Claudio Longhi e Lino Guanciale hanno diretto per Ert due drammi di Elias Canetti, Commedia della vanità e Nozze. Una riflessione sulle possibilità sceniche del teatro di Canetti. Recensione.
Non capita spesso di vedere in cartellone i drammi di Elias Canetti. Tanto meno un’infilata a stretto giro, come quella proposta da ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, che ha servito al pubblico, uno dopo l’altro, Commedia della vanità, per la regia di Claudio Longhi, e Nozze, debutto di Lino Guanciale dietro le quinte, a dirigere gli attori diplomati della scuola Iolanda Gazzerro di ERT. Un omaggio all’autore-monstre del XX secolo, certo più noto per il suo romanzo, Auto da fé, per il miliare saggio Massa e Potere, o per la non meno poderosa autobiografia La lingua salvata. Altri capolavori cui, nel corso del 2019, ERT ha dedicato approfondimenti con letture e incontri in vari formati: una rassegna multidisciplinare per avvicinare l’irrequieto sguardo di un autore che i generi li ha attraversati proprio tutti.
Canetti scrisse i due drammi sovrapponendone la stesura all’inizio degli anni ’30, mosso dall’urgenza di additare, estremo tentativo, l’entità del baratro che di lì a poco l’Europa non sarebbe riuscita ad evitare. Non stupisce che Canetti abbia indagato le potenzialità del teatro in quel momento storico: sono gli anni in cui il modello di riferimento di letterati e intellettuali viennesi è quel Karl Kraus che già nel 1918 produsse la summa apocalittica de Gli ultimi giorni dell’umanità. Certo l’operazione non valse a Canetti un successo clamoroso, così come lo stesso Auto da fè, pubblicato negli stessi anni (1935), dovette attendere una ristampa successiva (1967) per consacrare il suo autore. Commedia della vanità fu messa in scena per la prima volta a Braunschwig, in Germania, solo nel 1965, Nozze nel 1967. I due lavori scontano in effetti, nonostante un’originale ricerca sul senso del comico e sul grottesco, una tessitura tradizionale della scrittura drammatica, più legata alle forme del teatro borghese mitteleuropeo che alle ricerche, ormai giunte ad un punto di maturazione e superamento, delle Avanguardie. Basti pensare che, restando nel repertorio di lingua tedesca, siamo già negli anni del teatro epico di Brecht e delle sperimentazioni registiche di Piscator. Elementi che accrescono la curiosità verso il tandem andato in scena fra Modena e Bologna, e di cui qui parlavamo con Claudio Longhi. Appare chiaro come l’operazione muova dall’innamoramento per un materiale letterario che, nel sentire ineguagliabile del suo autore, indaga i modi e le contraddizioni dell’uomo europeo, lì dove la Storia ha piegato la fede nel progresso col fuoco autodistruttore partito dal cuore del continente. Una direzione dello sguardo che il teatro di Longhi ha condiviso, sin da La resistibile ascesa di Arturo Ui, Il ratto d’Europa e Istruzioni per non morire in pace, configurando un percorso autoriale in cui i parametri etico-civili hanno sempre illuminato la via della ricerca registico-attoriale. Un percorso che Lino Guanciale ha seguito, prima da attore, poi acquisendo un ruolo sempre più da assistente alla regia e alla scrittura di scena.
Dopo aver messo insieme le due visioni, viene però da chiedersi quanto i drammi canettiani possano incidere su questo peculiare cammino storico-critico sul teatro del Novecento e sulla sua profezia. La domanda potrebbe porsi, facendo un passo indietro, come un quesito sull’effettiva qualità e tara teatrale dei testi: sebbene lo stesso Canetti si definisse un “dramatist”, i suoi testi non vennero messi in scena per più di vent’anni, soprattutto per l’estraneità dello scrittore alla comunità attoriale ed imprenditoriale del teatro. Non è un caso che la notorietà di Nozze e Commedia risale alle letture pubbliche che lo stesso ne dava, inseguendo l’ideale dell’istrionica ed efficacissima oratoria di Kraus, similmente impegnato a recitare i propri drammi (con un’implicita idea del rapporto attore-autore). Ci sarebbe comunque voluto il viatico del premio Nobel, nel 1981, a dischiudere le porte dei teatri europei alle pagine dei drammi canettiani.
Ma che cosa abita quelle pagine? Commedia della vanità è una monumentale danse macabre, il cosmo immaginario di una dittatura che prende piede vietando al popolo di contemplare la propria immagine riflessa. Nella distopia, inversione solo apparente dei nostri tempi narcisistici, si generano meccanismi di sopravvivenza, un mercato di contrabbando per lacerti di specchio o case di piacere in cui sedersi davanti al proprio riflesso per pochi istanti. Debellata la vanità, nessuno è più in grado di generarsi individuo attraverso la propria immagine: è il progetto della massificazione totale, promozione del “noi” di un popolo a soggetto universale. Stessi incubi che muovono l’immaginario di Nozze, una commedia claustrofobica in due atti, grande come la palazzina-mondo i cui lubrici abitanti passano il tempo a immaginare come impadronirsi dell’intero stabile. Nel mentre, all’ultimo piano, nell’appartamento del tenutario Segenreich, si festeggiano le nozze della primogenita: nella liturgia più aulica e simbolica della civiltà occidentale si riversano e implodono tutte le pulsioni prevaricatrici e perverse degli invitati. Si constaterà, infine, il collasso della possibilità stessa dell’amore.
Per Commedia, Longhi immagina la sala teatrale come un megafono, una protesi amplificatoria del magma drammaturgico. L’allestimento scenografico immerge la platea nell’atmosfera di un circo, smuovendo a priori l’attenzione verso il dato atmosferico e preparando così lo spettatore ad ascoltare la ribollente scrittura come una lunga e straniante nenia. Come la distorsione polifonica, a tratti cacofonica, di una massa cromatica e sonora. Il lavoro drammaturgico si riduce (eufemisticamente), ad asciugare il lunghissimo plot originale, a rinvenire una struttura che sostenga il delirio circense. Se c’è una criticità, sta proprio nell’eccesso segnico, ove l’ossatura narrativa viene meno alla percezione dello spettatore. Quattro ore di spettacolo mettono innegabilmente a dura prova l’attenzione, dilaniata da un dispositivo eccentrico, costantemente sopra le righe. Può lasciare spiazzati, ed infine esausti, l’alto voltaggio verbale: perché, sia chiaro, la metafora circense rimane tale. Siamo in un teatro totalmente della parola (sia pure una parola grottescamente ingannatrice), in cui il circo è tutto scenografico, ovvero ridotto a dato atmosferico, mai performato. Giova però, in tal senso, l’abilità attoriale di Fausto Russo Alesi, che incarna successivamente tre figure chiave del dramma, altrettante metafore degli stadi evolutivi del potere dispotico: egli offre un microcosmo cui ancorare lo sguardo, magnetizzando intorno a sé l’enorme campo stimolativo dello spettacolo. Inoltre, proprio nel vorticoso bric à brac dell’opera, Longhi pare cogliere la dimensione postmoderna della scrittura: non è un caso che Commedia abbia conosciuto il maggior numero di messinscene proprio negli anni ‘80-’90. Cartina al tornasole di una fecondità che eccede ogni categorizzazione storica o storicistica: di fatto superato negli anni ’30, il grottesco canettiano avrebbe sposato nuove possibili figurazioni vicine all’estetica camp.
Nel lavoro di Lino Guanciale su Nozze, vale la pena premetterlo, non sarebbe giusto andare alla ricerca di fili rossi, di debiti allievo-maestro. Vi è, certo (potrebbe essere altrimenti?), lo stesso interesse per la profezia nella distopia; vi è anche una sostanziale fedeltà al testo, il rifiuto della riscrittura o di cannibalizzare la tara letteraria della drammaturgia. Cosicché la parola declamata si fa sempre carico d’essere contrappeso a un torrente fonetico che veicola l’energia distruttrice del caos. È d’altro canto una dialettica propriamente canettiana: il logos che si riproduce nel costante tentativo di sublimare la morte, senza mai veramente riuscirci. Eppure, il dispositivo s’infrange nella mancanza di un’idea fondante della scena, che si limita a configurarsi, oltre una granitica quarta parete, come gemmazione biunivoca dell’intreccio, a risolversi in una tradizionalissima composizione di scenografia e costumi. Sarebbe forse valso un approfondimento di quella trovata iniziale, della casa ripresentata en abyme, uno spazio-mondo ridotto a casa di bambola che avrebbe sgravato la scena del malcelato onere naturalista.
Né sembra necessario dare risalto al retropensiero critico (cui basterebbe già la scrittura, dal momento che è stata preservata) attraverso aggettivali chiose da Massa e potere. Quanto al lavoro sui personaggi, s’intravede una forzatura del procedimento letterario seguito dallo scrittore, le cui figure nascono per estremizzazione di un carattere fisico-psichico: Guanciale sembra spingere i giovani attori verso lo schematismo macchiettistico, verso la distorsione in maschera di un’interpretazione stereotipica a partire dal testo. Un procedimento che può trovare riscontro nel linguaggio letterario, meno in quello scenico. Ma su questo punto avrebbe giovato sperimentare proprio lo strumento della maschera acustica, spesso evocata da Longhi e Guanciale per ricordare l’idea canettiana dell’irriproducibilità bio-psicologica della voce-immagine di ciascuno. Strumento che avrebbe dovuto però trovare corpo più negli attori che nei personaggi. In direzione, cioè, della scena.
Resta dunque un dubbio, evidenziato già da alcuni studi di matrice letteraria sui due drammi: che sia proprio il ricorso alla maschera acustica a rendere intraducibile, se per traduzione intendiamo un processo biunivoco, il flusso verbale di Hochzeit e Komödie der Eitelkeit, un dialetto viennese la cui espressività, nell’aporia di un parlato-scritto, è lo specifico della forma drammatica. Si avverte dunque il desiderio di una destoricizzazione della drammaturgia, di una più radicale riscrittura.
Andrea Zangari
Bologna, Modena, Novembre, dicembre 2019
La commedia della vanità
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
violino Renata Lackó
cimbalom Sándor Radics
Nozze
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Lino Guanciale
scenografia a cura del Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
costumi Gianluca Sbicca
luci Tommaso Checcucci
assistente alla regia Luca D’Arrigo
dramaturg Lino Guanciale e Luca D’Arrigo
con Rocco Ancarola, Gabriele Anzaldi, Simone Baroni, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana