Massimiliano Civica traduce e dirige una nuova Antigone di Sofocle, con Monica Piseddu e Oscar De Summa. Prima assoluta al Teatro Fabbricone di Prato. Recensione.
Al teatro spetta un compito arduo e magnifico: far dialogare spazio e tempo con una moltiplicazione di altro spazio e altro tempo, coniugando insieme i piani differenti in un’unica dimensione. Prendiamo il caso di una Antigone: Massimiliano Civica, regista della versione al debutto al Teatro Fabbricone di Prato, compie un primo viaggio nel tempo e nello spazio, affonda nelle parole di Sofocle riportandone alla luce un sentimento originario in traduzione, si cala quindi nell’epoca pre-ellenistica come avesse una sonda nel cuore e nella mente, ma al ritorno dal suo viaggio gli è richiesto di immaginare uno spazio scenico in cui quelle parole devono, sempre devono, accadere; e pertanto, se vogliamo categorizzare quanto detto, dalla profondità dello spirito che permette di affiancare l’intenzione di un autore ultramillenario, giungere alla vastità spaziale, da definire, o meglio, delimitare entro i confini di una possibile percezione. Per essere più precisi: ricondurre sensazioni volutamente dispersive, erranti nell’animo di un viaggiatore del tempo, all’interno di un ambiente ideale e circoscritto, perché tali sensazioni possano esprimersi in una forma il più possibile compiuta.
Ed è allora la geometria prima protagonista dello spettacolo, che, se da un lato esprime quella compiutezza, dall’altro espone al sostanziale pericolo di una palpabile freddezza: la luce crea uno spazio rettangolare, una simmetria equidistante che ritaglia l’interno del palcoscenico, fino a formare una stessa forma dalle proporzioni ridotte; gli attori, chiamati ad esperire le misure verbali del testo, senza mai uscire dal campo visivo degli spettatori perimetrano la scena del loro passo, come a voler disegnare gli equilibri della legge, tema cardine dell’opera. È in questo contesto – habitat – che l’offerta di quelle già note parole, rinvenute dall’oscurità della comprensione, esplode a farsi carico di un nuovo senso, come si pronunciassero per – solo al teatro riesce questa magia di esistere sempre come fosse – la prima volta. Le intenzioni della regia, dunque, grazie soprattutto al disegno discreto e intenso di Gianni Staropoli, ravvivano una situazione in cui il tragico dell’Antigone è già dato, perché già noti i fatti, perché già in scena il corpo irredento di Polinice, fratello nemico di un fratello accolto e, pertanto, egli, rifiutato; è dunque allo stesso tempo di lato alla scena ma al centro della vicenda e di un contesto che diviene senza di lui, anzi, in virtù della sua morte inarrestabile compie il proprio corso. Antigone e Creonte sono fin dal principio antagonisti di una storia già accaduta, ora in mano a un divenire sempre più inesorabile: la giovane – una rigorosa Monica Piseddu – spinge il proprio personaggio sul confine dell’ammissibilità, il re – da possente a smarrito Oscar De Summa – non può che simulare l’esercizio di ciò che non governa; attorno è l’universo di una Tebe che già troppo dolore conosce, Ismene ed Euridice (Monica Demuru) nulla possono con la forza dei legami familiari, il Coro (Corifeo è Marcello Sambati) non fa che sottolineare quel “debito di dolore da pagare” che la Guardia (splendida l’intuizione di Francesco Rotelli, anche Emone, straordinario popolano romanesco che forse più di tutti ha chiaro il tragico disegno) non può che mettere in atto.
Da questa Antigone Civica trae un importante insegnamento per l’epoca contemporanea e, come mirabilmente indicato nel denso libretto che accompagna l’opera, ne rivela l’inaccessibilità tragica, laddove il mondo attuale vive unicamente di melodrammi, in luogo proprio del tragico così poco frequentato; ed ecco allora che Antigone, in una filologica immersione nel senso ultimo del testo sofocleo, diviene quasi – chi scrive si rende responsabile della provocazione – un personaggio minore, perché in fondo l’eroina non è che un movente verso l’unico reale dialogo con gli dei e i loro messaggeri: quello di Creonte, vero protagonista di una scelta che determina un effetto detonante oltre ogni previsione, non perché sia stato manomesso un codice degli dei, ma per la sovversione della legge degli uomini i quali, in altezza d’ingegno, sanno mirare proprio alla legge divina come modello e sintomo d’evoluzione.
Antigone – sorella di eroe e insieme di antieroe, figlia e nipote di re – si mostra così tanto umana e così capace di evocare la legge divina che è contemporaneamente il dito e la luna di Sofocle, il reato e il corpo del reato, per meglio dire lo svelamento dell’incongruenza e la manifestazione più alta della stessa. Civica intuisce questa dualità di ognuno dei personaggi, Creonte primo tra tutti, il quale, sedotto dal proprio potere a tal punto da non saperlo più esercitare, mostra così la propria fallibilità e dunque, con grande acume da parte del regista e traduttore, la propria inusitata umanità: «Ora devi governare», gli dirà in fondo il Corifeo, ora che tutto è perduto, ora che la sconfitta ha sancito il fallimento, ora è tempo di costruire la società degli uomini giusti.
Simone Nebbia
Teatro Fabbricone, Prato – Novembre 2019
ANTIGONE
di Sofocle
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Oscar De Summa (Creonte) Monica Demuru (Ismene, Tiresia, Euridice) Monica Piseddu (Antigone) Francesco Rotelli (Guardia, Emone) Marcello Sambati (Corifeo)
traduzione e adattamento Massimiliano Civica
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Armunia residenze artistiche e Manifatture Digitali Cinema Prato – Fondazione Sistema Toscana
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
fantoccio realizzato da Paola Tintinelli
assistente alla regia Elena Rosa
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