Intervista al regista Luigi De Angelis e all’attore Andrea Argentieri, che hanno appena ricevuto due Ubu per il Progetto speciale e Attore under 35 sul progetto in tre tappe di Fanny & Alexander Se questo è Levi.
“Ma sembra proprio lui…”. Così si sente dire dalla platea; più volte. L’aderenza al modello, la capacità di farsi strumento, amplificatore di voci, espressioni, memorie, quel sembrare non io ma altro: Andrea Argentieri assume su di sé la performatività implicita di Primo Levi in questo progetto tripartito di Fanny e Alexander, diretto da Luigi De Angelis per la drammaturgia di Chiara Lagani. Ma lui, l’oggetto, non è personaggio di finzione letteraria, fosse anche ritagliata su una base storicamente comprovata. Il Levi cui si fa costantemente, senza scampo, riferimento, è quella fisicità composta e quella voce appena riscaldata dall’inflessione dialettale, è quel tono pacato, razionale, riflessivo, mai deturpato dall’odio. È, sì, il Levi testimone, il Levi scrittore, il chimico. Ma è soprattutto il Levi oratore, la cui scrittura, racconta Luigi De Angelis «deriva fortemente dall’oralità», da quel bisogno di raccontare, di non rinchiudersi e di passare la testimonianza, come attestava ne La tregua, all’interno del quale Levi ricorda che fin dal viaggio interminabile di ritorno sentiva il bisogno di parlare e di condividere quanto gli fosse accaduto con chiunque gli capitasse a tiro.
La concezione site specific di Se questo è Levi originariamente pensata per tre luoghi idealmente correlati alla sua biografia, cede il passo ad altri luoghi, che in una certa misura riescono a evocare quelle dimensioni relazionali: l’ambiente più raccolto, quasi casalingo della prima tappa (che a Roma aveva trovato sede nel foyer del Valle), quello da conferenza nel secondo (un’algida e moderna sala presso Palazzo Mattei) e infine il più inquisitorio per il terzo (una meravigliosa sala lettura della Biblioteca Angelica). A ciascuno di essi corrispondono anche diverse fonti, come si diceva prima, facendo quasi più riferimento a quelle non direttamente letterarie: interviste (come quella con Carlo Gozzi, del 1985, restituita nella prima parte, Se questo è un uomo), documentari (l’ultimo atto, Sommersi e i salvati, è creato a partire da una sorta di interrogatorio portato avanti da una classe di ragazzi di Pesaro cui Levi si offrì, il cui filmato adesso è su You Tube). Poi è chiaro che non è affatto assente l’opera di Levi, per cui, ad esempio, nella seconda parte dal titolo Il sistema periodico, sono presenti alcuni brani dal libro omonimo.
Dicevamo “non direttamente” perché anche il parlato più spontaneo dell’autore presenta una sua struttura riconoscibile e costante, tanto quanto la forma scritta doveva a sua volta recuperare le dimensioni dell’oralità. A proposito di questi passaggi da un medium all’altro, è proprio Levi, ricorda De Angelis, a sottolineare la necessità di non tradire la forma originaria dell’opera, di non modificare «l’urgenza della testimonianza», in favore di quel cosiddetto «super-realismo». Ad esempio, ripercorrendo la corrispondenza con il suo traduttore tedesco alla fine de sommersi e i salvati, Levi dichiarava come, soprattutto per Se questo è un uomo, avrebbe voluto intendere quello che per lui era comunque un compromesso – la traduzione – come «una forma di magnetofono della mia esperienza», in grado di recuperare nella parola scritta registrando esattamente grana, qualità ed esatta corrispondenza di ogni singolo termine pronunciato. Così dunque questo progetto «cerca di fare propria questa formulazione di Levi, provando ad essere il più possibile antenna, tramite, per captare quella oralità che oggi risuona nel presente».
Allora l’idea di super-realismo citata da Levi bene si sposa con molte delle caratteristiche di questo progetto, dall’essenzialità degli elementi scenici – quasi a voler isolare la materia fosse anche a discapito del resto – all’uso dell’eterodirezione, intesa qui come un ulteriore passaggio di testimonianza. In questa asciugatura esponenziale, ci si potrebbe domandare dove e come si innesti, come e cosa scelga l’artista in questo recinto apparentemente stretto, su cosa possa librarsi: ma, risponde De Angelis, «se si mettessero delle sovrastrutture, delle poetiche altre, il rischio è che questa forma arrivi meno diretta a chi ascolta. Bisogna tenere tutto, il suo incespicare, quella precisa modalità del parlato. Fatta con le sovrastrutture del teatro quella vicinanza sarebbe stata meno forte per me. Così, l’idea, dal punto di vista registico, è stata quella di puntare su un’architettura dei testi e dei luoghi; questo solo montaggio degli elementi di base doveva essere sufficiente, nient’altro».
Ma dietro questa essenzialità si annida una ricerca profondissima su come rendere la figura di Levi. È così che ce ne parla Argentieri: «Per me fin dall’inizio, fin da quelli che definirei “primi ascolti” più che “prime prove”, l’obiettivo cui miravo era quello di “farmi abitare da una voce”. La mia prima e unica decisione artistica è stata quella di fare molto spazio, di essere il più accogliente possibile rispetto a quanto che percepivo. La voce è diventata come un fluido: dalle orecchie è iniziata ad andare in tutto il corpo, come se diventassi anche io un magnetofono. Ho lasciato molto lavorare la mia parte istintiva». Apriamo un attimo una parentesi sull’eterodirezione, metodo di lavoro tipico di Fanny & Alexander, che consiste nel dirigere gli attori tramite indicazioni via auricolari in tempo reale: in questo caso a condurre Argentieri non è solo, o non è soprattutto De Angelis, quanto Primo Levi stesso, le cui parole vengono incessantemente inoltrate alle orecchie dell’attore, che così viene sottoposto a uno stimolo sensoriale costante, che poi si tramuta in un lavoro interpretativo sottile ma pervasivo. Si tratta, dunque, di una presenza corpo/voce che «reagisce all’impulso invece che iniziare a elaborare un copione», per una pratica che concretamente si serve di ripetuti ascolti profondi e delle osservazioni prolungate dei video, così da poter assorbire quanto più possibile movenze, gestualità, prosodia e silenzi. «Unendo le due cose, è inevitabile che anche a livello muscolare sento quasi la sua faccia, cerco di farla e non di sentirla. Io lo vedo dall’espressione della gente, che inizia a guardarmi e ad ascoltarmi con un’attenzione che muta nel corso della maratona. La descriverei come una meditazione controllata: ho il comando della cosa, ma faccio molto spazio per poter restituire e trasmettere tutto ciò che sento, le inflessioni, i temporeggiamenti, gli incespichi… Si collega a una mia risonanza: io non lo sento solo con le orecchie ma con la mia emozione, che trasmetto tutto il tempo, senza far scattare quella parte del cervello più raziocinante». De Angelis definisce questa pratica «abitare la voce», in grado di recuperare «la componente animica, quasi come fosse l’impronta dello spirito e della psiche di una persona. Nelle registrazione ci sono nascoste molte questioni intime; così come nei nostri volti, anche nelle micro-variazioni nella filigrane della voce si nascondono anche i traumi. Non potrà essere mai una restituzione tecnica».
Specialmente nella terza performance, interattiva, Argentieri è mediatore tra la sua voce, quella di Levi e le domande poste dal pubblico. Qui le 18 questioni, presentate a tutti su un foglio, diventano la base per una costruzione drammaturgica in itinere, il cui ordine viene dettato assieme, dalla spinta di ciascun spettatore che sceglie di vestire, fosse anche solo per un momento, i panni dell’interrogatore. Bagnati dalle parole precedenti, come assuefatti dalla presenza di Levi, accettiamo il patto del “come se” e non vediamo più lo spettacolo, ma assistiamo davvero a un’intervista, che ha tempi e ritmi reali. «Adoro quei momenti di sospensione – afferma De Angelis – quegli istanti di vuoto che si creano per un attimo. Il ritmo registico è dato dalle persone, dall’ansietà, dalla velocità di dover mandare dalla consolle le risposte estrapolate di Levi rispetto alle domande poste di volta in volta… Tutto questo crea una tensione tra tutti, molto forte. Ti dimentichi della finzione, del contratto iniziale che si era creato. Lascia spazio a un’altra ricezione. È il luogo in cui avvertiamo più commozione, non solo per quello che sentiamo».
Dimentichiamo chi abbiamo davanti, dimentichiamo il questionario, alcuni scrivono domande diverse, si percepisce una tensione altissima, come se tanto altro aleggi nell’aria, quell’indicibile sul baratro dell’essere domandato. Lo chiedo ad Argentieri: «a volte succedono degli imprevisti, come se volessero parlare al suo spirito, ma io sono molto ligio all’eterodirezione e molto rispettoso nei confronti di Levi. In quelle situazioni io non improvviso mai niente, tutto deve essere inerente alle parole da lui pronunciate. La prima volta nessuno osava pronunciare la numero 15 che è quella se Levi avesse mai rinunciato a voltare le spalle alla vita. È successo anche altre volte, c’è un pudore, crea turbamento ogni volta. Una volta a San Gimignano abbiamo simulato l’arrivo di Levi durante una conferenza stampa e Daria Balduccelli (ideatrice e curatrice di Nottilucente) poneva le prime due domande dei Sommersi e i salvati; un signore probabilmente tedesco ha iniziato a inveire urlando contro di noi, dicendo che erano cose passate e sepolte, senza accorgersi che si trattasse di una finzione. Alcune signore in un’altra occasione, mi hanno chiesto come avessi fatto a stare nei campi di concentramento data la mia giovane età, pensando che li avessi vissuti sul serio… ».
Viviana Raciti
Teatro di Roma, novembre 2019
Se questo è Levi
performance itinerante sull’opera di Primo Levi
di Chiara Lagani
con Andrea Argentieri
regia Luigi De Angelis
foto di Enrico Fedrigoli