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Fronte del porto napoletano. Credere o meno

Alessandro Gassmann dirige Fronte del porto, a partire dalla sceneggiatura del film omonimo diretto da Elia Kazan, ambientandola a Napoli. Recensione

Foto Ufficio Stampa

“Se non si crede neanche un po’ a ciò che si vede su uno schermo, non è il caso di perdere tempo con il cinema”, sosteneva Serge Daney. E a teatro? Val la pena “perderci del tempo”, tra l’altro, se almeno un po’ si crede a ciò che succede sul palco. Se in scena il pianto per Ecuba risulta credibile, se anche lo spazio scenico più angusto può diventare – previo appello all’immaginazione dello spettatore – un campo di battaglia, se davvero Nina somiglia a un Gabbiano e si rendono sensibili e plausibili anche i moti interiori più impalpabili.

E se abbiamo accostato la dichiarazione di un critico cinematografico alla ricerca di una verità espressiva plausibile a teatro, è perché proprio la credibilità sembra la posta in gioco in Fronte del porto, con la regia di Alessandro Gassmann. Spettacolo che ha visto – sul palco del Teatro Argentina – per altro, schermi e videoproiezioni e discende dalla sceneggiatura di Budd Schulberg per il leggendario film (1954) di Elia Kazan con Marlon Brando, ma tradotta nella Napoli di 40 anni fa nell’adattamento di Enrico Ianniello. Proprio la tensione a una verità espressiva da coltivarsi nel lavoro attoriale, a un “vivere in scena”, era fulcro del Metodo insegnato all’Actors Studio, fondato dallo stesso Kazan e diretto da Lee Strasberg, che aveva uno dei suoi principali modelli in certo lavoro stanislavksijano.

foto Ufficio stampa

Dal New Jersey al Golfo di Napoli, dunque, per una vicenda che nasceva da una maxi inchiesta (per cui il giornalista Malcom Johnson vinse anche il Premio Pulitzer) sulla criminalità che organizzava e sottometteva le attività portuali a scapito di una classe poco capace di reagire. La finzione artistica, incentrata sul nodo tradimento/credenza, muove dall’assassinio della voce scomoda, di chi voleva denunciare i soprusi e le ingiustizie e che però causano una catena di altre bugie, altri sotterfugi, in un mondo in cui la verità è lampante e però vittima di omertà, per cui non sono tanto gli omicidi a risollevare gli animi, quanto una presa di coscienza che muove dalla resa all’amore. Come un novello Giuda riscattato, Francesco Gargiulo (Daniele Russo nel ruolo che fu di Brando) è difatti colui che ha innescato, suo malgrado, l’assassinio, lo stesso che alla fine muoverà la rivolta anche a discapito della vita del fratello invischiato nei loschi affari, mosso dalla sincerità del sentimento verso Elena (Francesca De Nicolais), la sorella della prima vittima.

La strategia attraverso la quale lo spettacolo punta a guadagnare in credibilità (e coinvolgimento, e tempo), è tutta puntata sull’avvicinamento, spaziale e cronologico, dell’azione, ricollocata in una dimensione immediatamente riconoscibile in quanto fortemente codificata nell’immaginario italiano (i problemi del napoletano tra crimine organizzato e omertà, iconografie in certo modo “tipiche” del boss negli atteggiamenti e abbigliamento, ecc.). Insieme, sembrerebbero andare in questa direzione anche le proiezioni, topos delle regie gassmaniane, come un render credibile quanto non potrebbe vedersi nelle limitazioni spaziali di scena: la prospettiva di un vicolo cittadino, del porto, l’interno di una chiesa, come elementi della videoscenografia dei magazzini portuali, e pioggia e mare notturni. 

foto ufficio stampa

Eppure, non basta “veder di più” di qualcosa che uno spazio scenico ovviamente limitato non può offrire, non basta mostrare un’azione come più vicina nel tempo e nello spazio perché la si creda. Occorre un “di più di lavoro” – registico, attoriale, ecc. – affinché si possa sentirla, affinché si possa decidere di perdere tempo con qualcosa che si sa “finto”, e tenere però per vera quella sensazione. Schermi e palcoscenici sono anche luoghi in cui cose che sappiamo non esser vere diventano credibili sotto i nostri occhi, o vera è la sensazione che trasmettono. Cade un corpo dal tetto, lo vediamo proiettato sul velatino di proscenio,  ma è un didascalismo che nulla aggiunge alla mancanza del fantasma che aleggia per tutto lo spettacolo, che muove l’azione pur nella sua assenza. Così come il gancio della gru, anch’esso proiettato, elemento che vorrebbe suggerire profondità a una scena che invece è costruita sulla bidimensionalità di scenografie, la cui unica differenza con le macchine barocche secentesche è l’essere virtualmente in movimento e non soltanto dipinte. Anche la volontà di rompere questa bidimensione moltiplicando il palco grazie ai pannelli mobili, in grado di suddividere lo spazio in esterni e interni, sembra più ragionare per addizione, quasi come a sentire l’obbligo di dover dare diverse coordinate spaziali, più che per una reale (trasformativa) necessità scenica. Questa volontà che vorrebbe consegnare quanto più possibile l’illusione di realtà tipica del mezzo cinematografico, qui fa i conti con un mezzo, quello teatrale, che, quando non decide di scalzare la dimensione rappresentativa, funziona il più delle volte per sottrazione, per simboli, non per impossibile tendenza all’imitazione del vero.

Foto Mario Spada

La verità espressiva non è data in partenza, ma è frutto di un esercizio progressivo, processuale. E su questo ha insistito, talora fino all’eccesso, proprio la scuola strasberghiana. Non solo: alla conquista di una verità espressiva, talora Kazan regista tendeva proprio lavorando per un “di più” di stilizzazione (dell’inquadratura, della fotografia) che faceva da controcanto al naturalismo della recitazione, spesso scongiurandone gli eccessi emotivi altrimenti poco credibili. Si pensi, ad esempio, all’inquadratura di Brando in Un tram che si chiama desiderio, visto a picco dall’alto mentre dal cortile urla alla sua sposa, o a quelle oblique, in un teso confronto a tavola tra James Dean e suo padre ne La valle dell’Eden. Perché, per credere alla loro disperazione, non basta che Stanley Kowalski o Cal Trask urlino: occorre che del loro stato d’animo si abbia una sensazione, resa in forma anche visiva. 

E, allo stesso modo, non basta vedere un porto per sentirlo, non basta udire un urlo per sentirlo, né la lingua napoletana per dire “Napoli”. Non basta l’alternanza piatta tra pacatezza e aggressività per lasciarsi intimorire dal boss Giggino Compare, così come non convince il prete, poco incisivo nel suo tentativo da non partenopeo di mostrare la fatica nel convincere gli altri a reagire. A poco serve il nervosismo indeciso di Gargiulo, così come la rabbia granitica di Elena. Si ha quindi l’impressione, qui, che il lavoro di scrittura scenica si limiti a farle vedere, come se con questo fossero automaticamente acquisite in partenza credibilità e persuasione.

In sostanza, non si tratta di mostrare delinquenza e sfruttamento sul lavoro (e di raccontare l’itinerario dalla vigliaccheria complice al riscatto del protagonista, e dall’assenza di coesione alla solidarietà di classe tra i lavoratori portuali) contro uno scenario napoletano a tutti noto, non si tratta di “farli vedere” come già li conosciamo perché siano credibili. Quanto, forse, di far vedere e sentire come mai abbiamo visto prima qualcosa che però tutti conosciamo. 

Antonio Capocasale, Viviana Raciti

Visto al Teatro di Roma, dicembre 2019

FRONTE DEL PORTO
di Budd Schulberg
uno spettacolo di Alessandro Gassmann
traduzione e adattamento Enrico Ianniello
con Daniele Russo
e con Emanuele Maria Basso, Antimo Casertano, Antonio D’Avino, Sergio Del Prete, Francesca De Nicolais
Vincenzo Esposito, Ernesto Lama, Daniele Marino, Biagio Musella, Pierluigi Tortora, Bruno Tràmice
Scene Alessandro Gassmann – costumi Mariano Tufano – luci Marco Palmieri
videografie Marco Schiavoni – musiche Pivio e Aldo De Scalzi – sound designer Alessio Foglia
aiuto regia Emanuele Maria Basso

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