Recensione di Mangiafoco, spettacolo di Roberto Latini in scena al Piccolo Teatro di Milano, ispirato a Pinocchio di Collodi.
Sono quasi dieci anni, dal progetto Noosfera, che, in modi diversi, Roberto Latini indaga l’essere umano a partire dalla condizione dell’artista di teatro: ogni volta sembra voler ritrarre l’uomo con una tensione poetica inversamente proporzionale al gradino occupato dall’artista nella nostra società. In ogni spettacolo dissemina indizi: piccoli sassolini che lentamente fuoriescono da una scarpa che sembra ormai colma. Ogni lavoro è un urlo disperato, il bisogno di donare corpo e anima a una causa, quella teatrale. Il cordone ombelicale con la città natale, Roma, tranciato dall’impossibilità di lavorare nei maggiori teatri della Capitale, poi l’abbandono del teatro San Martino a Bologna e l’adozione milanese, le produzioni con il massimo teatro pubblico italiano e le tournée che svaniscono – il Teatro Comico prodotto proprio dall’ente fondato da Giorgio Strehler si è arenato dopo le repliche milanesi. Poi la dichiarazione che tenne banco qualche tempo fa sui social: Latini e la sua compagnia Fortebraccio Teatro rinunciano ai finanziamenti ministeriali diretti, non hanno più intenzione di piegarsi alla logica dei numeri, nell’attesa di tagli spesso puntuali e falcidianti.
Cosa c’entra tutto questo con il racconto teatrale, con quell’effimera ora e mezza in cui il pubblico esce di casa per ascoltare la più potente voce della scena italiana farsi corpo, spazio, diventare un fatto visivo e sensuale fuori dalla norma? C’entra perché questo è il teatro di Latini, vive dentro quella ferita, nelle carni mai rimarginate di una disperazione che solo l’autore potrà sanare volgendo lo sguardo altrove. E chissà che proprio in questo Mangiafoco, ancora una volta al debutto milanese, nell’emozionante arena dello Studio dedicato a Mariangela Melato, si concretizzi un passaggio ultimo, forse la necessità di mettere un punto. E che questo accada, quando per ultimo, l’attore e regista si presenta al pubblico sulla falsa riga di quanto hanno già fatto i suoi compagni: «Sono Roberto, ho 7 anni, 120…» E ancora una volta è la passione teatrale a dominare la scena, arrivando alla radice di quel concepimento: per dirla con Pirandello, si può nascere attore? Forse. Sicuramente si può diventarlo per caso, trentanni fa, seguendo l’esempio di una ragazza, magari per farle la corte, e arrivare così alla scuola di Perla Peragallo «volevo solo dà n’occhiata» disse Roberto Latini a 19 anni, sentendosi rispondere «Non c’è niente da guardare».
Lo spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro con la Compagnia Lombardi/Tiezzi insieme a Matera 2019, ha una struttura sia drammaturgica che visiva da Rivista: una sorta di doppio sipario bianco, forse di carta come molti dei bellissimi costumi di Gianluca Sbicca, tagliato in decine di strisce, sputa fuori prima uno scivolo (Latini appare in cima quasi a voler richiamare il finale dei suoi Giganti) e poi i personaggi, alcuni vestono grandi e inquietanti teste di Micky Mouse, i toni rossi e blu di Max Mugnai illuminano quello che da subito appare un circo tormentato, una sorta di gran cabaret dell’incubo interiore. Guardateli, sono dei guitti, raccontano come si sono innamorati del teatro, con chi hanno lavorato, sciorinano carriere e nomi di maestri e registi, ma sono indifesi. E quel valzer con cui Gianluca Misiti li fa camminare in cerchio non è solo un omaggio a Kantor, ma è anche una processione funebre che non chiede neanche a una lacrima di cadere. Chi volete che pianga per questi pagliacci?
Marco Sgrosso in vestaglia rossa e il segreto di Leo De Berardinis trattenuto tra le labbra, Marco Manchisi e la rivista con Totò e Anna Magnani, Marco Vergani e quella macabra ironia di un percorso con alcuni dei più grandi e compianti registi, Stella Piccioni venuta da Spello, rifiutata dalla Silvio D’Amico e accolta al Piccolo, poi Elena (Bucci naturalmente) anche lei aggrappata a quell’albero genealogico pieno di frutti che è stato Leo. Si raccontano, tornando a dar vita a personaggi che hanno segnato quella passione per le scene: Shakespeare, Goldoni, la sontuosa Nora di Bucci…
Alcuni di questi assoli sono momenti preziosi, altri soffrono forse una scansione o degli equilibri drammaturgici non sempre puntuali, non tutti i racconti degli attori risultano ugualmente affascinanti o divertenti, alcuni probabilmente hanno bisogno di essere rodati di fronte a pubblici diversi. Gli attori, uomini e donne, marionette in balia del marionettista (il sistema teatrale, lo Stato, i produttori, il fato…?); «il burattinaio ha starnutito. Sei salvo fratello». Il Pinocchio di Collodi, che già fu materia per un Lucignolo, non è metafora, non è rispecchiamento letterario, ma condizione necessaria in cui implodere, nella quale fallire.
Appaiono tutti un’ultima volta, con i loro abiti di carta, vestiti di povertà ricamata, sono anime perse, già sconfitte, giganti di una montagna sgretolata. Trovano i propri corrispettivi in mattoni di ghiaccio ai quali danno una parvenza di umanità con il naso rosso lungo di Pinocchio: non siamo in fin dei conti così, noi esseri umani? Ci sciogliamo al sole della vita; allora il teatro appare, qui, come la vita accelerata e le gocce d’acqua bagnano per davvero il bianco tappeto.
Andrea Pocosgnich
Milano, Teatro Studio Melato, dal 28 novembre al 22 dicembre 2019
Mangiafoco
drammaturgia e regia Roberto Latini
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
elementi scenici Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
con Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799 / Città delle 100 scale Festival
in collaborazione con Consorzio Teatri Uniti di Basilicata
Spettacolo consigliato dai 14 anni
Le recite del 30 novembre e del 7, 14, 21 dicembre 2019 sono sopratitolate in inglese
Sopratitoli a cura di Prescott Studio