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Hillbrowfication di Constanza Macras. Si salvi chi danza

Costanza Macras e la sua compagnia Dorkypark presenta all’Arena del Sole, unica data italiana, Hillbrowfication. Nato da una domanda sul futuro del quartiere della città africana di Johannesburg rivolta a 22 bambini e ragazzi. Recensione

Photo by John Hogg/Dance Umbrella.

Trust the process. Così si legge nella homepage di Space Tales – Future cities, piattaforma di scambio multidisciplinare fra la compagnia berlinese Dorkypark, diretta da Constanza Macras, e alcuni enti teatrali di Johannesburg. Racconto urbano e futuro delle città: come a dire che è l’immaginazione narrativa a determinare i processi di cambiamento. I processi, ancora loro: ad essi allude anche quel titolo iterativo, Hillbrowfication. Lo spettacolo della coreografa argentina, la cui attesissima, unica data italiana è stata all’Arena del Sole, è un segmento di quel più ampio progetto, esito di un workshop cui hanno preso parte ventidue bambini e ragazzi di Johannesburg fra i sette e i ventitré anni. Hillbrow è uno dei quartieri più problematici della città sudafricana, metafora urbana dell’apartheid: da cluster per la popolazione bianca altoborghese, a ghetto sovrappopolatosi negli ultimi trent’anni per l’immigrazione di massa dai Paesi subsahariani. Eppure, o forse proprio per la necessità di convivere in un ambiente meticcio, Hillbrow è anche icona di tolleranza verso le minoranze, terreno fertile per un pensiero progressista, persino per un modello di aggregazione panafricano. A questi chiaroscuri Constanza Macras ha dedicato un lavoro cominciato nel 2015 con On fire, in cui alcuni danzatori sudafricani professionisti hanno popolato la scena con la sua numerosa compagnia. Hillbrowfication è invece la fatica di chi nell’Hillbrow Theatre e nei suoi workshop ha trovato uno spazio fisico ed un linguaggio per sentirsi accolto e ascoltato come performatore della propria realtà. Con loro, in scena, due soli attori di Dorkypark, ben riconoscibili tanto per il linguaggio corporeo che per i costumi tesi proprio a sottolinearne l’alienità. 

Photo by Themba

Non capita spesso di vedere incrociarsi sul palco una grande produzione internazionale e l’esito di un laboratorio, tanto più di tale impegno sociale e sociologico. Eppure, non c’è da stupirsi per chi conosce il lavoro di Dorkypark: Macras fa dell’intercultura una metodologia, traendo direttamente dal corpo-straniero forme coreutiche e drammaturgiche per l’ideazione scenica. Basti pensare a The ghosts (2015), spettacolo con e sugli acrobati cinesi abbandonati a sé stessi dal sistema statale dello spettacolo, senza diritti né prospettive, non appena il dato anagrafico ne ridimensiona le capacità agonistiche. La coincidenza fra gli universi sociali indagati e la materia vivente sulla scena produce una Babele di idiomi. Gli spettacoli di Macras sono sempre poliglotti, ma proprio il globetrotting evidenza l’invariabilità dello sfondo: la megalopoli come scena di vite alienate. Intorno a questa multiforme umanità e ai suoi spazi di crisi, l’apporto autoriale disegna coreografie che includono in un unicum anche la visione registica e drammaturgica. La cifra analitica di Macras è nella ricerca delle contraddizioni della realtà osservata e trasposta in spettacolo. Binario è anche il suo linguaggio: parola e gesto si tengono in relazioni non-biunivoche, come in uno specchio deformante. È un teatro-danza pienamente erede della lezione di Merce Cunningham, presso cui Macras si è formata: ricerca dell’asperità disgiuntiva fra suono (inteso anche come parola) e movimento. 

In Hillbrowfication tale sigla autoriale si confronta e si lascia penetrare dal dato sociologico a partire dalla domanda rivolta ai giovani performer: “come immagini Hillbrow nel futuro”? Il quesito legittima l’ambientazione di un paesaggio fantascientifico: una popolazione aliena ha invaso il pianeta ed eliminato chiunque non sapesse ballare. Selezione che, naturalmente, “ha risparmiato molti africani”, condannando invece la maggior parte degli occidentali a trovare riparo nella danza contemporanea, dati i suoi “molti stili”, che hanno consentito ad alcuni di salvarsi “rotolando sui pavimenti”. L’olocausto immaginario ha lasciato emergere implicite sfumature politiche: i conservatori hanno preferito la danza classica, i neo-lib quella concettuale. In questo regime coreocratico, gli abitanti di Hillbrow si interrogano su come sopravvivere nella nuova città, non meno povera e problematica di quella in cui vivono. Distopia o utopia?

Photo by Themba

“Afrofuturismo” è la parola che più si è spesa per descrivere le luci, i ritmi, i costumi di questo pastiche variopinto. La stessa Macras vi indica la fonte d’ispirazione della costruzione visiva e sonora. Il riferimento sembra immediato, anche a chi non ne conoscesse lo specifico culturale: quale futuro se non uno coloratissimo e vorticoso (futurismo à la Giacomo Balla, ma dalle tinte etniche), per una città metafora di un continente? Sarebbe questa una visione stereotipica, in cui il momento spettacolare rischia di fatto d’esaurirsi per molti spettatori, compiaciuti dal sovraccumulo di cliché visuali e ritmici: una visione dell’Africa consolatoria perché scontata e, in fondo, ancora implicitamente colonialista. L’afrofuturismo è invece un movimento multidisciplinare complesso e contradditorio, e così pure, a ben vedere, la drammaturgia di Hillbrowfication. Se infatti il piano coreografico valorizza l’apporto dei singoli accettandone le imprecisioni, risolvendosi in una regia compositiva attenta agli equilibri corali e alla scansione di scene tematicamente ben delimitate, la drammaturgia di Tamara Saphir introduce una complessità bifronte, tensione poetica che trasfigura quel “universo puberale di conflitto e ormoni”. Non si tratta di una parola dialogica, ma squisitamente lirica, che alterna toni caustici e nostalgici, a rimarcare la cifra dialettica dell’artista porteña: un piano di lettura più sottile (le risate ricorrenti del pubblico lasciano pensare a più di un fraintendimento), fondamentale nel trascendere quell’interpretazione stereotipica, che pure è evocata forse proprio per provocare pensiero. Così come l’afrofuturismo immaginò infatti uno spazio-tempo altro non come mero repertorio estetizzante, ma come unico scenario di riappropriazione dei diritti e della dignità negate nell’immanenza del reale, così l’”hillbrowificazione” è un processo di sublimazione e recriminazione, che traccia un futuro complesso, doloroso e magnifico come l’oggi, perché radicato nella condizione presente. 

Photo by John Hogg/Dance Umbrella

Strumento per volgere quest’assunzione critica del reale in festosa celebrazione è l’ironia. Basti pensare al provocatorio incipit di cui sopra, al mondo dominato dalla danza: volontà irriverente di sovvertire il dominio occidentale della tecnica e del mercato, tramite uno spostamento nel corpo e nel ritmo. Hillbrowfication prosegue dunque il progetto di On fire, ovvero la decostruzione dell’immagine dell’Africa prodotta dalla visione coloniale. Se in quel caso si trattava di reinventare il presente a partire dalla distruzione di una tradizione imposta, qui si dà la parola a chi, anagraficamente, ha il diritto e il dovere di generare una visione-narrazione autoctona. Che non è né antitetica né ancillare. Nel futuro immaginato a Hillbrow ci sono danze sfrenate come la pantsula, outfit etno-trash, cellulari a profusione, risse tutti contro tutti, liturgie sciamaniche, nostalgici canti rurali, l’hip-hop, la distorsione di Hallelujah di Leonard Cohen e la pantomima dell’incipit oltreumano di 2001 Odissea nello spazio. Tutto è mescolato, svuotato, esploso, e riempito di una luce aurorale. 

Andrea Zangari

Visto all’Arena del Sole, Bologna dicembre 2019

Hillbrowfication
a part of SPACE TALES, future cities
regia Constanza Macras
coreografia Constanza Macras e Lisi Estarás
drammaturgia Tamara Saphir
di e con Miki Shoji, Emil Bordás, John Sithole, Zibusiso Dube, Bigboy Ndlovu, Nompilo Hadebe, Rendani Dlamini, Karabo Kgatle, Tshepang Lembelo, Brandon Magengelele, Jackson Mogotlane, Bongani Mangena, Tisetso Masilo, Vusimuzi Magoro, Amahle Mene, Sandile Mtembo, Thato Ndlovu, Simiso Msimango, Blessing Opoku, Pearl Segwagwa, Ukho Somadlaka, Lwandle Lwandile Thabede
fashion designer Roman Handt
produzione Constanza Macras | Dorkypark
in coproduzione con Outreach Foundation, Hillbrow Theatre Project e Maxim Gorki Theater Berlin
con il supporto di Goethe-Institut
e il finanziamento di TURN Fonds of the Kulturstiftung des Bundes
spettacolo presentato in Italia con il Patrocino del Goethe Institut Mailand

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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