L’accompagnamento pianistico sembra svilupparsi secondo la stessa funzione di originalità che, nel mezzo di una battuta, viene attribuita al sistema nervoso: «ogni riflesso ne porta un altro», con la grazia intrinseca degli organismi viventi.

Foto Simon Annand

Carmichael, Hunter e Magni richiamano il ricordo di alcuni dei più grandi maestri del teatro, non soltanto europeo, e lo fanno attraverso l’evocazione, perfettamente leggibile, di alcune delle loro invenzioni, del quid della loro poetica e della loro disciplina. Si tratta di una declinazione della storia teatrale, anch’essa per accenni e accenti, che gode di una grande agilità: Gordon Craig, Charles Dullin, Zeami (fondatore del teatro Nō giapponese), Stanislawskij, Majakowskij si delineano sulla scena, simili a fantasmi ma anche a messaggeri atemporali di quella fulness che è il calibro e il dono della vita dell’artista. I corpi dei tre attori, prima ancora delle parole, sono i veri mediatori di queste apparizioni: i principi ritmici che governano il teatro Nō, il metodo Stanislawskij, il significato dell’attribuzione di un nome proprio al personaggio, le strategie di resa attoriale, l’importanza di non avere la critica al debutto sono alcuni dei vertici di un discorso ampio e mutevole, svolto con maestria spesso ironica, attraverso la restituzione viva di quadri e pratiche e il loro istantaneo disfarsi, per lasciare spazio all’evocazione successiva.

Foto Simon Annand

La suadenza e la destrezza di questo gioco (nel quale il pubblico si inoltra con facilità e con stupore) convergono, e si tratta di un esito fatale, nel racconto della vita di Vsevolod Mejerchol’d: l’invenzione della biomeccanica, l’incanto di una percezione espressiva che si sviluppa a partire dall’utilizzo “scientifico” del corpo, è ancora una volta celebrata attraverso l’abilità performativa degli interpreti ma, un attimo dopo, il prodigio leggero della tecnica cede il passo alla storia. I tre attori si fanno vicari di un racconto che si articola attorno a due rivoluzioni: quella d’ottobre, nel suo convertirsi da utopia in deriva, e quella teatrale, immaginata da Mejerchol’d e da sua moglie Zinaida Rajch
La loro ricerca fu percepita, negli anni del regime stalinista, come un’opposizione al realismo socialista e ai dettami del partito, che accusò Mejerchol’d di trotskismo: i suoi spettacoli, dopo le grandi tournée europee, e il suo progetto di costruzione di un nuovo teatro crollano, a poco a poco, sotto i colpi di una repressione sistematica e progressiva, mentre il pubblico «urla il suo amore per quel teatro che sta per chiudere». L’esito è sanguinoso: Zinaida viene trucidata nella sua casa di Mosca e Mejerchol’d torturato e, dopo un processo inesistente, giustiziato con un colpo di pistola. Hayley Carmichael legge l’ultima lettera di Zinaida Rajch al marito, nella quale lo definisce un «meraviglioso ottimista che ama la vita come un vero pagano».

Foto Simon Annand

Why? racconta, con la grazia paziente di un sortilegio scenico, le sorti di un amore semplice e umano, quello nei confronti del teatro, che trafigge le ombre della storia, consegnando, in conclusione, un dilemma morale che ha a che fare con la verità. Nella sua ultima testimonianza (custodita, come in uno scrigno, nella  splendida lettura in proscenio a tre voci) Mejerchol’d si pone domande sulla propria vocazione e sul proprio amore, al cospetto di una violenza senza soluzione: «Il mio unico interesse era la forma? Ho amato la mia Signora delle camelie, il mio Ispettore generale, ma tutti questi mesi in carcere…why?».
Esiste un dualismo che appare insuperabile nella percezione della verità (vita o palcoscenico, arte o rivoluzione, materialismo o idealismo) e Brook lo narra senza sconti e con dolore, nelle parole piene di chiarezza affidate a questi attori meravigliosi che rinnovano un’idea di palcoscenico come luogo della massima semplicità (che, come si coglie quasi accidentalmente in una battuta, «non è mai facile»), del sacrificio di sé, del pericolo e della gioia.
La verità è forse soltanto il coraggio di porsi, fino alle estreme conseguenze, una domanda, creando così un’autentica militanza e una piccolissima zona franca, la misura di una consapevolezza vitale, emanata da un gesto e da un pensiero veramente umani, per questo totali.

Ilaria Rossini

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Teatro Cucinelli, Solomeo – novembre 2019

WHY?

testo e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
con Hayley Carmichael, Kathryn Hunter, Marcello Magni e Laurie Blundell
luci Philippe Vialatte
regia video Lucas Kane
immagini Gabrielle Lubtchansky
assistente ai costumi Alice François
grazie a Oria Puppo
produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
coproduzione Theatre for a New Audience – New York; Grotowski Institute, Wroclaw; National Performing Arts Center, Taiwan R.O.C. – National Taichung Theater; Centro Dramatico Nacional, Madrid; Teatro Dimitri, Verscio; Théâtre Firmin Gémier, La Piscine

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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